4.7.23

Catturati nel Donbass, Slavyk e Serhiy sono passati dalle carceri russe a quelle cecene. Ora, dopo uno scambio di soldati alla frontiera, sono in una clinica ucraina per la riabilitazione dei prigionieri di guerra. E sono inseparabili

repubblica del 2\72023



Sente ancora le mani che non ha più. Assorto nel ricordo della trincea riempita di neve sporca del suo stesso sangue, muove i monconi delle braccia per indicare a chi ascolta il punto da cui è sbucato il carro armato russo. Sferra cazzotti immaginari ai suoi aguzzini, quando il filo della memoria lo trascina di nuovo nel pozzo di disumanità che è stata la prigione dei separatisti a Donetsk. Il cuore di Slavyk si è rassegnato, il cervello no: continua a ingannarlo, facendogli percepire gli arti. Pure adesso che vuole grattarsi la testa, le sinapsi gli trasmettono la sensazione dell’articolazione del polso, del metacarpo,
delle dita, e il tentativo va a vuoto di qualche centimetro. Ma quest’uomo non si deprime mai. Sorride, come a dire: tu che mi fissi con lo sguardo contrito, rilassati, non mi serve la tua compassione, mi serve solo il tempo per abituarmi a un corpo più corto. Infatti, eccolo che prende le misure e riesce strusciarsi sopra l’orecchio, scacciando insieme il prurito e la pietà dell’osservatore. Lo spirito positivo di Slavyk ha lasciato senza parole i dottori della clinica militare che cura il corpo, la mente, gli incubi, le allucinazioni sonore, i tremori che anticipano l’insonnia e le mille forme di stress sviluppate da chi esce dalle carceri di guerra. Perché in fondo la sua non è una storia di depressione e solitudine, è la storia di un’amicizia spettacolare nata in cattività. A Slavyk hanno amputato anche le gambe. La destra sopra al ginocchio, la sinistra a metà del polpaccio. Eppure di notte non sogna di correre o saltare, sogna le mani. Era bravo con le mani. Le infilava nel cofano delle macchine scassate e quando le tirava fuori il motore cantava che pareva nuovo. Vyacheslav Levytskyy, detto Slavyk, 40 anni, gran meccanico e abile fabbro. Poi soldato. Arruolato il 22 marzo 2022, catturato il 25 febbraio 2023, venduto ai ceceni di Kadyrov, detenuto per tre mesi a Grozny. Senza braccia, senza gambe, due buchi nella pancia. «Serhiy, mi fai fumare?». Una storia di amicizia Una storia di amicizia, si diceva. Concetto nobile, alto, tanto facile da toccare mentre si affronta insieme il pericolo immanente della battaglia quanto complicato da mantenere dopo, una volta in salvo, quando si torna a casa e non si è più quelli di prima ma serve ancora aiuto. Concetto qui personificato meravigliosamente da Serhiy Potremai, 51 anni, veterano della prima guerra del Donbass, dislocato nella regione del Donetsk a gennaio di quest’anno, catturato il 24 febbraio. Un giorno prima di Slayvyk. Ha spinto lentamente la carrozzina fino al piccolo bungalow di legno nel giardino della clinica. È una giornata tiepida, gli ex prigionieri escono all’aria aperta, fa bene all’umore. Slavyk lo ha cinto al collo con quel che gli resta delle braccia, Serhiy lo ha sollevato e lo ha messo delicatamente a sedere sulla panca. Afferra il marsupio nero che ha a tracolla, apre un pacchetto di Kozak, estrae una sigaretta, se l’accende in bocca e la appoggia alle labbra dell’altro aspettando di sentirlo inspirare una nuvola di nicotina. Serhiy è le mani e i piedi di Slavyk. Di più. Talvolta ne è anche la memoria e il sostegno alla parola. Capita che, nel racconto della prigionia vissuta insieme, uno cominci la frase e l’altro la finisca. Ancora un tiro, Serhiy. Tiene a lungo il fumo nei polmoni, espira. «Grazie amico. Dunque, dov’eravamo?». Catturato dai separatisti Alla trincea. «Già, la trincea… Era notte, stavo in prima linea e sono stato colpito da un carro armato e poi dai mortai. Le schegge mi hanno frantumato le gambe. E un proiettile di fucile mi ha centrato allo stomaco, trapassandomi da parte a parte». È bastato uno sguardo e Serhiy gli ha alzato la maglietta fin sopra l’ombelico per mostrare una cicatrice lunga dieci centimetri e un taglio sotto la cassa toracica. «Mi sono buttato nella trincea e sono rimasto lì per sette giorni e sette notti. Non sanguinavo molto, probabilmente perché le ferite erano bruciate e perché faceva troppo freddo. Non potevo camminare, ho dovuto strisciare da una trincea all’altra facendomi forza con le braccia. È così che mi si sono congelate le mani. Pregavo di veder arrivare i nostri soldati. Avevo l’acqua delle razioni dell’esercito e pure del cibo, sono riuscito soltanto a bere, non sentivo la fame. Sette bottiglie da un litro e mezzo. Una mattina sono comparsi i separatisti del Donetsk, stavano raccogliendo i loro cadaveri. Li ho riconosciuti dalle divise. Mi hanno visto, mi hanno caricato su un fuoristrada e trasferito in un edificio che ha, all’interno, una cella». L’amico lo segue con attenzione, chissà quante volte a Grozny lo ha sentito ripetere le fasi della sua cattura e cosa ha dovuto subire dopo. Spazza via la cenere di sigaretta cadutagli sul pantalone, e ascolta, ancora, una vicenda che conosce a memoria. Pestato e venduto ai ceceni «Quando mi hanno preso avevo le mani con le dita blu e gonfie, le gambe rotte con degli squarci grossi così…». Il cervello ingannatore di Slavyk di nuovo gli fa fare con le braccia i gesti di un tempo, di quando era integro. «...e quelli invece di portarmi in ospedale hanno semplicemente applicato delle bende. Mi hanno prestato il primo soccorso e poi mi hanno pestato a sangue con una pala, frustandomi con un tondino di ferro. Assurdo. Volevano sapere la posizione delle nostre truppe e degli obici. Gli ho risposto che non lo sapevo, che quella è roba per artiglieri e io ero solo un autista. Per punizione mi hanno fatto andare da una stanza all’altra carponi sulle ginocchia. Il dolore era insopportabile. Non gli ho detto niente, neanche una parola. Si sono arrabbiati ancora di più e mi hanno sbattuto in uno scantinato buio. Non so quanto mi abbiano tenuto lì, nell’oscurità ho perso il senso del tempo. So solo che a un certo punto mi sono venuti a prelevare dicendomi che ero stato venduto ai ceceni di Kadyrov. Pronunciato quel nome, ho pensato che per me fosse davvero arrivata la fine. Invece, è successa una cosa inaspettata…». Slavyk non sa a quanto sta la sua pelle al mercato nero dei prigionieri, e, a dirla tutta, poco gli importa. Non è più affar suo. La compravendita dei vinti serve all’esercito di Kadyrov per avere qualcuno da scambiare con le forze armate ucraine e potersi riprendere i miliziani ceceni catturati. La clinica dei borderline Il sessantenne Oleksandr Blinov è il vice-direttore della clinica della riabilitazione, di cui si può dire che si trova in una regione centrale dell’Ucraina senza dare l’esatta ubicazione per motivi di sicurezza. Spiega che prima dell’invasione questo posto che assomiglia a una casa di riposo lavorava solo per i militari della Guardia Nazionale, dopo il 24 febbraio 2022 è stato riadattato in fretta a camera di decompressione della psiche di chi torna dopo uno scambio di prigionieri. «Non sono autorizzato a rivelare quanti pazienti abbiamo, né se sono aumentati o diminuiti nell’ultimo periodo. Stanno qui obbligatoriamente per quindici giorni, poi una commissione medica composta da psicologi, psichiatri, fisiatri e medici generici li valuta e decide se hanno bisogno di essere sottoposti a trattamenti ulteriori con gli specialisti, se devono rimanere qui altri giorni oppure se possono andare a casa». E più di questo, da Blinov, non si scuce. «Sono tutti classificabili come borderline, lo stadio precedente al caso psichiatrico», dicono i terapisti della riabilitazione. I soldati arrivano che hanno perso peso, alcuni anche cinquanta chili, c’è chi non è più in grado di addormentarsi, tutti fiaccati dagli effetti della sindrome post-traumatica da stress e qualcuno inseguito dai flashback delle torture e della costrizione. Sono il tormento dei liberati, i flashback. Perché non si fanno annunciare, si presentano e basta come ospiti sgraditi, penetrando la fragilità di uomini senza più un baricentro emotivo. Flashback Dalle cartelle cliniche, reali, di pazienti che sono stati o sono tuttora in cura: un incursore dell’esercito, neanche quarant’anni, sta facendo fisioterapia alle gambe per imparare a farle andare come prima e all’improvviso avverte la sensazione fisica della corda che in prigione gli stringeva le braccia (flashback tattile); in mensa un soldato del battaglione Azov lamenta di percepire il nastro adesivo avvolto attorno alla testa e il sacchetto di plastica con cui i carcerieri lo hanno quasi soffocato, tanto realistico da avvertire dolore agli occhi pur essendo al sicuro davanti a una zuppa; un artigliere è andato in crisi perché crede di aver sentito il rumore dello scotch da imballaggio quando viene tirato e delle chiavi della cella (flashback uditivo); un comandante di battaglione stava passeggiando sul prato accanto al dormitorio dove i giardinieri hanno rasato il prato e l’odore dell’erba appena tagliata lo ha riportato al tanfo dei cadaveri carbonizzati, provocandogli un attacco di panico.


Serhiy, il cui corpo è miracolosamente intatto, è le gambe e le braccia dell’amico mutilato: lo spinge sulla sedia a rotelle, gli accende le sigarette, lo aiuta in tutto La loro amicizia è nata nei campi di detenzione di Kadyrov, a Grozny. Sotto, una delle sale per la riabilitazione della clinica 

 Ora scambia le foglie per bombe. Amputato (e salvato) a Grozny Slavyk e Serhiy, dentro, non sono così rotti come gli altri perché, ed ecco la cosa inaspettata cui accennava, sono stati trattati bene dalle guardie musulmane del feroce Kadyirov. «Forse perché gli è imposto dalla loro religione, ipotizzo». I due amici sono gli unici nella clinica ad essere tornati dalla detenzione in Cecenia. «A Grozny mi hanno subito portato in ospedale, in terapia intensiva. Dopo una settimana o qualcosa di più in ostaggio dei separatisti ero senza speranze, le dita gonfie e blu, le mani infette, le gambe ormai immobili, le ferite ancora aperte e purulente, lo stomaco in fiamme. Sono stato visitato da un dottore capace e umano. Mi ha riempito di antidolorifici e antibiotici che mi hanno fatto stare meglio, mi ha fatto le trasfusioni di sangue, però una mattina è entrato nella stanza con una cartella bianca in mano e ha detto che doveva amputarmi tutto, gambe e braccia, perché ormai erano in cancrena. Ho firmato il consenso senza pensarci troppo, l’idea di poter rivedere mio figlio Dmytro e mia moglie Natalia mi ha dato coraggio. L’operazione è andata bene ma…». Pausa. La frase la termina Serhiy. «...se a Donetsk lo avessero portato subito sotto i ferri invece di picchiarlo per estorcergli informazioni che non aveva, avrebbe ancora le mani». Le strade di Slavyk e Serhiy si incrociano adesso, quando il primo esce dall’ospedale di Grozny e il secondo viene condotto con gli altri prigionieri ucraini che Kadyrov fa tenere in un seminterrato senza finestre di una palazzina della polizia, nella periferia della capitale L’angelo protettore «Quando l’ho visto arrivare ho capito che era necessario prendersi cura di lui, altrimenti lo avremmo perso». Ora è Serhiy a raccontare. «Eravamo 39 prigionieri ucraini e i ceceni ci hanno fatto capire immediatamente che Slavyk era sotto la nostra responsabilità, perché le guardie non avrebbero mosso un dito per lui. Quindi ho fatto ciò che andava fatto e ciò che ci insegna l’etica militare. Siamo due soldati e i soldati si aiutano sempre nelle difficoltà». Come Achille e Patroclo, ma un Patroclo mutilato. «Lo prendevo in braccio per portarlo in bagno a pisciare, lo prendevo in braccio per spostarlo dal letto sulla carrozzina, lo prendevo in braccio per fargli prendere ossigeno alzandolo fino a una grata nel soffitto. Lo facevo fumare. Muovevo per lui le pedine sulla dama, ne avevamo una. Lo imboccavo tre volte al giorno. Nell’ora d’aria facevamo a turno con gli altri a spingere la sua carrozzina. Sì, di cibo ce n’era a sufficienza, ciascuno riceveva quotidianamente una pagnotta e mezzo di pane e tre volte alla settimana il cibo era caldo e appena cotto. Per il resto mangiavamo patate crude e gli spaghetti in scatola, ma va bene, non abbiamo sofferto la fame. Era il paradiso in confronto al carcere nel Donbass». Pur avendo il corpo intatto, anche Serhiy ha conosciuto la violazione dei diritti umani e della convenzione di Ginevra sul trattamento dei detenuti di guerra. L’agenzia dell’Onu da mesi denuncia abusi in corso soprattutto in Russia, ma talvolta censura anche gli ucraini. Catturato al fronte, Serhiy si è ritrovato a Donetsk in una colonia penale. «Picchiato, vessato con l’elettroshock, ammanettato al termosifone per tre settimane…». Tre frasi per riassumere la tortura. Pronunciate rapidamente, una attaccata all’altra, così da fare in fretta e tornare a dimenticare. Dimenticare Nella clinica c’è una sala con un tavolo ovale verde e una lavagna. I pazienti fanno sedute di autocoscienza di gruppo, cercano di fare uscire l’ansia, di condividerla, di esorcizzarla. Entrano uomini duri, aspri, che hanno combattuto col Reggimento Azov a Mariupol, con tatuaggi nazionalistici sulla pelle che per i carcerieri russi sono tutti, indistintamente e a prescindere, prove di nazismo, dunque meritevoli di essere cancellati versandoci sopra l’acqua a cento gradi. Ed è curioso sentir parlare un guerriero delle proprie emozioni, vederlo disegnare con tratti infantili la maschera del demone che lo affligge. «La terapia prevede esercizi di riabilitazione in palestra, aromaterapia, massaggi, incontri con gli psicologi e con gli psichiatri», spiegano i medici. «Dipende dal livello di stress con cui entrano e che definiamo in una prima intervista, al momento dell’accettazione». I dottori aiutano gli ex prigionieri a rifare i documenti e a fissare l’appuntamento con il procuratore per testimoniare. La permanenza più o meno lunga in strutture come questa è una procedura resa obbligatoria dalle forze armate, ha lo scopo di tutelare i combattenti e riportarli al più presto sulla linea del fronte. Mogli, genitori e figli possono venire a trovarli. Non c’è molto tempo per guarire dagli attacchi di panico, né l’esercito impegnato nella controffensiva ha la pazienza di aspettare che i flashback svaniscano. «Quindici giorni di terapia, poi si vede». Due carrozzine per uno scambio Taganrog, Starioskol, Kursk, Ryazhsk: città russe diventate sinonimo delle colonie penali che ospitano, piene di soldati ucraini, da cui escono resoconti di quotidiana sopravvivenza che non sono poi così lontani dalla giornata infinita di Ivan Denisovič. La prigionia di Slavyk e Serhiy si è conclusa il 12 giugno. «Hanno prelevato nove di noi, i feriti e quelli messi peggio. Slavyk era il primo della lista, ovviamente. Io sono rientrato nell’elenco perché i ceceni hanno capito che vivevamo in simbiosi». Ora bisogna immaginarsi questa scena. Un punto imprecisato sul confine ucraino a nord, tra la regione di Sumy e quella russa di Belgorod. Sono le quattro del mattino, albeggia. Dal lato russo si avvicinano tre autobus e un’ambulanza, dal lato ucraino tre autobus e un’ambulanza. Dai bus scendono cento uomini in fila, dall’ambulanza scaricano la carrozzina che le guardie cecene gli hanno lasciato tenere. Al segnale di un militare, le due colonne si mettono in marcia, passando il confine contemporaneamente. Slavyk viene preso dalla sedia a rotelle cecena e messo su una sedia a rotelle ucraina. Stanza 105 Un letto inutilmente lungo, le coperte piegate, il tablet con cui parla in videochat con suo figlio di 14 anni (lo accende e lo programma Serhiy), il pacchetto di sigarette sul comodino, il gancio metallico per sollevarsi. Ad averci le mani. Sono le quattro e mezzo del pomeriggio. «Serhiy, mi tagli la mela?». Sorride. «Nonostante le amputazioni Slavyk è un uomo stabile, equilibrato», dice Serhiy, che sta facendo spicchi ben precisi col coltello. «Persino i ceceni lo rispettavano, erano impressionati dal fatto che non avesse perso il suo spirito pur avendo subito quello che ha subito. C’era una guardia di nome Rizvan con cui si prendevano in giro. Rizvan entrava nel seminterrato e gli diceva: “ma almeno l’organo più importante ti funziona?”, e Slavyk sghignazzava, assicurandolo che in quel settore non aveva subito menomazioni». Serhiy non ha moglie e non ha figli. È sin troppo facile pensare che abbia proiettato nell’amico amputato, di undici anni più giovane e completamente dipendente dal volere altrui, il figlio che non ha mai avuto. «Lo considero più come un fratello, e come succede ai fratelli a volte si litiga. Piccole cose, sciocchezze, siamo esseri umani. Le sigarette, per esempio: non sono mai abbastanza e non c’è mai un momento per fumare che vada bene a entrambi». Slavyk mastica la mela, osserva l’amico che si dà da fare per lui. I suoi occhi esprimono gratitudine silenziosa. Talvolta non c’è bisogno delle mani per abbracciare qualcuno

no al bavaglio del politicamente corretto

   colonna     sonora    

la  tua  libertà  - francesco  Guccini *


Non è facile definire la libertà. Si tratta della possibilità di votare? Di seguire le nostre inclinazioni? Di fare ciò che vogliamo? Un primo passo per definire questa parola è, senza dubbio, partire dal pensiero: siamo liberi solo se possiamo ragionare liberamente. Ma  ultimamente   la  : <<[...] La tua libertà\Se vuoi, la puoi trovare\E un uomo saggio\Regole farà\Una prigione fatta di parole;\I carcerieri\Di una società\Ti impediranno di cercare il sole;\La tua libertà\Se vuoi, la puoi avere [...]   La tua libertà  \Cercala, che si è smarrita . \Cercala, che si è smarrita >>*
Ora   Secondo Ortega y Gasset ( Madrid, 9 maggio 1883 – Madrid, 18 ottobre 1955 filosofo e sociologo spagnolo  )  per esempio, ogni società realmente libera dovrebbe accettare anche “idee estreme alle quali riferirsi nella disputa”. Tutto dunque è concesso. ?  secondo  alcuni  me  compreso  ( vedere  faq  ed  manifesto blog  ed appendice  social   ) Tutto ha cittadinanza ed è solo nello scontro intellettuale - quello vero, non quello dei talk show e dei maistream  - che una tesi può vincere sull’altra.Ma  purtroppo da un po’ di anni a questa parte, però, viviamo una sorta di censura collettiva. Infatti   La storia  sia   che  venga  usata  in maniera  faziosa    e strumentale  ( la  rilettura     faziosa     ed  ideologica    degli ultimi 170  anni     della  storia  nazionale  soprattutto   dal 1920   in poi  )      fa paura nella  sua  realtà  e, non potendo cancellare   fisicamnte  il passato, si eliminano o si propone    di farlo  i monumenti che lo ricordano. La  stessa  cosa    per  le  forme   del pensiero non  conforme  .  Infatti   Il pensiero fa paura e - non potendo (almeno apparentemente) entrare nella testa degli altri - si vietano parole, e dunque riflessioni, tabù. E non  almeno non solo  per un buonismo peloso. Ma perché ci si immagina una società diversa. Una cultura diversa. Uomini e donne diverse, come spiega Valerio Savioli nel suo L'Uomo Residuo. Cancel culture, "politicamente corretto", morte dell'Europa (Il Cerchio): "L'obiettivo dello scontro in corso è chiaro: rendere l'uomo solo innescando scontri tra generi, popoli e generazioni che portino alla distruzione di ogni corpo intermediario tra l'individuo e il Potere, privandolo del diritto alla dignità di contestare ciò. Il risultato sarà un uomo privo della  propria   identità culturale, religiosa e sessuale. Un essere vivente che vivrà per affogare in bisogni artificiali e scambierà questo effimero momento per libertà. Triste e desolante è il destino di ciò che rimane dell'Uomo, o meglio dell'Uomo Residuo".
Siamo uomini a metà. Restiamo ancorati a ciò che c'è di buono e di giusto, mentre ci scontriamo contro l'onda progressista. Vogliamo essere coraggiosi mentre abbiamo paura di tutto. Ambiamo, più di tutto, ad essere sicuri. "La paura è diventata la lente attraverso la quale si osserva il presente, questa predisposizione tende costantemente a calcolare il quantitativo di rischio in rapporto a ogni singola decisioni". Vogliamo essere certi che tutto vada bene. Che sulla nostra strada non incontreremo pericoli. E forse crediamo anche che sia meglio non uscire di casa, come durante la pandemia di Covid-19. "Che succede se mi infetto?", si chiedeva un terrorizzato Giuseppe Conte. È la cultura, sottolinea Savioli, del safetism. Dell'esser sicuri a tutti i costi. Questo termine "compare per la prima volta nell'opera The Coddling of the American Mind di Greg Lukianoff e Jonathan Haidt. Il termine safetism viene usato per denotare una cultura morale in cui gli individui non sono disposti a concedere compromessi rispetto ad altre pratiche morali. Per intenderci, la sicurezza diviene quindi la prerogativa principale. Una ragione essenziale. Le principali minacce alla sicurezza percepite si circoscrivono entro le tematiche di razzismo, sessismo - sul cui contesto si applica generosamente il suffisso 'fobia', concetto di per sé non comprensibile, proprio perché la fobia è considerata dalla stessa psichiatria un disturbo psichico che consiste in una paura angosciosa dettata da determinate situazioni   incrementate     da  una politica  malpancista    che ha  strumentalizzato (  e continua  )    e  sfruttato  m\  alimentato la pancia   della  gente     davanti      al distanziamento sociale indotto dalle politiche di contenimento per la pandemia".È per questo che - se non segui il pensiero dominante  \ comune (che rende l'uomo comune)   anzichè  parlare   con il cuore  e con la mente   ed  fare  autocritica  





ed  provi ad  usare    il  tuo  spirito critico   \  libero arbitrio    - ti viene appiccicata l'etichetta di omofobo, di zenofobo, e ovviamente anche di retrogrado. E poco importa che tu non lo sia. Il tuo pensiero viene giudicato tale solo perché va controcorrente. E si ostina a farlo. La marea politicamente corretta sale. Armiamoci di libri  per salvarci. Per comprendere ciò che sta accadendo attorno a noi. Per discernere la realtà. Per essere uomini. Veri. Completi. Per riprenderci la nostra integrità ed la nostra  libertà decidendo   cosa  è  giusto  o sbagliato  ed  non siano  gli altri   a imporcelo .

3.7.23

per chi giudica e commenta i miei post solo dal titolo



A volte capita che il pensiero di persone all'opposto di te , in questo caso il video sotto di diego fusaro

arrivino alle tue stesse conclusioni vedere precedente posthttps://urly.it/3w3gv. Quindi caro **** e cara **** che giudicate le persone non da quello che scrivono o riportano ma solo da un titolo ironico \
sarcastico vi serva di lezione .

chi lo ha detto che il teatro dev'essere solo al chiuso ? l'esecuzione dell'opera : a perdifiato la storia di alfonsina strada la prima donna che corse il giro d'italia di michele vargiu


 da leggere  prima  del post  
Alfonsina Strada - Wikipedia e     suoi  collegamenti esterni

Bellissimo lo spettacolo  "  perdifiato . l'incredibile  vita  di Alfonsina  l'unica  donna  a correre  il giro  d'italia  "  monologo  di  Michele  vargiu  .  Tenuto ieri  a tempio pausania   ( vedere foto    sotto   al  centro )     nel  giardino  del  ex  liceo   degli scolopi    , ora  biblioteca  comunale .  Inizialmente   il monologo  sembrava raccontare una storia  sui miti del ciclismo maschile . Ma poiall'improvviso   ,  evidentemente  fungeva  d'introduzione  \  premessa    per   spiegare   di  come mai  ancora  oggi   la  figura  ed il gesto  di Alfosina    passano    in secondo piano nell'esaltazione  e nel tifo  popolare .
La Storia  raccontata     nello  spettacolo  è una   storia   sportiva  italiana poco  nota ed offuscata   dai racconti nazionali quasi ( ne avevo parlato suo tempo  sulle pagine del blog  ma  non riesco  a  trovarlo     forse    e  fra quelle   andate perse   nel  passaggio da   splinder  o a bloggger  ) rimossa insomma . Con questo Monologo  si  racconta   Uno sport d'altri tempi di  quando si correva per rabbia e per amore (cit da   il  e bandito e il campione di  Francesco de Gregori  I
 (  testo ed  accordi ) II (  video canzone  )   quando    lo  sport   era  sport    e le    ed  i fatti d'oggi   , vedere  articolo   riportato sotto de il Fatto  quotidiano  d' ieri  ,  si contavano    sula  punta  delle  mani  

Un ottimo racconta    storie   ed  un ottimo    spettacolo  . Sarà merito delle scenografie (che non ci sono) , eccetto qualche base muisca del'epoca in sottofondo Sarà merito dei costumi (che non ci sono) O forse saranno le retroproiezioni (che non ci sono). Fatto sta che spettacoli dove in scena non c'è niente vanno in giro da parecchio, le persone tornano a vederli e fanno questo effetto qua. Succede, credo, perché fondamentalmente le buone storie, se sono tali, non hanno bisogno di nulla. L'atmosfera e la recitazione  ti fanno entrare dentro la storia come seca narrartela fosse o la protagonista stessa o un testimone di quegli eventi  . In certi punti è come se fossi tu stesso presente a quel giro vinto D'Alfonsina.


aspetto   con ansia  la  sua 2  rappresentazione   "LE FUORIGIOCO", cui  conosco la vicenda      e   di  cui   ho  già parlato   recentemente  nel  blog  ,  ma   vederlo a  teatro    e  rappresentato     in sifatta   maniera   sarà particolare 

30.6.23

Sono sempre bei tempi la storia di Luigi Luini

C’è un uomo che da 78 anni ogni notte si alza, accende il forno e fa felici tutti quelli che passano dal suo panificio. È Luigi Luini che domani compie 92 anni e che nella sua lunga vita ha visto Milano cambiare ma non ha mai perso la convinzione che “sono sempre bei tempi”

ecco  la storia  di  questa  settimana    della  newsletters     altre storie     rubrica   di  Mario Calabresi


«Una volta mi alzavo alle tre di notte per fare il pane. Adesso alle due sono già sveglio: passano gli anni e dormo sempre meno. Mi giro e rigiro nel letto ma non vedo l’ora di alzarmi. Alle cinque scendo, sono sempre il primo ad arrivare. Controllo che sia tutto a posto, che non manchi nessun ingrediente. E poi accendo il forno».


Luigi Luini


Domani, sabato primo luglio, Luigi Luini, professione panettiere, compie 92 anni. È un pezzo della storia di Milano, il suo negozio dietro il Duomo resiste dal 1949 e i suoi panzerotti sono famosi in tutto il mondo. Non esiste giorno in cui non ci sia la fila davanti alla sua vetrina. Il signor Luini ha cominciato a lavorare quando aveva 14 anni e non è mai veramente andato in pensione: «Al mio sessantacinquesimo compleanno tutti mi chiedevano quando mi sarei ritirato e io rispondevo: “Ho il contratto fino a ottanta” e poi lo prorogo ogni anno».
Il suo negozio per me è un luogo del cuore. Quando ero studente di liceo, saltavo spesso la scuola per andare all’emeroteca della Biblioteca Sormani a leggere i giornali degli anni Settanta. Volevo capire la nascita degli anni di piombo. Era un’immersione nel passato, faticosa e certi giorni anche dolorosa. Quando uscivo avevo bisogno di qualcosa che mi facesse stare bene, e allora avevo il mio piccolo rito: andavo a prendere due panzerotti mozzarella e pomodoro da Luini. Erano sempre bollenti, e d’inverno, quando gli davi il primo morso, fumavano. Mi facevano felice, e ancora oggi è così. Negli anni ho conosciuto il signor Luini, siamo diventati amici e sono stato il primo cliente a entrare nel suo negozio il giorno che ha riaperto dopo il primo lockdown. Questa settimana mi sono presentato alle sette e mezza, mi sono infilato sotto la saracinesca, che era ancora mezza abbassata, per fargli gli auguri e per farmi raccontare la sua storia.


L’ingresso del panificio Luini in una foto degli anni ‘70


Con lui c’è sempre la signora Anna, con cui ha festeggiato 53 anni di matrimonio: «Mi sono sposato tardi, avevo già 39 anni, ma lavoravo e basta e non avevo occasione per fare conoscenze. Poi, un giorno, ero a casa di mia mamma Giuseppina e sulle scale incontriamo la figlia della sua vicina, che aveva 25 anni. “Guarda che bella ragazza - dice mia madre - te la devo presentare”. E così abbiamo cominciato a uscire insieme». Nel 1970 si sposano, il viaggio di nozze nelle Dolomiti è la prima vacanza della vita di Luigi, l’anno dopo arriva Cristina, la prima figlia, e poi nel ‘74 Emanuela. La signora Anna lo convince che ad agosto bisogna chiudere e andare in vacanza, che esiste il mare, e chiede che smettano di abitare sopra il negozio, ma almeno a una distanza di quindici minuti a piedi.
La sua è una storia di fatica, ma con un'accezione positiva del termine. «Mia madre lavorava fin da giovanissima nella trattoria dei suoi genitori a Codogno, lì una domenica ha conosciuto mio padre, che faceva il panettiere. Era la metà degli anni Venti. Alla fine della guerra c’era una grande energia e la sensazione che tutte le occasioni fossero a Milano. Io e le mie sorelle convincemmo mamma e papà a trasferirci e trovammo un negozio in Piazzale Bacone. Io avevo quattordici anni ma nessuna voglia di studiare. Mio padre, quando lo capì, disse una frase soltanto: “Se non studi, ti alzi la notte”. Dal giorno dopo cominciai a lavorare con lui».


Una foto storica del laboratorio del panificio durante la preparazione dei taralli pugliesi


Nel 1949 si spostano in via Santa Radegonda, a poche decine di metri dalla Galleria Vittorio Emanuele, nel centro più centro di Milano: «Erano case popolari, qui abitava la gente comune, non c’era mica la moda. Le famiglie affittavano una camera e la persona più illustre del palazzo era il maestro di canto dell’ultimo piano. Accanto a noi c’era la latteria, poi un fruttivendolo, un barbiere e un elettricista. Questo era il centro di Milano. Tutto è cambiato negli anni Ottanta, sono cominciate le grandi ristrutturazioni che hanno espulso il popolo».
Il signor Luigi ricorda ogni decennio, l’eco della strage di Piazza Fontana, la folla dei funerali in Duomo, la bomba fuori dalla Questura in via Fatebenefratelli - «Sono passato di lì con la Vespa pochi istanti dopo, stavo portando il pane a un ristorante» -, l’arrivo delle boutique di lusso, i turisti giapponesi che hanno cominciato a fotografare il suo negozio. Gli chiedo se abbia rimpianti, quale sia stato il decennio più bello: «Sono sempre bei tempi. Sono stati tutti belli, mica solo quelli in cui si è giovani. Quando guardo le mie figlie che mandano avanti il negozio e fanno migliorie e innovazioni sono contento».

Il panificio Luini il giorno della riapertura dopo il lockdown


Nel 1949 però i panzerotti non c’erano: «Ricordo i primi cortei, chiedevano “pane e lavoro”, dopo qualche anno però “pane” non lo dicevano più e allora ho pensato che dovevamo fare qualcosa di diverso. Siamo stati i primi a fare i panini imbottiti quando i panettieri non li facevano, poi le pizze, ma i vigili vennero a farci un verbale perché anche questo non era previsto. Alla fine ho tirato fuori la ricetta dei panzerotti. Era in un quaderno di ricette di mia madre, figlia di un immigrato pugliese. All’inizio li faceva lei, poi dovette lasciare il negozio e allontanarsi perché era diventata allergica alla farina. La verità è che i polmoni se li era rovinati in trattoria. Fumavano tutti, c’era una nebbia di sigarette e lei aveva sempre la tosse».
I grandi cambiamenti nell’organizzazione del negozio sono avvenuti al passaggio di secolo, quando è mancata Franca, la sorella più grande, e Carla è andata in pensione. «Loro due erano inflessibili: alle 13 buttavano fuori i clienti perché si doveva chiudere per la pausa. Riaprivamo solo alle 16, ma così perdevamo tutto il pranzo degli impiegati e degli studenti. Sono arrivate le mie figlie e hanno rivoluzionato gli orari: non si apre più alle 7 ma alle 10 e poi si fa orario continuato fino alle otto di sera». Le figlie hanno rifatto il negozio, hanno messo un silos per la farina nel sotterraneo - così non si devono più sollevare e trasportare i sacchi da 25 chili - e semplificato l’elenco dei prodotti. Ma non sono riuscite ad evitare che il padre arrivi alle 5 per accendere il forno.


Luigi Luini con la gerla sulle spalle mentre consegna il pane


Il signor Luigi parla ormai da un’ora, mi racconta di quando ha iniziato a fare le forniture in giro per la città: «Portavo il pane agli alberghi alle 5 per la prima colazione, poi a mezzogiorno facevo le consegne nei ristoranti. Nel tardo pomeriggio un nuovo giro. Andavo io con la Vespa e la gerla sulla schiena. Non mi sono mai riposato, ma che vita ragazzi! Un giorno, mentre portavo il pane all’Hilton, sono stato investito da una Cinquecento. Mi ha fatto fare un volo che ancora me lo ricordo. Sono stato ingessato per quaranta giorni. Ero a casa e allora mia moglie mi mette in braccio la piccola: “Tieni la Cristina, che vado a fare la spesa”. Ma lei scoppia a piangere, non mi aveva mai visto e mi aveva preso per un estraneo». Dopo una settimana comincia a lavorare con il gesso la notte.


Luigi Luini con la moglie Anna e le figlie, Cristina a sinistra ed Emanuela


Nella fila fuori ci sono sempre gli impiegati che lavorano in centro e tantissimi turisti, al momento scarseggiano ancora i cinesi ma ci sono tanti arabi, americani e spagnoli. Gli faccio la domanda a cui non risponde mai: quanti panzerotti vendete ogni giorno? «Tutti me lo chiedono, dipende dalle stagioni, d’inverno le file sono più lunghe, mentre con il caldo se ne vendono meno. Non esiste un numero fisso».
Insisto. Abbassa la voce e finalmente mi risponde: «Più di 5mila».
Il prezzo è lo stesso da anni: 2 euro e 80 centesimi. «Io non voglio fare le cose gourmet, voglio che sia per tutti. Sono un panettiere».


29.6.23

femminicidi sempre più emergenza si bbassa l'età dei mostri e delle vittime . Riflessioni a caldo sul caso di Roma

Jakub SchikanederOmicidio in casa (1890)


 Infatti    come dicevo   dal  titolo  il fatto   di roma   lo dimostra   . visto  che  


 Il  FQ  del   29\6\2023  


 mi  fermo  qui  non  perchè  abbia perso le  arole    ma   perchè   come  ho  già  scritto precedemente  per  il  femminicidio di giulia  tramontano     due  parole  sono  troppe  ed  una  è  oco cioè   si rischia    :  l'ovvietà  ed la retorica  con il  rischiuo  di  creare   assueffazione ,  qualunquismo  giudiziario  , o peggio  che   a  fuori  di parlarne troppo   venga  di più parti     chiesto  il silenzio   mediatico   come  era  per  il fascismo  che    tali fatti  di cronaca  venivano  nascosti    e  taciuti per  legge  . 







Maturità 2023, padre si diploma con la figlia: “Ho ripreso gli studi per farle vedere che le cose si possono fare a qualsiasi età”



dal web


Una storia toccante quella che arriva da Pontedera, nel pisano, dove un padre, 52enne magazziniere, ha svolto l’orale di maturità lo stesso giorno della figlia, 19enne, lo scorso 26 giugno. A riportarlo La Repubblica. Ecco cosa ha detto e quali sono le motivazioni che lo hanno spinto a riprendere gli studi.
“Ho riscoperto il piacere dello studio
“Non potevo rimanere il ciuchino di famiglia. Domani torno a lavorare, con un peso in meno e una soddisfazione in più”, ha detto. Per quasi dieci mesi ha staccato da lavoro alle 18.30 e poco dopo si è messo tra i banchi dei corsi serali di meccatronica a scuola, dal lunedì al venerdì. “Ho lasciato i banchi a 3 mesi dalla fine della quinta, poi ho iniziato a lavorare. Però mi sentivo qualcosa, tipo un debito coi miei genitori che avevano fatto di tutto per farmi studiare. Perciò ho ripreso, anche per far vedere a mia figlia che le cose si possono fare a qualsiasi età”, ha spiegato. I due hanno anche svolto, si dà il caso, la stessa traccia alla prima prova scritta dell’esame: “Non lo abbiamo fatto apposta, ma abbiamo scelto pure la medesima traccia alla prima prova, ovvero l’elogio dell’attesa nell’era di Whatsapp”. “Ero più emozionato per quello di mia figlia che per il mio – afferma il genitore -, ma devo dire che lei se l’è cavata alla grandissima, d’altronde è brava. Io diciamo che me la sono cavicchiata, qualcosa ho detto, dai! Battute a parte mi hanno tenuto dentro un’ora e un quarto, nessuno c’è stato quanto me, ma io sono un chiacchierone”.“Non capita tutti i giorni che padre e figlia facciano l’esame insieme, no? Il nostro caso ha impressionato tutti. Avevo paura di prendere di più di lei, ma è impossibile, è molto brava. Ho riscoperto il piacere dello studio. Ho voluto dimostrare che per certe cose non è mai troppo tardi, è la forza di volontà a muoverci”, ha concluso.
Non è mai troppo tardi
La storia rimarca, per certi versi, quella della donna di 90 anni che ha svolto la maturità quest’anno, con il sogno di diventare una maestra. “Lo studio, il sapere e il desiderio di conoscere non hanno età ed io ne sono la dimostrazione. Avanti ragazzi ora non si scherza più. Dopo il diploma anche la laurea? Chissà perché no?”, ha detto l’anziana.“Senza sacrificio non si ottiene nulla nella vita ed a questa età ho deciso di rimettermi in gioco ed affrontare questo esame, un obiettivo che ho rincorso da sempre ma che per varie ragioni, familiari e di lavoro mi è sfuggito. Ora sono qui e grazie all’aiuto della mia famiglia inizio il percorso di prove, che spero, mi condurranno ad ottenere il diploma. Li abbraccio tutti questi bellissimi giovani che oggi qui con me ed in tutta Italia sono pronti a superare gli ostacoli degli esami”, ha aggiunto, prima di sostenere la prova.
 
Proprio mentre sto finendo di fare cute paste (copia e incolla ) leggo su Google news più  precisamente   su  https://www.tecnicadellascuola.it/ 29/06/2023 questa bellissima storia d'amicizia e solidarietà collegata agli esami di maturità.


Studente del Cpia muore prima del diploma, i suoi compagni fanno la maturità per lui: “glielo abbiamo promesso”

Una storia toccante arriva dal corso serale dell’Istituto Agrario di Asti. Qui uno studente lavoratore di 56 anni, Pasquale De Filippo, si è spento a causa di un tumore prima di completare gli studi. E così, per onorare il suo percorso e il suo desiderio, i compagni di scuola

hanno preso il suo posto e hanno svolto l’esame orale a turno davanti alla commissione e un banco vuoto con sopra il diploma di Pasquale.
“Glielo abbiamo promesso alla veglia funebre – parla la sua compagna Giulia Bianco – e ora siamo qua per mantenere la parola data”.
Uno dei compagni ha commentato commosso: “ha dimostrato fino alla fine che lo voleva, che ci teneva e quindi era giusto che anche lui avesse il suo diploma”.
E il dirigente dell’istituto Penna, Renato Parisio, aggiunge: “Non so se è un momento triste o bellissimo di certo sarà impossibile dimenticarlo”.

28.6.23

Asterischi e schwa, l’Accademia della Crusca smonta il politically correct: «No all’introduzione artificiosa di segni grafici frutto di un’ideologia» ma alla matrurità lo usano lo stesso

   A  voi  che  leggerete  questo  post   potete  pure  darmi    del retrogrado  ,    dell'antico  ,  ecc . Ma  qui  non  si tratta  di chiusura   mentale     \  culturale  ,   e  non volermi adeguare  ai tempi che  cambiano  . ma  di  buon senso  .  Infatti  va bene che la lingua si evolve e cambia  ,  cosi  come   debba essere usata per includere non per dominare  e quindi   << Benissimo l’intento di far sentire rappresentati nella lingua tutti i generi e gli orientamenti>> . Ma c'è modo e mondo e modo di farlo perchè  un modo  è farlo  senza   capire    cosa  si sta  cambiando    un  alro   è  distruggere  semplicente    Ecco   che   reputo   
 
come credo anche   l'accademia dela  Crusca    (  vedere  articolo sotto risalente  al  20\3\2023   ma  ancora  valido ed  attuale  visto  l'andazzo  conformistico    dimostrato  anche     alla  maturità     )   il  gesto di       che  alla  maturità , ne  ho parlato precedentemente    qui ,  nello  scritto   d'italiano  ha usato lo  schiwa   come  una provocazione  conformista   di  un necessità   comprensibile  ed  giusta   ttrasformatasi in moda   ed  in obbligo  sociale  .

di https://www.open.online/z20 MARZO 2023 - 07:47IO

Asterischi e schwa, l’Accademia della Crusca smonta il politically correct: «No all’introduzione artificiosa di segni grafici frutto di un’ideologia»





IL parere dei linguisti alla Corte di Cassazione prende di mira anche la duplicazione dei generi. Incoraggiato invece l’uso al femminile del nome delle professioni



Basta con schwa ed asterischi. E pure, se possibile, alla duplicazione dei generi, care italiane e cari italiani. L’Accademia della Crusca esce allo scoperto e dice la sua sul dibattito politico-linguistico che divide il Paese: da un lato chi vorrebbe innovare la lingua e la sua scrittura per depurarlo dal recondito retaggio maschilista, con proposte fonetiche e grammaticali più o meno azzardate; dall’altra chi, più o meno riconoscendo la critica d’insieme, rifiuta di rimettere mano a dizionario e manuali di scrittura distorcendo la lingua di Dante. Rispondendo a un quesito posto dal comitato pari opportunità della corte di Cassazione sulla scrittura negli atti giudiziari, gli esperti “custodi della lingua” entrano nel vivo della questione, e sembrano propendere decisamente per la linea “conservativa”. Con motivazioni puntigliose. A riportare stralci del parere dell’Accademia è oggi, lunedì 20 marzo, il Corriere della Sera. «I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali», punge la Crusca, che pure riconosce come «queste mode hanno d’altra parte un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata». Il riferimento, neppure troppo implicito, è all’offensiva culturale progressista sugli usi della lingua che dall’America si è diffusa ormai da diversi anni in Europa, compresa l’Italia. Che fare dunque, all’atto pratico? Senza dubbio, dice l’Accademia, scordarsi di introdurre nuovi segni fonetici “fuori luogo” come schwa o asterischi. «È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (“Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…”). Lo stesso vale per lo scevà o schwa». Obiettivi colpiti e affondati.


In genere non ci esponiamo

Ma c’è un’altra usanza linguistica che trova sempre più fortune in chiave politically correct che fa inorridire i linguisti. Benissimo l’intento di far sentire rappresentati nella lingua tutti i generi e gli orientamenti, osserva nel parere l’Accademia, ma lo strumento migliore per conseguire quest’obiettivo non può essere «la reduplicazione retorica, che implica il riferimento raddoppiato ai due generi» – “care italiane e cari italiani”, per l’appunto, o “amiche e amici”. La strada maestra da seguire è invece quella dell’utilizzo di «forme neutre o generiche (per esempio sostituendo “persona” a “uomo”, “il personale” a “i dipendenti”), oppure (se ciò non è possibile) il maschile plurale non marcato». L’altra modalità che l’Accademia raccomanda per garantire la rappresentatività di genere della lingua è quella di «far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile»: architetta, sindaca, magistrata etc. Una parola infine l’Accademia della Crusca la spende anche sull’uso di articoli davanti al nome di persone note o meno (“la Meloni” e “la Schlein”, ma anche “la Giulia” o “l’Alvise” di molte parlate regionali). «Oggi è considerato discriminatorio e offensivo – osservano gli esperti – Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto».


27.6.23

la maturità non è solo scritti ed orali . ma una tappa della vita o un gesto di ribellione come il gabriel lodetti che usa lo schiwa nello scritto ., o per accontare le proprie emozioni come la studentessa torinese ., ed altre storie



    alcune   (  per  le altre    trovate     all'inixio  post    dei  link  )     sulla  maturità    lontano     o  releganìte  in piccoli  trafiletti  da parte  dei media  e     credo  ache dai social  .

 

 da  repubblica 

  riguarda  il gesto iniutilemente provocatorio e scemo      dell'usare  lo  ɓ  ehm schwa  perchè  tale  risultato lo si  può  ottenere  con  usando la  dictura    tutti\e . 



Gabriele Lodetti  [foto  sotto a  destra  ]   ha inserito nello scritto il simbolo della comunità non binaria e ha preso 17/20:«Volevo dimostrare che utilizzare una forma di linguaggio che rappresenti tutti e tutte è possibile, anche durante una prova importante come l’esame di Stato»
Né maschile, né femminile. Nella prova di italiano di maturità, scritta rigorosamente a penna, è arrivata anche la schwa. Il simbolo grafico adottato dalla comunità non-binary, le persone che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile, e sostenuto in Italia soprattutto dalla sociolinguista Vera Gheno. L’obiettivo? Rendere più inclusivo il linguaggio, rischiando anche che la prova venisse invalidata. Ma alla fine, Gabriele Lodetti, maturando del liceo Plinio Seniore, ha portato a casa anche un ottimo voto: un 17 su 20, che equivale, più o meno, ad un 8.«Volevo dimostrare che utilizzare una forma di linguaggio che rappresenti tutti e tutte è possibile, anche durante una prova importante come l’esame di Stato», racconta il giovane. Che precisa: «Sì, è stato anche un gesto di sfida, ma non verso la commissione, bensì verso il sistema scolastico e la società». E così ha deciso di correre il rischio che la prova venisse invalidata.La sua scelta, considerando anche i contenuti e lo svolgimento della traccia, alla fine però l’ha premiato. Ha optato per il tema di attualità, quello che partiva dalla lettera aperta del 2021 all’allora ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, attraverso la quale il mondo accademico e culturale chiedeva di reintrodurre le prove scritte alla maturità, sospese per la pandemia.Non ha scritto, quindi, di inclusione in senso stretto, ma ha analizzato la storia dell’esame di Stato, poi è passato ad alcune riflessioni sui suoi cambiamenti nel tempo, ha infine inserito dei pareri sul sistema scolastico. Utilizzando, però, lo stesso linguaggio che «da tempo è presente nelle chat con amici e familiari».Ormai, prosegue Lodetti, «è entrato nel mio modo di pensare e sarebbe complicato non utilizzarlo per esprimermi». Chiuso il capitolo delle prove scritte, lo studente del Plinio racconta così il motivo della sua scelta.Una scelta che, però, non ovunque avrebbe trovato la stessa approvazione: secondo Giuseppe Benedetti, docente di Lettere al liceo Tasso, «bisognerebbe leggere tutta la prova» prima di valutare. «Tuttavia, si può fare riferimento a qualche criterio generale. Il primo è quello dell’uso. La schwa non è di uso comune. Qual è il senso del suo impiego nel testo in questione? In un tema sui diritti sarebbe evidente, in un tema su altri argomenti sarebbe meno chiaro o potrebbe risultare persino una forzatura».E ancora: «Il secondo criterio è il rapporto tra forma e contenuto: quanto possa essere persuasivo l’uso della schwa per sostenere la propria tesi. Un terzo criterio è la coerenza dell’uso: nel testo la schwa è usata costantemente o in un limitato e ingiustificato numero di occasioni?», si chiede il docente.Giulia Addazi, linguista e insegnante al liceo Rocci di Passo Corese (frazione di Fara in Sabina, in provincia di Rieti) se si fosse trovata di fronte alla prova di Gabriele Lodetti, avrebbe invece «apprezzato il ragionamento che lo studente ha portato avanti nei confronti della lingua italiana».A Tiziana Sallusti, preside del liceo Mamiani e attualmente presidente di commissione al liceo Montale, «non sarebbe cambiato nulla: se il tema fosse stato pertinente, ben scritto, ricco di approfondimenti, non credo che come presidente avrei fatto problemi».La scelta della schwa, infine, trova anche l’approvazione delle associazioni studentesche come la rete degli studenti medi, che da sempre si batte per l’inclusione nelle scuole.


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da
https://www.tecnicadellascuola.it/

Maturità 2023, tema su WhatsApp. Alunna scrive sulla morte del suo ragazzo in un incidente: “Non sappiamo più aspettare”





Ieri, tra gli studenti che hanno svolto la prima prova di italiano della maturità 2023, c’era anche una ragazza che di recente è stata colpita da un terribile lutto. La studentessa ha espresso il suo dolore per la tragedia che l’ha vista protagonista proprio nel tema che ha svolto, la traccia sull’attesa nell’era di WhatsApp a partire da uno scritto di Marco Belpoliti, traccia che è stata, secondo i dati ufficiali, la più gettonata tra i maturandi 2023. Lo riporta La Stampa.
La ragazza, 18 anni, che vive nel torinese, ha parlato della recente morte del suo fidanzato, 22 anni, a causa di un incidente stradale. “Eravamo mano nella mano, quando una Bmw a folle velocità, guidata da un ubriaco, me l’ha strappato via. I nostri sogni sono stati cancellati e io adesso sono qui senza di
lui”, ha detto. Il funerale del ragazzo si svolgerà oggi, 22 giugno.
Secondo la giovane il concetto di fretta è stato alla base di quanto è successo la sera dello schianto fatale. Ecco di cosa parla il tema prodotto dalla ragazza: “Parla di me, di noi, di quella sera. Non sappiamo più aspettare, tutto è diventato istantaneo, abbiamo sempre fretta, mandiamo un messaggio con il cellulare e pretendiamo subito una risposta. Ecco, la fretta. Quella sera avevo fretta. Fretta di stare con lui, fretta di dirgli quanto gli volevo bene. Eravamo a casa di mio nonno per festeggiare il primo compleanno di un nipotino. Ma abbiamo salutato tutti e siamo usciti. Avevo fretta di abbracciarlo. Di dargli un bacio”.
“Con Mattia correvamo solo con i pensieri, quelli sì che viaggiano veloci, erano tutti proiettati a un futuro insieme. Chi guidava quella macchina invece non aveva fretta; tornava a casa dopo una serata passata a bere con gli amici. Correva e basta. Ci ha travolto, avrà visto quello che ha causato nello specchietto retrovisore ma ha continuato la sua folle corsa”, ha raccontato, ricostruendo quei brutti momenti.
“L’avevo convinto a prendere le distanze da alcuni amici e fra questi c’era anche lui, quello che ci ha investiti”, ha detto ancora. “Eravamo ormai dall’altra parte della strada quando ho visto quell’auto sterzare. Ho sentito un colpo alla spalla, ho cercato Mattia ma non Lo vedevo più. Chissà, un angelo in quel momento mi ha messo una mano sugli occhi per non farmi vedere quello che hanno visto i soccorritori. La casa di mio nonno era a pochi metri, mi sono alzata e tenendomi la spalla sono corsa lì. Ma il dolore che non passa è un altro”, ha concluso.Ieri, tra gli studenti che hanno svolto la prima prova di italiano della maturità 2023, c’era anche una ragazza che di recente è stata colpita da un terribile lutto. La studentessa ha espresso il suo dolore per la tragedia che l’ha vista protagonista proprio nel tema che ha svolto, la traccia sull’attesa nell’era di WhatsApp a partire da uno scritto di Marco Belpoliti, traccia che è stata, secondo i dati ufficiali, la più gettonata tra i maturandi 2023. Lo riporta La Stampa.
La ragazza, 18 anni, che vive nel torinese, ha parlato della recente morte del suo fidanzato, 22 anni, a causa di un incidente stradale. “Eravamo mano nella mano, quando una Bmw a folle velocità, guidata da un ubriaco, me l’ha strappato via. I nostri sogni sono stati cancellati e io adesso sono qui senza di lui”, ha detto. Il funerale del ragazzo si svolgerà oggi, 22 giugno.
Secondo la giovane il concetto di fretta è stato alla base di quanto è successo la sera dello schianto fatale. Ecco di cosa parla il tema prodotto dalla ragazza: “Parla di me, di noi, di quella sera. Non sappiamo più aspettare, tutto è diventato istantaneo, abbiamo sempre fretta, mandiamo un messaggio con il cellulare e pretendiamo subito una risposta. Ecco, la fretta. Quella sera avevo fretta. Fretta di stare con lui, fretta di dirgli quanto gli volevo bene. Eravamo a casa di mio nonno per festeggiare il primo compleanno di un nipotino. Ma abbiamo salutato tutti e siamo usciti. Avevo fretta di abbracciarlo. Di dargli un bacio”.
“Con Mattia correvamo solo con i pensieri, quelli sì che viaggiano veloci, erano tutti proiettati a un futuro insieme. Chi guidava quella macchina invece non aveva fretta; tornava a casa dopo una serata passata a bere con gli amici. Correva e basta. Ci ha travolto, avrà visto quello che ha causato nello specchietto retrovisore ma ha continuato la sua folle corsa”, ha raccontato, ricostruendo quei brutti momenti.
“L’avevo convinto a prendere le distanze da alcuni amici e fra questi c’era anche lui, quello che ci ha investiti”, ha detto ancora. “Eravamo ormai dall’altra parte della strada quando ho visto quell’auto sterzare. Ho sentito un colpo alla spalla, ho cercato Mattia ma non Lo vedevo più. Chissà, un angelo in quel momento mi ha messo una mano sugli occhi per non farmi vedere quello che hanno visto i soccorritori. La casa di mio nonno era a pochi metri, mi sono alzata e tenendomi la spalla sono corsa lì. Ma il dolore che non passa è un altro”, ha concluso.


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La notte prima degli esami che mi ha cambiato la vitaSe Vincenzo Latronico ora fa lo scrittore e vive a Berlino è per una Porsche nera che, il giorno prima del suo orale di maturità, lo ha travolto a un semaforo. Un colpo di sfortuna dalle conseguenze imprevedibili.


di Mario Calabresi





«La sera prima dell’orale di Maturità ho chiuso i libri e sono andato a giocare a Risiko a casa di un’amica che abitava a Brera. Prima delle undici ho deciso che era ora di tornare a casa, sono salito sulla mia Vespa 50 bianca e, arrivato al primo incrocio, sono stato investito da una Porsche nera». Le conseguenze di quell’incidente avrebbero cambiato per sempre la direzione della vita di Vincenzo Latronico.

Vincenzo Latronico durante un evento letterario


Era l’estate del 2003 e Vincenzo aveva un solo pensiero per la testa: passare l’esame, uscire dal liceo classico Manzoni di Milano e poi partire con gli amici per l’interrail. Amsterdam, Berlino, Praga e Budapest le mete che sognava. Ma, mentre era fermo al semaforo davanti al Piccolo Teatro, la Porsche prima lo ha superato a sinistra e poi ha sterzato a destra passando con il rosso: «Avevo la gamba a terra e, nella manovra, me l’ha schiacciata contro la Vespa. Sono caduto e mi sono fratturato tibia e perone in almeno otto punti». Per pura coincidenza il fidanzato della sua migliore amica stava passando in quel momento ed è lui ad avergli raccontato che era sdraiato a terra e che prima dell’ambulanza sono arrivate sia la Polizia che i Carabinieri. Una cosa, però, la ricorda benissimo: chi lo aveva investito si era fermato ma non era mai sceso dalla macchina per vedere in che condizioni fosse. Era un uomo sui cinquant’anni e la Porsche era dell’azienda, una fabbrica di materiali plastici di cui era il dirigente. Non mettiamo il nome perché, ai fini della storia, non è importante.
Quella sera portarono Vincenzo all’ospedale Fatebenefratelli, rimase ricoverato per settimane con la gamba in trazione, i professori lo aspettarono e fu l’ultimo a fare l’orale: si presentò in sedia a rotelle e imbottito di antidolorifici. «Deve essere stato un pessimo esame, non ho nessun ricordo. So soltanto che portavo una tesina che teneva insieme il Lenin di Majakovsij per Letteratura, la rivoluzione russa per Storia, il costruttivismo per Arte e Marx per Filosofia. Poi gli altri partirono per il giro dell’Europa in treno e io passai l’estate sulla sedia a rotelle nella casa di campagna della mia fidanzata dell’epoca».
Quando si rimise in piedi, con quella Vespa Pk 50 che aveva comprato grazie a un premio dei Rotary per un tema di storia contemporanea fatto al quarto anno di liceo, non voleva più averci nulla a che fare e la vendette a un’amica per una cifra simbolica. Alla fine dell’estate scoprì anche che il guidatore della Porsche lo aveva denunciato, sostenendo che era stato Vincenzo ad andare a sbattere contro la macchina, e chiedeva che pagasse i danni allo sportello. Ci fu un processo lunghissimo, con perizie e controperizie, che durò ben sei anni. Nel frattempo Vincenzo si era laureato in filosofia, aveva scritto il suo primo libro e lavorava all’Università.
La copertina dell’edizione italiana di “Twelve” (Bompiani 2003),
il primo romanzo dello scrittore americano Nick McDonell
 tradotto in italiano proprio da Vincenzo Latronico


Ma il suo destino si era abbozzato prima dell’incidente: per una serie di coincidenze, di incontri fortunati e grazie a una spavalderia intellettuale non comune per un ragazzo di 16 anni, già al liceo aveva cominciato a collaborare con Bompiani: «Ero innamorato di una ragazza di nome Alessandra, che stava con un ragazzo più grande che faceva il lettore di manoscritti per una casa editrice. Così pensavo che quello fosse il lavoro più cool del mondo e quando, a un evento organizzato dalla scuola, incontrammo Elisabetta Sgarbi, presi il coraggio e le dissi: “Voglio fare il lettore di manoscritti”. Lei mi guardò sbigottita, ma mi rispose: “D’accordo, ti manderemo dei testi da leggere”. Due anni dopo, quando decise di pubblicare in Italia “Twelve”, il primo romanzo dello scrittore newyorkese Nick McDonell, che aveva la mia età e raccontava di un gruppo di liceali, mi chiese di tradurlo». Quando il libro uscì, Vincenzo scoprì che anche McDonell aveva avuto un incidente e, immobilizzato, aveva passato l’estate a scrivere. «Io, invece, avevo passato l’estate a giocare a Risiko».
La copertina de “La cospirazione delle colombe” (Bompiani 2011), il secondo romanzo di Vincenzo Latronico, con il quale si aggiudica nel 2012 il Premio Napoli, il Premio Bergamo e arriva finalista al Premio Comisso


Quando nel 2009 il processo per l’incidente si è concluso ed è arrivato, ormai inatteso, un risarcimento, Vincenzo lavorava all’Università Statale, faceva un dottorato e l’assistente in Storia della filosofia contemporanea. «Mi appassionava moltissimo, però avevo pubblicato il mio primo romanzo e scalpitavo per scrivere il secondo, ma non avevo mai il tempo. Quando arrivarono i soldi non ci potevo credere: erano 12mila euro, un anno del mio stipendio da assistente. Con quel denaro ho realizzato il sogno della mia vita: ho mollato il dottorato e mi sono trasferito a vivere a Berlino per scrivere». Era giugno, il marzo seguente aveva finito il romanzo “La cospirazione delle colombe”, il libro della svolta. Da quel momento era davvero uno scrittore che viveva a Berlino. (All’amore per la città che lo ha accolto è dedicato il nuovo libro “La chiave di Berlino” che uscirà a fine agosto con Einaudi ) 
Ho chiesto a Vincenzo Latronico di raccontarmi questa storia dopo aver letto un suo tweet che rispondeva alla domanda: il ricordo più bello della vostra maturità? «Il tizio in Porsche che mi investe in via Broletto la sera prima dell’orale, causandomi sedici fratture e poi facendomi causa per i graffi allo sportello. Ha perso male e, anni dopo, con il risarcimento ho mollato il lavoro e scritto il mio secondo romanzo». Poi aveva corretto: via Pontaccio, non via Broletto, e - su suggerimento del padre che ha la cartella clinica - le fratture erano otto. L’ho cercato perché mi piace un sacco quest’idea che una grande sfortuna, quella che ti ruba l’estate della maturità, si possa trasformare in un momento di svolta.
Vincenzo Latronico sorridente a Berlino con la sua Vespa sprint veloce del 1975, regalo di suo padre © Clara Miranda Scherffig


Vincenzo però è stato meno netto di me su questa teoria secondo cui le cose negative poi possono rivelarsi di segno opposto: «Oggi ti posso dire che le conseguenze dell’incidente sono state positive perché il mio ultimo romanzo è andato molto bene, ma forse se me l'avessi chiesto tre anni fa, quando ero paralizzato e non riuscivo a scrivere, ti avrei risposto: se fossi rimasto in Università forse adesso sarei professore…». Certo è sempre una questione di prospettive, ma per me la teoria di Cohen che cito spesso, della crepa e la luce, è sempre vera. Oggi Vincenzo va in giro per Berlino con una Vespa sprint veloce del 1975, color verde smeraldo, era di suo padre che gliel’ha regalata quando ha compiuto trent’anni.

 

Maturità 2023, Rusconi (Anp Roma): "la scuola non si salva con esami duri"

26.6.23

IL matrimonio tra Banari e Siligo: la sposa cammina sul ponte crollato I disagi dopo l’inondazione: ma le sbarre non fermano il sogno di una coppia

   dalla  nuova  sardegna del  25\6\2023


 di Luigi Soriga



Siligo
Un ponticello crollato non spezza le radici. «Sarà il nostro matrimonio, questa mattina, a fare da ponte tra Siligo e Banari». Così Sarah Della Casa, alle 10 in punto si tira su la gonna, la testimone le solleva il velo, e come se il vestito bianco fosse la fiancata lucida di una fuoriserie, passa rasente al guard-rail. Il velo fa il pelo alla barriera metallica, ma scivola immacolato dall’altra parte. Alle 11 in punto la sposa ha appuntamento nella chiesa di Banari, nel versante opposto del ponte interrotto, ma lei (assieme al futuro marito) ha deciso che quei trecento metri li deve percorrere a piedi. Non è una banale sfilata:


quella passeggiata è un simbolo. Significa ricucire idealmente due paesi, che da sempre vivono in simbiosi. «Mio padre – racconta lo sposo Antonello Sassu – è di Siligo, mentre mia madre è di Banari». Le anime di questi piccoli centri sono intrecciate a doppio nodo, e anche quando il fiume ha inondato tutto, il cordone ombelicale non si è mai reciso. La quotidianità, i rapporti, gli affetti, hanno sempre continuato a transitare. E anche Sarah, in questa singolare marcia nuziale, mentre avanza a passo lento, sta celebrando l’amore che lega i due paesi. «Ci siamo conosciuti a Modena – racconta Antonello Sassu – io ho 37 anni, lei 36, e viviamo lì da moltissimi anni. Siamo fidanzati da 14 anni e abbiamo due bambini: Beatrice che ha due anni, e Leonardo sette. Anche se abito lontano dalla Sardegna ormai da una vita, sono rimasto sempre legatissimo alle mie origini. Appena posso, anche con Sarah, ritorno a Siligo a trovare la mia famiglia, e naturalmente vado a trovare tutti i parenti che ho a Banari». Ma l’ultima volta, per Antonello è stata diversa. Il ponte interrotto è come una cicatrice ancora aperta tra i due paesi. Dal momento del nubifragio è come se fossero stati catapultati a chilometri di distanza l’uno dall’altro. Senza più il ponticello, bisogna fare il giro largo, e da appena 3 minuti il viaggio si dilata sino a mezz’ora di percorrenza. Ma nonostante i disagi, sia gli abitanti in questo mese si sono armati di inventiva e hanno tirato fuori dal cilindro un efficace manuale di sopravvivenza fai da te. Per avere il pane fresco la mattina, il fornaio e le rivendite hanno allestito la staffetta delle baguette. Il fornaio porta la cesta da un lato del ponte, e dall’altra parte, ad attenderlo, c’è il suo acquirente. Stessa soluzione per le medicine: la scorta per una settimana viene scambiata sul ponte interrotto. E anche quando c’è da portare il pacco, il corriere attende l’acquirente al di qua di questa sorta di “muro di Berlino”. O ancora, per le commissioni da fare in banca o in altri negozi, chi ha a disposizione due vetture ne parcheggia una su un lato e la seconda sull’altro lato del ponte. Così può fare a piedi 300 metri, e poi riprendere a guidare. Ma uno stratagemma simile non è praticabile quando hai un matrimonio e 200 invitati. «Il corteo di auto, è dovuto passare per Florinas, parliamo di una quarantina di minuti per arrivare a Banari». Invece Sarah, a costo di spiegazzare il vestito bianco, ha preferito la scorciatoia. E ora, alle 10,05, è lì che attraversa gli ultimi metri del ponte, in questa passerella non esattamente romantica dove al posto dei bouquet di fiori ci sono i tondini in ferro che germogliano sull’asfalto, e le reti arancioni che sanno tanto di allestimento da cantiere. Lei è sorridente: ultime foto di rito con la testimone davanti al cartello “Strada Interrotta”, e poi finalmente si lascia il ponticello alle spalle. Ad attenderla, su questa sponda, c’è l’auto che l’accompagnerà sino alla chiesa di Banari