La storia di Stefano Sulas ( scusate se la pubblico integralmente , non m'andava e poi non ci sono riuscito , di riassumerla ) conferma il paradosso , datemi pure del populista \ qualunquista , tipico di un sistema politico \ culturale che discrimina \ penalizza le persone che non hanno
Stefano Sulas (65 anni) mostra il contratto di lavoro annullato dopo le verifiche su i suoi documenti
avuto la possibilità d'istruirsi scolasticamente . Infatti non sapevo che per fare i lavori socialmente utili ci volesse la terza media . Ma allora mi chiedo come hanno fatto a fargli fare tutti quei corsi . Essa è il paradosso \ dilemma della burocrazia assurda ed astrusa che non distingue la regola dall'eccezione . E permette che gli acculturati non scolasticamente vengano discriminati , mentre ignoranti e Gaffers ( vedi un famoso ministro di questo governo che confonde Pompei con il Colosseo o dice che Colombo era contemporaneo di Gallileo ) vengono osannati dal media maistream e sono al potere . Ingnorano che le vite come la sua sono più dignitose della loro e che ha faticato per vivere onestamente e ha sempre dimostrasto la dignità e il suo valore erchè non è solo un pezzo di carta a detterminare una persona e il suo impegno ed passione che ci mette nel prorio lavoro ed i sacrifici fatti per dare alla famiglia una vita dignitosa . E poi il fatto di non aver pouto studiare ed essere andato a lavorare dopo la terza elementare non significa che persone come lui siano senza valore perchè non è un pezzo di carta che dettermina il valore e le competenze di una persona ma come esso agisce con quello che ha imparato ( ed impara semre visto chje nella vita non si finisce mai d'imparare ) con : umiltà , sacrifici , ed assenza di giudizio
Ma ora basta parlare eccovi la sua storia
unione sarda 14\7\2024
San Giovanni Suergiu
Aveva già firmato il contratto a tempo indeterminato dopo una vita da precario. Ma il sogno è svanito quando dopo i controlli si è scoperto che non aveva mai conseguito la licenza media.
Stefano Sulas, 65enne di San Giovanni Suergiu, si era fermato alla terza elementare e il Comune non ha potuto stabilizzarlo. «Mi è crollato il mondo addosso – racconta l’operaio – eravamo due Lsu in attesa di stabilizzazione. L’altro collega ce l’ha fatta. Io no. Siamo andati insieme al Comune per firmare il contratto. È passato qualche giorno poi è accaduto quello che non avrei mai immaginato». Dopo 29 anni di lavori socialmente utili e un’esperienza nella zona industriale di Portovesme Stefano Sulas sognava di arrivare alla pensione (potrà andarci tra un anno e nove mesi) con il posto fisso. «Nei giorni scorsi – racconta sconfortato – sono andato in Comune per annullare il contratto».
IL DISPIACERE
«Per me è una notizia terribile – racconta l’operaio – speravo di avere tutti documenti in regola. Si sarebbero dovuti informare, invece ho scoperto di non poter avere il contratto dopo la firma. Nessuno mi aveva detto del titolo di studio, ho sempre fatto tutti i corsi per poter lavorare. Se l’avessi saputo avrei preso anche la licenza media. Io in buona fede nell’autocertificazione ho scritto di aver frequentato fino alla terza elementare. Ora sono fermo in attesa di poter riprendere a lavorare come Lsu, ma sono molto deluso e dispiaciuto. Non riesco a darmi pace. Mi sembra di vivere in un incubo. Dopo alcuni anni di lavoro a Portovesme sono stato in cassa integrazione e mobilità. In seguito ho iniziato a con i lavori socialmente utili. Ho sempre lavorato da quando avevo otto anni, portando i buoi in campagna. La mia era una famiglia numerosa e la priorità era portare il pane a casa».
GLI AMICI
Nella frazione di Is Urigus, gli amici di Stefano Sulas sono dispiaciuti. «Nei giorni scorsi era felicissimo di aver finalmente firmato il contratto – dice Giuseppe Steri – siamo addolorati per Stefano. Ha lavorato per tanti anni e proprio adesso che vedeva vicina la pensione ha dovuto subire questo duro colpo». «L'amarezza dell’operaio è la stessa che prova l'amministrazione comunale che ne ha fortemente voluto la stabilizzazione – spiega la sindaca Elvira Usai - ma di fronte alle verifiche di legge, che siamo tenuti ad effettuare, e che hanno attestato la mancanza del requisito, non possiamo che riportare alla situazione lavorativa precedente l'operaio. Infatti, da lunedì riprende regolarmente a lavorare per il Comune, ma con il contratto da Lsu».
Perdere peso e rimettersi in forma può essere difficile, soprattutto se si è costretti a compiere l'impresa da soli. Ma a Luciano Fregonese, sindaco di Valdobbiadene (Treviso) da ormai dieci anni, il supporto non manca: l'appuntamento fisso è alle 19.30, il giovedì, quando i cittadini si incamminano con lui tra le colline e i vigneti per aiutarlo a non mollare, a fare quel passo in più per rimanere attivo. D'altronde il mestiere del sindaco non è semplice, forse troppo sedentario, e quei 40kg messi su dal primo mandato vanno bruciati, ma è meglio farlo in compagnia. I risultati? Magari non saranno promettenti come quelli delle elezioni, ma ne vale comunque la pena.
L'iniziativa: camminata col sindaco
La prima uscita risale a qualche settimana fa, ed era sempre un giovedì. Luciano Fregonese si è incamminato, verso le sette e mezza di sera, e pian piano dietro di lui è cresciuta la folla: all'inizio erano meno di 50, ma poi il passaparola ha fatto la differenza e più di 100 cittadini - a volte 150, a volte 130, a seconda della temperatura e degl impegni - hanno percorso le strade sterrate al suo fianco, supportandolo nell'impresa. Come riporta il Corriere del Veneto, l'età è variabile, dai sei ai settant'anni, e gran parte dei partecipanti sono donne, «perché noi siamo meno pigre di voi maschietti», avverte una mamma che ha preso l'impegno di controllare il chilometraggio e il tempo impiegato. Il sindaco aveva provato ad affrontare da solo a perdere peso, «a mangiare una volta al giorno, ma niente da fare». Ora ha un motivo in più per continuare, per riuscire e per mettere un piede davanti all'altro. Solitamente le camminate si protraggono per circa 5km, a volte un po' di più, e si passa un'ora in compagnia, tra chiacchiere di vario tipo, commenti sull'immondizia scaricata nel posto sbagliato e un lampione che non funziona. Una volta raggiunto il traguardo, sudato magari ma soddisfatto, Luciano sorride ai suoi cittadini, li ringrazia e dà appuntamento al prossimo giovedì. La corsa «Mi hanno dato del panzone tempo fa, scritto su un muro - racconta Fregonese al Corriere - Non mi sono offeso, dopo 20 anni da amministratore, questo è il risultato. Somministrare ingrassa, ingrassano gli obblighi conviviali, le lunghe deliberare con effetti micidiali sui partecipanti». A Valdobbiadene è diventata un'istituzione. E' stato da poco confermato per la terza volta nella carica di primo cittadino. Il problema, insomma, è che all'atto del primo insediamento nel Comune, 10 anni fa, la bilancia segnava 90 kg; oggi 130. Ora tutto il paese tifa per lui, e il suo saluto. Giovedì prossimo, in piazza alle 19.30, c'è un nuovo appuntamento con la corsa di saluto
due storie ua d'emigrazione del secolo scorso un altra delle cause . che confermano lo studio de la società sparente di Emiliano morrone ( wikipedia e account facebook )
Nonostante il rarefarsi dei protagonisti dell’esodo dall’Italia nel secolo dell’emigrazione (1861-1970), la memorialistica dedicata al fenomeno continua a godere ottima salute. Se le generazioni che hanno ispirato quelle pagine poco alla volta tendono a scomparire, sono spesso i figli e i nipoti a testimoniare quella che giustamente considerano epopea di famiglia, anche per senso di gratitudine e rispetto.
Nel genere, non tutte le pubblicazioni meritano eguale stima sotto il profilo letterario, ma – quando sincere e documentate – tutte vanno ad arricchire l’elenco dei racconti di vita collettiva e individuale che formano la memoria mai colma, necessaria alle comunità di destinazione e di origine. Solo attraverso quella memoria si possono rinsaldare i legami privati. Ma anche quelli pubblici – istituzionali, culturali ed economici – che tante località italiane hanno costruito con i
luoghi dove loro ex cittadini sono emigrati.Simone Feroli
Un buon esempio di come questa memoria detta memoria possa essere tramandata, viene da Storia di una emigrata, un lavoro di Simone Feroli che non casualmente porta in premessa una frase di Wang Shu: “Perdere il passato significa perdere il futuro”.
La narrazione si occupa della vicenda della zia dell’autore, “Vittoria, che nel 1912 partì per una nuova vita negli Stati Uniti”, abbandonando Roccantica, comune della provincia di Rieti, a 26 anni. Siamo all’antivigilia della Prima grande guerra, e la giovane donna parte, come altre centinaia di migliaia di italiani, per il mal operare degli allora governanti, che invece di dedicarsi allo sviluppo delle sacche di povertà del paese, andavano per guerre coloniali nel Mediterraneo, combattendo l’impero turco per sottrargli i territori libici.
Viaggia da sola verso Napoli e prende, come milioni di connazionali, il transatlantico della speranza, che al termine della lunga e faticosa traversata approda vicino a Liberty Statue, inaugurata proprio nell’anno di nascita di Vittoria. Benché debba lasciarsi dietro gli affetti che l’hanno accompagnata dalla nascita, ha deciso di lasciare la vita contadina, tra campagna, mulino e forno, botti di vino e di olio, e sfidare la sorte della vita nel paese sconosciuto ma “favoloso”. Se ne sente attratta e spera che lì possa svoltare.
Non va completamente allo sbaraglio: ad attenderla, come capita a un po’ tutti gli italiani che sbarcano al molo di Ellis Island, ci sarà un parente o un amico di famiglia. Vittoria, dopo il lungo viaggio in mare iniziato il 18 aprile è attesa mercoledì 1° maggio dal cugino Attilio che con la moglie Olga vive a Eastchester nel Westchester newyorkese. Al cugino toccherà trovarle un giaciglio e qualche lavoretto, tanto per cominciare. Poi sarà lei a darsi da fare. L’arrivo ad Ellis il giorno della festa dei lavoratori è comunque di buon auspicio.
A poco più di quattro mesi dall’arrivo, Vittoria andava in sposa a tal Antonio Cinquina, vedovo, con il quale sarebbe rimasta tutta la vita. Adesso era “sistemata” come si diceva allora, aveva casa e famiglia a Tuckahoe e ne era la “padrona”. I coniugi Cinquina si sarebbero presto trasferiti nel Bronx e qui avrebbero allevato i figli che nel frattempo, come usava, il buon Dio inviava copiosi.
Per l’autore ricostruire i fatti della quotidianità, all’interno del progressivo inserimento di Vittoria nella società americana, con il contestuale progressivo distacco dal passato italiano, è obiettivamente difficile, a causa della frammentarietà delle testimonianze orali e scritte e della facilità con cui le une possono entrare in conflitto con le altre. Dal quadro complessivo si ha il relato di una vita sufficientemente armoniosa, costellata di qualche sventura e di tante gioie. Vittoria e Antonio mettono al mondo cinque figli che vanno ad aggiungersi a Michelina, dote del primo letto. Agli atti del censimento del 1925 il nucleo famigliare figura ancora compatto allo stesso domicilio. Il capofamiglia è operaio in una raffineria di zucchero, Vittoria è casalinga. Nel censimento del 1950, riporta Feroli, “risulta che Antonio di 71 anni e Vittoria di 64 a casa erano rimasti da soli. I figli si erano sistemati, chi più e chi meno.” A parte Enrico, chiamato a combattere nel luglio 1943 -e morto col grado di caporale nel marzo 1945 – quattro giorni prima del ventiseiesimo compleanno – da radio-operatore nel 579th 392th Bomb Group. Lo avrebbero insignito della “Purple Hearth”. Aveva gli anni di mamma Vittoria all’arrivo a Ellis Island. Tante e belle le foto di Roccantica che, in coda, corredano il libro di una fetta d’Italia sparita. *
Insegna Relazioni Internazionali e Storia e Politiche UE all’Angelicum di Roma. Coordino le ricerche e gli studi della Fondazione Bruno Buozzi. Tra i promotori di Aiae, Association of Italian American
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DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE
Terra di ’ndrangheta Il Comune calabro dove nessuno si è candidato è di nuovo commissariato Tra abbandono e omertà, qui il tempo torna indietro E il futuro non arriva mai
Il Fatto Quotidiano
» Maddalena Oliva INVIATA A SAN LUCA (RC)
Un vecchio canto della Locride vuole che, da queste parti, in mezzo all’aspromonte, un professore iniziò a sezionare centinaia di banditi morti. Cercava tracce di tanto rancore esploso col brigantaggio dopo l’unità d’italia e poi, più tardi, con l’onorata Società. Molti risultarono ammalati di cuore. I più riportavano invece strani funzionamenti delle ghiandole surrenali: da cui, la ferocia incontenibile. “Li sudditi son tutti immiseriti – suonava il canto – ministri, senatori e deputati fanno communa e vui padre Vittorio (Vittorio Emanuele II, ndr) non guardate. Vui jiti a caccia, fumati e durmiti”.
Ad aver paura di guardare, qui, a San Luca, non è stato solo il re. Alle amministrative, meno di un mese fa, non si sono presentati candidati. Come già nel 2017 e nel 2018. Dopo lo scioglimento per mafia nel 2013, il Comune è stato sempre commissariato. Prima per infiltrazione mafiosa, poi, nel 2015, per il non raggiungimento del quorum dei votanti. E infine perché nessuno si era candidato. “È la nostra protesta contro lo Stato”, dissero i cittadini. Fino al 2019. Quando ad avere il coraggio di presentarsi e a essere eletto fu l’infermiere in pensione Bruno Bartolo, 73enne. Raggiunto oggi da quattro avvisi di garanzia (per ipotesi di reati ordinari, non di mafia), ha deciso di non ricandidarsi. “Nessun condizionamento né pressioni di ’ndrangheta – spiega – le istituzioni non mi hanno aiutato. L’avviso di garanzia è stato un pugno allo stomaco, ma il motivo è la solitudine”. Così il tempo a San Luca è tornato indietro, come solo in Calabria accade. A occuparsi dell’ordinaria amministrazione è tornato un commissario. E, ancora, si è insediata la Commissione d’accesso antimafia, per accertare eventuali condizionamenti nell’amministrazione Bartolo. Ad annunciarla, la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo. Direttamente da San Luca: “È emersa un’inerzia totale dell’amministrazione. Siamo qui per sostenere la speranza di chi non vuole assoggettarsi al mandamento di questo territorio. E abbiamo il compito di dire alle donne e ai bambini che cambiare si può e si deve”.
Visto dall’alto San Luca – assieme a Platì e ad Africo tra i paesi più isolati della Locride, pur essendo coi suoi 105 km² di area montana il secondo Comune della provincia di Reggio Calabria – è una macchia grigio-gialla. Spunta dalla pancia di un vallone che cinge l’aspra montagna, “montagna bianca” in greco. Una fiumara prosciugata, a un fianco, rocce sospese su voragini, dall’altro. Sospese e abbandonate come le vite dei suoi 3.700 abitanti che paiono fantasmi. Qui sono imparentati tutti con tutti. E hanno il cognome pesante: Nirta, Strangio, Pelle, Vottari, Mammoliti. Gli arrestati per 416bis sono 115, 250 quelli per associazione finalizzata al traffico di droga, 50-60 i residenti raggiunti da altre misure cautelari. “Ma non simo tutt’ d’ndrangheta, chiaro?”, dice Don Tonino Saraco, rettore del Santuario della Madonna di Polsi, il luogo sacro finito su giornali e tv di tutto il mondo per i famosi summit di ’ndrangheta in cui i vertici di tutti i “Crimini” o “Province” erano soliti incontrarsi, per alleanze, strategie, riti di iniziazione. Era il 2010 quando le telecamere dei carabinieri li ripresero riuniti attorno a Domenico Oppedisano, capo-crimine di allora, ma esiste traccia di questi incontri dalla fine dell’800. Don Tonino è il religioso scelto per riportare il santuario “all’immagine di ciò che deve essere: luogo di preghiera e di accoglienza dei pellegrini ma anche spazio di crescita sociale e civile che non si concilia con illegalità e malavita”. E, nonostante le intimidazioni, don Tonino, uno di quei calabresi cocciuti e veraci, sta portando avanti la sua missione: ha spostato l’effigie della Madonna adorata dai boss (non c’è bunker per i latitanti che non ne conservi l’immagine o la statua) per far spazio al busto di don Giuseppe Giovinazzo, parroco decapitato nel 1989 proprio all’ombra di Polsi; ha preso con sé a lavorare alcuni detenuti da reinserire; ha collaborato per ripulire l’area mercatale, lì dove ogni bancarella veniva assegnata seguendo gerarchie mafiose. “Eppure non si esce dalla rappresentazione di San Luca come il ‘Locale-mamma’ di ’ndrangheta. Ci manca il coraggio di ribellarci pubblicamente. Per paura, per autodifesa. Ma stiamo facendo, pur se silenziosamente, cose straordinarie”.
È che in certe situazioni, lo sforzo di evitare il conflitto aperto può diventare omertà. E la Chiesa per molti anni, con l’ex parroco di San Luca e del santuario di Polsi, quel don Pino Strangio condannato in primo grado a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, è stata connivente se non protagonista. Si deve a monsignor Francesco Oliva, vescovo della Locride, un cambio di passo. Al posto di Strangio, ha nominato parroco dell’unica chiesa di San Luca un 35enne al primo incarico, Don Gianluca, che ha aperto l’oratorio che qui non esisteva. Il vescovo ha scritto una lettera alla cittadinanza: “La mancata presentazione di liste è una resa. Conosco le sofferenze e le ferite di questa comunità, ma il governo della Città è nelle nostre mani e non possiamo arrenderci. Altrimenti abbiamo perso tutti, lo Stato e la Chiesa”. Così è nata l’idea di lanciare una scuola di formazione politica, “perché abbiamo bisogno di una buona politica, cosa difficile ma possibile. Alcuni paesi hanno
perso la fiducia nelle istituzioni, credono che non valga la pena andare a votare... non dobbiamo accettarlo”.
A San Luca alle ultime politiche l’affluenza è stata del 22%. È una vecchia storia quella del paese appestato e dimenticato. Da quando – era il 1592 – i pastori montanari dell’antico villaggio di Potamìa, costretti dalle frane, scesero più a valle a fondare San Luca. Cominciò così, tra miseria e sofferenza, la vita errante di questo popolo, con il miraggio di mutevoli terre promesse. Ieri le ricchezze accumulate negli anni dei sequestri. Oggi quelle del narcotraffico mondiale. È qui che passano la droga e le armi che riforniscono le piazze di tutte le mafie. È qui che sono nati e cresciuti i rampolli delle note famiglie – tutti giovanissimi, anni 2000 – tra i latitanti più pericolosi del Paese. Ed è da qui che 16 carabinieri, comandati dall’ottimo maresciallo maggiore Michele Fiorentino, di stanza a San Luca da 21 anni, instancabilmente danno la caccia alle stesse famiglie, agli stessi cognomi, alle stesse persone. Chi, come il brigadiere Carmine Tripodi, anche a costo della vita. “Sono passate le generazioni, ma siamo tornati indietro. Sa cosa si dice qui? Che se non avete un precedente non vi potete sposare...”, racconta con un riso amaro il comandante. “È un gioco delle parti: noi stiamo da una parte, loro dall’altra”.
La gente ha paura di restare, ha paura di venire, ha paura di lavorare a San Luca. Eppure, a colpire sono le tante macchine di cilindrata pesante – con targa tedesca, come un memento di Duisburg – che si muovono su strade deserte in mezzo alle classiche case “non finite” calabresi, coi piani di mattoni in dote per le figlie femmine e i fiocchi ai cancelli per la Madonna di Polsi. Soldi, tanti, ne circolano (leggendario il ritrovamento da parte dei carabinieri di sei milioni di euro sottoterra). Donne in giro non se ne vedono. Solo uomini, anziani, a cercare ombra sotto gli oleandri o seduti sulle ringhiere. Nonostante l’indice giovanile tra i più alti d’italia – 785 ragazzi su 3.700 abitanti – la vita ha mantenuto molti dei vecchi usi, oltre ai principi dell’onore e del rispetto. Le ragazze, per esempio, vengono “scelte” durante la “vetrina” della processione di Pasqua. Si sposano ancora bambine e fanno di media 4-5 figli. Poi vivono in casa, chiuse. È un’italia, se è Italia, di 80-100 anni fa. C’è chi, come il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, è convinto che per luoghi “costituzionalmente incompatibili con lo Stato di diritto”, ci sia bisogno di “un progetto che metta in campo strumenti non ordinari, altrimenti il rischio è lo sfiancamento dello Stato”. E lo Stato qui si conosce solo quando viene inaugurata una caserma: allora si vedono ministri e qualche politico locale. Ma quando ha aperto quella ad Africo Nuovo, in un ex villone sottratto ai Morabito, nessun cittadino si è presentato. Anche i bambini con le bandierine tricolori erano scolari di un altro paese. “Queste persone sono rimaste ostaggio di quella agenzia diseducativa che si chiama ’ndrangheta e hanno visto la politica trattare coi propri aguzzini. Facile dire loro ‘ribellatevi’... La strategia qui è da sempre la stessa: siamo al quarto commissariamento. Ma nel frattempo i processi democratici non sono cresciuti né sono stati sgominati i clan, quindi...”. Francesco Mollace è uno di quegli insegnanti che ci crede tanto. Docente di Filosofia e storia e membro del Forum regionale terzo settore e scuola, è il presidente di Civitas Solis, che gestisce, assieme a Save the Children, il “Punto Luce” di San Luca. L’unico spazio di aria – assieme a Libera con la sua referente Deborah Cartisano – per bambini e mamme del luogo. Coi loro progetti, dai corsi di robotica alla musica, dalla ginnastica all’inglese, Francesco e le educatrici dimostrano che, con un’alternativa, è possibile togliere a questi ragazzi lo stigma che suona come una condanna: “Sono di San Luca”. “C’è un enorme potenziale che, se non orientato, prende altre vie. Bisogna che qualcuno ci creda. In Calabria abbiamo, tra gli studenti, il più alto tasso di competenze alfabetiche e numeriche non adeguate e il più basso indice di lettura di libri e quotidiani (4%). Il cancro puoi decidere se curarlo sezionando, tagliando, asportando. Oppure, come sta avvenendo in oncologia, rigenerando i tessuti, con l’immunoterapia”.
Nicola Gratteri, profondo conoscitore di queste terre, ripete in continuazione “meglio una scuola che un carcere”. Ma a San Luca di scuole ce n’è una sola e senza un dirigente fisso da oltre due anni. Il padre di Corrado Alvaro, scrittore che qui è nato, era un maestro. Fece “un patto con l’avvenire. Che quanti figli avrebbe avuti li avrebbe fatti studiare”. Ma l’incitamento continuo era di “abbandonare il paese maledetto”, ricordava il figlio Corrado. Che mai dimentico dei suoi anni a San Luca, scrisse: “L’adolescenza è una riserva per quando la fantasia avrà cessato di parlare”. Ma ci sono luoghi in cui da sempre resta muta. O quasi.
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Moltissime persone hanno visto e condiviso la notizia falsa secondo cui sarebbe stato Marco Violi a sparare, tanto che diverse grandi testate internazionali hanno dovuto smentirla
Nella notte tra sabato e domenica l’FBI ha reso pubblico il nome di Thomas Matthew Crooks, l’uomo che ha sparato al candidato Repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump durante un comizio in Pennsylvania e che subito dopo è stato ucciso da agenti della sicurezza.Prima che il nome di Crooks diventasse di pubblico dominio, però, sui social network avevano iniziato a circolare notizie false sull’identità dell’attentatore. In modo piuttosto sorprendente, perlomeno se vista dall’Italia, quella che più di tutte ha attecchito ed è stata ricondivisa (e quindi a cui ha creduto più gente) indicava come attentatore il giornalista sportivo italiano Marco Violi, youtuber con un discreto seguito e direttore responsabile del sito romagiallorossa.it. I post che lo accusavano sono stati visti da almeno da qualche milione di persone e condivisi migliaia di volte, al punto che molti giornali internazionali sono dovuti intervenire per smentire la notizia.Pochi minuti dopo l’attentato, su X (Twitter) aveva iniziato a circolare una foto di Violi accompagnata da un testo che lo definiva «il cecchino di Trump». Nella foto Violi veniva descritto come «un famoso estremista antifa» (contrazione di anti fascist, antifascista, che negli Stati Uniti viene usata per indicare un movimento di attivisti nato in opposizione alla crescita dei movimenti di estrema destra): ha avuto grandissima diffusione soprattutto su X (Twitter) e Gab, una piattaforma social utilizzata da militanti di estrema destra, e su alcuni canali Telegram.La diffusione è stata così ampia che alcune fra le principali testate e agenzie stampa internazionali, come Reuters, Bloomberg e NBC News, hanno pubblicato articoli di fact-checking per smentire che Violi fosse per davvero l’attentatore di Trump. Se fosse circolata solo in Italia probabilmente la notizia sarebbe sembrata immediatamente implausibile, ma in un paese in cui Violi è presumibilmente sconosciuto ha finito per essere molto ricondivisa.Probabilmente, la foto di Violi ha avuto una diffusione così ampia dopo essere stata postata su X da Wall Street Silver, un account seguito da più di un milione di utenti e con cui interagisce spesso anche il proprietario di X, l’imprenditore Elon Musk. La foto postata da Wall Street Silver è stata vista da più di due milioni di persone, poi l’account l’ha eliminata.
Lo stesso Violi ha parlato della vicenda con un post pubblicato sul suo profilo Instagram, arrivando a dover precisare: «Smentisco categoricamente di essere coinvolto in questa situazione». Non è chiaro quale account abbia iniziato a far circolare la foto: Violi ha raccontato di essere stato svegliato a tarda notte dalle «numerose notifiche» ricevute su Instagram e X, e che i primi a postare la sua foto su X sono stati due account italiani, LogikSEO e @Moussolinho (quest’ultimo è stato disattivato da X e Instagram). Ha anche detto che su internet circolano notizie false sul suo conto già da cinque anni, e che lunedì denuncerà gli account che hanno postato la sua foto sulle piattaforme social.
Quella di Violi non è l’unica notizia falsa sull’attentato a Trump circolata nelle scorse ore. Diversi post, tra cui alcuni scritti da politici statunitensi che ricoprono cariche elettive, sostenevano senza prove che l’attentato fosse stato ordinato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Per esempio, subito dopo l’attentato, il deputato Repubblicano del Congresso Mike Collins aveva scritto esplicitamente: «Biden ha dato gli ordini».
dopo il bellissimo spettacolo sempre organizato dalla collaborazione tra L'accademia Bernando demuro ed https://www.eventbrite.it/ sotto la destra a locadina degli eventi di luglio e di agosto m
tenuto IL 5 LUGLIO 20024 Nel suggestivo sito dell’olivastro millenario di Luras
l’albero più antico d’Europa, Peppe Servillo ha sublimante interpretato Marcovaldo di Italo Calvino. Il grande attore e cantante napoletano sarà accompagnato dalle note della chitarra di Cristiano Califano
Servillo ha prestato la propria inconfondibile voce all’eroe tragicomico, raccontando alcune delle sue avventure. L’ambiente, suggestivo e magico, ha reso l’evento irripetibile che credo che neppure le foto da me scattate ( le meglio riuscite ) il cellulare no riesco a trovare la mia canon reflex che trovate sotto riesco a rendere appieno lo spettacolo .
Lo spettacolo si inserisce all’interno del Festival Bernardo De Muro ( trovate sopra il programma di luglio e agosto )
<<La scelta delle storie >>-- da Galluraoggi << è stata dettata dalla volontà di far emergere l’assoluta modernità del personaggio, attraverso i suoi aspetto più fiabeschi e ironici. La complessità della vita in città, l’urbanizzazione senza razionalità e ordine, la crescente industrializzazione, la povertà delle fasce più basse della popolazione, la difficoltà delle relazioni umane e dei rapporti interpersonali. Queste sono alcune delle tematiche affrontate >> .
Infatti Le storie di Marcovaldo sono piaciute a " mio figlioccio " di 6 anni che era con noi allo spettacolo , i quanto invitano a fronteggiare gli inconvenienti della vita di tutti i giorni con fantasia e immaginazione. Marcovaldo, cioè, all’interno della sua dimensione tragicomica, ci insegna a cercare in ogni momento della giornata tracce e modi per poter essere felici.
Ieri Ho assistito a
Nell’anno del centenario Pucciniano l’Accademia musicale Bernardo De Muro celebra il grande compositore con una lettura musicale dedicata alle donne protagoniste delle opere di Puccini: Tosca, Turandot, Manon, Madama Butterfly, donne sensibili, forti e vitali ma inesorabilmente votate al sacrificio di sé. Ieri Giovedì 11 luglio, alle ore ore 21:30, nel suggestivo Anfiteatro delle Fonti di Rinaggiu, l’attrice Laura Morante in "PRIME DONNE", è stato un pregevole viaggio attraverso l’universo di Puccini e le donne protagoniste delle opere del grande compositore: Tosca, Turandot, Manon, Madama Butterfly, con le loro sensibilità, la loro forza, i loro tormenti, a cui ha magistralmente dato voce l’attrice Laura Morante, artista piena di carisma e talento, cosi coinvolgente d'afffascinare il pubblico soprattutto quelli estranei ( salvo qualche pezzo comparso in clonne sonore ) di lirica
accompagnata da altrettanta maestria, accompagnata dall’eccellenza della musica clasica italiana: Francesca De Blasi (soprano), Simone Calcinai (violino) e Massimo Salotti (pianoforte).
ed oggi ad uno degli eventi ( al concerto non sono andato perchè mi sentivo poco bene e poi sto iniziando a stancarmi , pur amando de andrè ed le sue canzoni che cito diverse volte nei miei post , di questo stanco e inflazionato tributo cooveristico ipocrita nella maggior pare dei casi visto che in vita molti lo schernivano e lo deridevano ed ora lo ossannano e lo santificano ) alla prima giornata della 19 edizione del faber festival la presentazione del libro ogni prigione è un isoladi Daria Bignardi . Molto affollata e piena di gente di solito si trova spazio . Infatti accade come sempre quando lo scrittore \ autore un vip o un volto mediaticamnte noto la gente , almeno la maggior parte , era più interessata al personaggio che al suo libro . Infatti nessuno\a che ha fatto domande , eppure visto le tematiche de andreiane non sarebbero mancate , forse perchè la bravissima presentatrice , Paola Giua , gli ha ( e mi ha ) anticipato . Ecco comunque le mie socumtazioni all'evento
Oltre al caso Morgan , alcuni fatti di cronaca giudiziaria hanno cartterizzato questa settimana . Il primo è l'arresto di #Bozzoli , ricercato in tutta europa per l'orrendo omicidio dello zio , era nella sua villa nascosto sotto il letto . tipico finale del paese di #pulcinella . Il secondo e l'esito della sentenza d'appello per , anchew qesto efferrattissimo ed oirripilante omicidio della giovane . lo la famiglia #mottola ( padre commissario di polizia , figlio e madre ) assolti mentre i #parenti di #Serena#condannati alle spese legali . Ed ifine ciliegina sulla torta , Ma non è troppo, , è orribile sentenza a prescindere dalla nazionalità e dall'etnia dei colpevoli è questa qua : << Il contesto giustifica la violenza. Con questa motivazione due rom sono stati assolti in appello dall'accusa di maltrattamenti, in primo grado erano stati condannati a due anni e mezzo >> Infatti
Lascia senza parole una sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Torino che, ribaltando il risultato del processo di primo grado, ha assolto una coppia di genitori Rom accusata di avere picchiato le proprie due figlie. E non si parla di qualche schiaffetto, ma di calci, angherie e pestaggi anche gravi avvenuti, come riferisce il quotidiano Repubblica, “in un ambiente malsano”. Inoltre, “la coppia litigava violentemente anche davanti alle figlie”. I comportamenti dei due accusati, lui 54 e lei 44 anni, avevano portato i giudici di primo grado a condannarli a 2 anni e 6 mesi di carcere. D’altronde, non c’erano dubbi sul fatto che le violenze fossero avvenute, tanto che nemmeno la Corte d’Appello lo ha messo in discussione. Lo stesso, però, ha deciso di assolvere gli imputati in quanto, testuali parole, “la violenza è un connotato di quell’ambiente“.
Oltre a suonare come un’offesa al buon senso, questa sentenza apre la strada a interpretazioni pericolose anche in caso di altri reati avvenuti in altri ambiti. Chi può negare, infatti, che vi siano periferie il cui degrado è simile a quello che si può trovare in un campo Rom? Ora, se un genitore che abita in quelle periferie massacra di botte i figli dobbiamo aspettarci che sia assolto perché vive in “condizioni di degrado” e quindi facili al verificarsi di violenze? Il Tribunale d’Appello, con una valutazione davvero curiosa, ha anche stabilito che in casa c’era da parte dei genitori un “atteggiamento amorevole” (e meno male, ndr), e che “in questa logica” le percosse avevano solo un obiettivo educativo. Immediate le reazioni del mondo politico. La senatrice di Fratelli d’Italia Paola Ambrogio ha definito la sentenza “aberrante e paradossale. Chiedo formalmente”, ha incalzato la Ambrogio, “che il Ministro della Giustizia mandi gli ispettori. E’ un fatto gravissimo e un precedente pericolosissimo: da un lato si certifica che i campi Rom sono un contesto dove la violenza è all’ordine del giorno, dall’altro si sdogana la violenza contro donne e bambini proprio perché in quel contesto è normale. Mentre la prima è una non notizia, la seconda è una potenziale bomba sociale. C’è il rischio che si legittimi la violenza e gli abusi di un popolo che rifiuta sistematicamente qualsiasi percorso di integrazione e rimane, volontariamente, ai margini della società in vere e proprie zone franche. Che questo sia avallato dal nostro sistema giudiziario è intollerabile”.
Ma fortunamente questa settimana ci sono anche altre storie interessanti e più allegre . Ancora sugli esami ormai conclusi della maturità
Maturità, alunna spiega all’orale di non potersi permettere l’Università dei suoi sogni: un docente le trova un lavoro Di https://www.tecnicadellascuola.it/ 12/07/2024
Una storia quasi commovente: una studentessa di un istituto superiore di Milano che ha appena sostenuto l’esame di maturità potrà pagarsi gli studi universitari grazie ad alcuni docenti. Ecco i dettagli della vicenda, come riporta Il Corriere della Sera. Un orale particolare La studentessa, all’orale, ha spiegato la sua situazione ai docenti: “Sono stata molto schietta: ho spiegato che il mio sogno sarebbe stato iscrivermi alla Iulm per frequentare il corso di laurea in Moda e industrie creative, o, in alternativa, il corso di Comunicazione, media e pubblicità, ambito, quest’ultimo in cui vorrei lavorare”, racconta la neo diplomata. “Ho però aggiunto anche, con grande sincerità, che per me questa non è una strada praticabile, al momento. In casa siamo in cinque e lavora solo mio papà. Non possiamo affrontare la retta della Iulm. Anche mio fratello maggiore dopo il diploma in informatica e telecomunicazioni, non ha potuto proseguire e non ha ancora trovato un impiego, se non lavoretti con una paga minima. Ho detto quindi che mi sarei presa un anno sabbatico per provare a cercare un lavoro”. Poi, il colpo di scena: il presidente di commissione ha preso la parola e le ha chiesto se se la sentisse di sostenere un colloquio in un’azienda che cercava personale, per lavorare part time e intanto studiare. Un paio di giorni dopo, la giovane sostiene il colloquio e viene assunta: comincerà il 2 settembre. La commozione dei genitori “Il racconto della studentessa mi ha molto colpito riportandomi indietro nel tempo e ai sacrifici che ho fatto io stesso per mantenermi agli studi. Ho pensato di aiutarla chiamando aziende che conosco per capire se vi fosse la possibilità di un lavoro part time da offrirle permettendole al contempo di studiare – racconta il preside -. Oggigiorno spesso gli studenti non comprendono il valore dello studio, di quell’apprendimento che non si esaurisce con il titolo di studio ma è per tutta la vita (life long learning). L’educazione e la semplicità dimostrate da lei sono qualità che fanno e hanno sempre fatto la differenza”. La notizia dell’assunzione ha emozionato molto la studentessa. “Non me l’aspettavo, sono felice che abbiano colto il mio valore. Mi hanno detto che mi occuperò di fatture e dell’amministrazione dei condomini. Prenderò un anno sabbatico e metterò da parte gli stipendi, ma nel frattempo comincerò a sostenere i test per la Iulm. E se lo stipendio non basterà cercherò di avere una borsa di studio. L’importante è non pesare sulla mia famiglia”. La mamma Sandra si è commossa, il papà “non è uno di tante parole e quindi ha parlato con un grande abbraccio. Il mio primo obiettivo e il più importante era renderli orgogliosi di me, per ringraziarli anche di avermi dato la vita. Anche loro da giovani non hanno avuto grandi opportunità. E poi c’è anche mio fratello minore che deve ancora terminare gli studi”.
Evangelizzazione al Poetto: la spiaggia diventa palcoscenico di Fede 11 luglio 2024 alle 16:12 unionesarda
Evangelizzazione al Poetto: la spiaggia diventa palcoscenico di Fedel calar del sole, il Poetto di Cagliari, ieri si è animato in modo inaspettato. Un gruppo di giovani con magliette blu inizia a ballare, accompagnato dalla musica, sotto gli occhi curiosi di bagnanti e passanti. Sono i membri del Movimento religioso Alleanza Misericordia, che fino a domenica saranno sul lungomare cagliaritano per avvicinare Dio ai giovani. Fondato a San Paolo nel 2000, il movimento è presente in quasi 60 città del Brasile e in altri sette Paesi, tra cui l'Italia.
La missione? Evangelizzare per trasformare, con l’obiettivo che tutti gli evangelizzati diventino evangelizzatori. La loro presenza è un mix di allegria e spiritualità: balli, canti e momenti di preghiera si alternano, coinvolgendo chiunque passi. La semplicità dei loro sguardi e gesti riesce a toccare il cuore delle persone. “Evangelizzare per trasformare” è il loro motto, con l’intento di essere la voce attraente in un mondo spesso distratto dall’effimero. Il Poetto, col suo fascino estivo, diventa così un luogo di incontro tra fede e quotidianità. Padre Francesco Piu, sotto un ombrellone, è disponibile per le confessioni. Andrea, uno dei primi a sedersi, si racconta e si commuove, trovando infine sollievo. Anche Luca Lai, inizialmente titubante, prende coraggio e trova conforto parlando con il padre francescano. Don Enrico Murgia, a piedi nudi sulla spiaggia, accoglie i bagnanti per le confessioni, offrendo ascolto e comprensione. L’atmosfera è vivace: si balla e si canta, con il profumo del mare a fare da sfondo. Flash mob e performance teatrali catturano l’attenzione dei passanti, che spesso si fermano per ascoltare e condividere le proprie storie. Alcuni membri del gruppo portano un tabellone colorato con la scritta “C’è Posta per Te”, offrendo numeri di telefono per chi desidera parlare e affidarsi alla Parola di Dio. La spiaggia di Cagliari, per qualche giorno, diventa così un luogo di speranza e trasformazione, unendo fede e quotidianità in un abbraccio di misericordia.
Donatella Di Pietrantonio, il racconto agghiacciante della violenza sessuale: "Quella sera in cui mio padre ha tardato" "Nel viale deserto mi sono ritrovata la sua lingua in bocca. Roteava veloce. Era il mio primo bacio, schifoso come mai l’avevo immaginato. Mi strofinava contro lo stomaco il sesso chiuso nei jeans”
Tu sei una bambina, una ragazzina di appena 16 anni e stai tornando esausta da una gita con la scuola. I saluti ai compagni e alle professoresse, i souvenir nello zaino e l’attesa di tuo padre che venga a prenderti in macchina. Ti si ferma davanti “lui”, un trentenne muscoloso e alto che avevi incrociato con lo sguardo qualche volte per le strade del paese dove vivi: il bar, il campo di calcio della squadra locale. Poche parole, l’offerta di un passaggio, il diniego. Poi all’improvviso ti ritrovi la sua lingua in bocca. “Ha smesso di parlarmi di colpo, mi ha appiccicata al tronco del tiglio. Nel viale deserto mi sono ritrovata la sua lingua in bocca senza capire come ci fosse entrata. Roteava veloce. Era il mio primo bacio, schifoso come mai l’avevo immaginato. Mi strofinava contro lo stomaco il sesso chiuso nei jeans”.
Il mio primo bacio, schifoso come mai l’avevo immaginato È l’inizio della fine, l’inizio di una violenza sessuale che ti farà considerare per tutta la vita una sopravvissuta. E a raccontarla con quella sua voce pacata, così efficace nell’affondare lo sguardo sul male privo di alcuna ragione proprio per quella dolcezza, è Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice che con “L’Età fragile” ha vinto il premio Strega 2024 qualche giorno fa. Uno schiaffo inaspettato, un pugno allo stomaco, un urlo contro la violenza sulle donne che hanno di certo sentito tutti i presenti allo stadio Palatino nel parco archeologico del Colosseo dove in questi giorni si sta tenendo la 23esima edizione di Letterature - Festival Internazionale di Roma e dove la scrittrice è intervenuta con questo racconto inedito. Il titolo è una sola parola, amarissima, consapevole: “Sopravvivere”. Il racconto inedito e i corpi che servono a fare sesso Il racconto continua tra il silenzio assoluto del pubblico e la magia dei ruderi dell’antica Roma, di una bellezza stridente in mezzo a questo racconto agghiacciante. “Non so quanto tempo sono rimasta inerte, tutta la stanchezza della gita era scesa su di me. Le parti che lui palpava erano lontanissime tra loro, il mio corpo non era più unito. Ero esplosa. A proposito di corpo, nella prefazione di “Il diritto al sesso”, Amia Srinivasan scrive: “Alcuni corpi servono ad altri per fare sesso. Alcuni servono al piacere, al possesso, al consumo, alla venerazione, alla soddisfazione, alla convalida di altri corpi”. Nel buio sotto l’albero io servivo per quello. Convalidavo la potenza di un maschio. Nessuno passava. E mio padre perché tardava tanto?”. Donatella Di Pietrantonio scende ancora più in fondo con il suo bisturi e di certo fa un riferimento alla sentenza della Corte di Appello di Milano, che qualche settimana fa ha assolto un uomo perché la donna ci ha messo più di 20 secondi a esplicitare il suo dissenso, quando dice: “Non so se ci ho messo più o meno di venti secondi a reagire. Deve essere stato quando lui ha messo il piede sopra il souvenir per mia madre: la bolla di vetro con l’Italia in miniatura e la bufera di neve che la investiva a ogni movimento. Non doveva rompere anche quella. Gli ho urlato “no” dentro la bocca ma è stato solo un mugolio. Ecco a cosa serviva quel bacio interminabile e acido: a tenermi zitta. Tra i conati di vomito ho provato a divincolarmi ma era troppo più forte”. Mi è rimasto per sempre il seno pauroso L’arrivo del padre, seppur in ritardo, la salva dall’essere sverginata, ma il trauma resterà a vita, come Di Pietrantonio esplicita poco più avanti: “Una frazione rilevante delle donne che conoscete sono delle sopravvissute scrive Rebecca Solnit in “Gli uomini mi spiegano le cose”. Sono stata parte di quella frazione”. Mentre è in macchina con il padre si ripete che non le è successo niente: “Ma non potevo saperlo. Mi è rimasto per sempre il seno pauroso. Lo guardavo allo specchio e certe volte non sembrava più mio. Mi curvavo per proteggerlo, indossavo reggiseni che schiacciavano. Ho avuto bisogno di molto tempo per riparare la fiducia: non me lo perdonavo”. Già perché come le donne sanno perfettamente a essere violato non è solo il corpo ma anche e soprattutto la mente e la considerazione, l’immagine che abbiamo di noi stesse”. Lo stupro del nazista: "Non c'è luogo sicuro" Poi la scrittrice fa un parallelo con lo stupro del soldato nazista alla giovane donna protagonista de “La Storia” di Elsa Morante, sulla quale questo Festival è incentrato. Quello è uno stupro che avviene “nelle povere certezze domestiche”. La conclusione è amara: “Non c’è luogo sicuro”. E quella ex ragazzina violata che dopo tanti anni rilegge il libro, si ferma sempre come paralizzata a pagina settanta, quella dello stupro, “che risucchia tutto il resto, quasi polverizzandolo. Così accade a volte per i grandi romanzi. Si saldano a quel punto irreparabile della nostra ferita e non ci lasciano più”. Mentre cerchiamo di sopravvivere. 10/07/2024