6.3.17

aspettando l'8 marzo 2017 Vanessa Mele: “Io, vittima collaterale di femminicidio

Prima d'iniziare il post d'oggi ecco  cosa  ne penso del  8 marzo

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da  https://www.facebook.com/rosa.dicarlo.79



Riporto  qui un intervista  a Vanessa mele  che  anche grazie alla  sua  vicenda  personale   è riuscita  : a   far  cambiare  la legge   sull'assegnazione di pensione reversibilità ai mariti  colpevoli di uxoricidio e  che  ora , in quanto vittima collaterale  , sta lottando  e sperando per  avere   una legge  di tutela  per le vittime  del  femminicidio

N.B
chi ha  già  letto   la  sua vicenda    sul  nostro blog  (  qui e  qui   i mie post   e  qui  un sunto   della  sua vicenda
 o conosce la  sua  agghiacciante  storia    di Vanessa    Cardia  Mele  può anche  saltare  le prime righe del post  

Educare al rispetto attraverso le canzoni

Femminicidio, stalking, abuso sessuale, violenza fisica e psicologica, omofobia, bullismo, sono termini che purtroppo, negli ultimi anni, sono entrati prepotentemente e tristemente nella nostra realtà quotidiana. Il ruolo dei media è stato determinante per far emergere questi fenomeni che, ci rendiamo conto, sono sempre esistiti ma solo attualmente sono diventati un’emergenza pressante e improrogabile, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Sebbene negli ultimi anni sono state realizzate delle iniziative pubbliche finalizzate a sensibilizzare e informare su tali fenomeni, istituite delle giornate per condannare ogni forma di abuso e di violenza, purtroppo, giornalmente ci ritroviamo a dover fare in conti con notizie a dir poco inquietanti. Nel mondo vi sono ancora tante donne vittime di violenza fisica o sessuale, una violenza che spesso, nei casi più drammatici, sfocia nel femminicidio: la manifestazione più crudele della sopraffazione da parte dell’uomo sulla donna. E ancora, se da un lato prosegue a livello giuridico una propensione all’inclusione degli omosessuali (vedi legge Cirinnà), purtroppo ancora nel 2017 l’omofobia è una piaga sociale e culturale ancora ben radicata. Non vi sono dubbi, è di fondamentale importanza promuovere costantemente e attuare interventi specifici per prevenire e ridimensionare il manifestarsi di tali fenomeni. Inoltre, sarebbe opportuno attuare nelle scuole interventi destinati ai giovani e finalizzati a educarli a conoscere, capire e gestire le proprie emozioni, aumentare l’empatia, gestire i conflitti, accrescere il rispetto per se stessi e per gli altri così da costruire e mantenere relazioni di qualità, tutte caratteristiche fondamentali dell’Intelligenza Emotiva di Goleman (1995). Lo scrittore Porcino nel suo libro ci fornisce un quadro ben strutturato dei fenomeni sopraccitati, inoltre, riserva la parte finale del testo ad un progetto educativo destinato a studenti di scuola media inferiore e superiore. Nel libro l’autore affronta argomenti forti come violenza sulle donne e omofobia, e lo fa proponendo un’analisi dei testi di alcune note canzoni. Porcino vuole arrivare al cuore delle persone e, in particolare, alla loro coscienza, e si affida alla musica per farlo, una preziosa arte in grado di scatenare emozioni pure. D'altronde come diceva Picasso: “La musica è una meravigliosa bugia che dice la verità”.

Giovanna Prestianni 
(Criminologa e Dottoressa in Psicologia Clinica)


Il libro “Canzoni contro l’omofobia e la violenza sulle donne” può essere acquistato su Amazon al seguente link: https://www.amazon.it/Canzoni-contro-lomofobia-violenza-sulle/dp/1326718746



® Riproduzione riservata

5.3.17

I 35 anni di Lady Oscar, quando il ‘gender’ andava in onda di pomeriggio ed.....

....stranamente all'epoca nonostante le censure e riadattamenti non abbia ( posso sbagliarmi avevo appena 6\7 anni ) scatenato le ire degli adinolfiani e simili .ma  prima di riportare l'articolo , vorrei  ricordare   con le  sigle principali 


i  cartoni della mia infanzia avvenuta  a cavallo fra  gli anni  70'\80  ( anche se  più anni 80  )    segnalandovi  , elenco  incompleto Sic  ,    alcuni cartoni  animati qui   su questa  SlideShow semnpère di tvzap i più importanti ed  i più noti ancora  oggi  del periodo 

Ma  ora basta  con le  ciance  e  vediamo  all'articolo di lady oscar







Era il primo marzo 1982 quando uno degli anime più amati degli anni Ottanta ha debuttato su Italia 1
Anno 2017, suscita clamore e chiacchiericcio la bellissima figlia di Angelina Jolie e Brad Pitt, Shiloh, che compare agli aventi pubblici insieme ai suoi fratelli vestita da maschio. Così come si considera argomento da seconda serata in tv il tema dell’identità di genere (maschio o femmina), qualcosa da cui tenere lontani i bambini.






Eppure negli anni Ottanta (la prima visione è andata in onda su Italia1 nel 1982), un’intera generazione di trentenni è cresciuta guardando ogni pomeriggio in televisione la storia di Lady Oscar: nata biologicamente femmina, ma cresciuta per volere del padre come se fosse un maschio, anzi come se fosse un soldato, che da adulta si innamora dell’amico d’infanzia Andrè… e tutto questo alla fine del Settecento.
È però vero che la versione italiana è stata ‘riadattata’ e i dialoghi edulcorati. Per esempio nella versione originale dell’anime l’identità di Oscar è un segreto é mica  tanto   se  si ascolta  con attenzione  la  sigla  e s'interpretano le allusioni  con cui viene chiamata  Oscar  ]  Viene chiamata Colonnello, Signore o Oscar, in quella italiana si opta spesso per Madamigella nonostante indossi l’alta uniforme, togliendo così parte dell’ambiguità con le donne di corte che la guardano con ammirazione mentre invece originariamente era più una infatuazione.
Scene censurate o modificate a parte, Lady Oscar rimaneva un anime bellissimo, uno dei più amati in Italia, nonostante in Giappone fosse stato un flop (il manga al contrario ebbe successo), con intrighi internazionali, sotterfugi, vita di corte, tumulti sentimentali (la storia d’amore tra Oscar e Andrè non è proprio una delle più semplici nella storia dei cartoni animati) e poi la tragica morte da eroe, anzi da eroina. Malata di tisi (e quindi con una condanna già sulla testa) guida l’assalto alla Bastiglia e muore crivellata di fucilate il 14 luglio 1789 propria  mentre  con i  soldati dissidenti  va  l'assalto   della  Bastaglia 







Il miracolo di Scampia






La baracca del campo rom di Scampia dove vive la donna della storia con i suoi quattro figli

Grazie alla segnalazione di padre Domenico Pizzuti, 80 anni, Scampia

Lavoro a Scampia da anni, mi scrive padre Pizzuti, seguo le famiglie del campo rom spontaneo di via Cupa Perillo. E’ una piccola storia questa, dice: magari non interessa. Non interessano i rom, in generale. Lo spirito del tempo è quello di scatenare gli ultimi contro i penultimi, alimentare le paure, costruirci sopra carriere e profitti. Non sono mai i penultimi ad avvantaggiarsi della cacciata e dell’ostracismo degli ultimi, però: sono sempre i primi, fateci caso.
Gli sfruttatori, i caporali, gli scafisti, i corrotti. Alcuni esponenti politici che fondano le loro fortune sull’odio e sul disprezzo che coltivano. Parlare di Scampia non porta voti né consenso, in genere non se ne parla se non per alimentare l’epica degli scugnizzi pistoleri. Il crimine che ha la meglio sullo Stato. Poi però, dice questo anziano gesuita, chi vive a Scampia “a volte vede accadere qualche miracolo, e questo è uno”. Magari si potrebbe di tanto in tanto dare voce anche a qualcosa di buono che accade. Magari, infatti. Dunque ecco il piccolo miracolo di Scampia.
C’è una madre con quattro figli. Otto, sei, quattro anni e 18 mesi. Il marito è in carcere. Vive nel campo rom di via Cupa Perillo. “L’ho ascoltata, negli ultimi due anni ho dato l’aiuto che potevo perché i figli andassero a scuola e avessero i libri, spesso l’ho accompagnata nei suoi tragitti: ho visto che, secondo le sue possibilità, sempre pensava prima ai figli che a se stessa. Solo ai figli, direi”. Lunedì 2 gennaio il maggiore, otto anni, raccatta da terra un fuoco d’artificio che gli esplode in mano. Ferite gravi, ospedale. Al Santobono il medico del Pronto soccorso fa, come di dovere, una relazione agli assistenti sociali.
Arriva un primo controllo alla baracca di lamiera dove la donna vive. Lei capisce che le possono togliere i bambini. “In due giorni trasforma, da sola, la baracca. Vi allego la foto”. Lo spiazzo ripulito, tende colorate alle finestre, un tavolo a cui far sedere le assistenti sociali, lo spazio interno – non lo vediamo, lo descrive padre Pizzuti – “diviso da una parete di legno colorato, un letto grande per i più piccoli e un ambiente separato per i due maschi più grandi. Tappeti a terra, rimediati, e un divano”.
E’ stato sicuramente il timore di perdere i figli, dice il gesuita, a metterla in moto nel tentativo di “mostrare di essere all’altezza di quello che pensa che il mondo del benessere si aspetti da lei”. Non è l’unica: “Molte donne al campo cercano di dare ai figli una vita dignitosa che è quello che più conta nella vita di tanti, forse di tutti: non lasciamole sole”.
I bambini non hanno colpe. Trovo di seguito la mail di Gioia Cesarini, presidente dell’associazione “A Roma, insieme”, che invita a sottoscrivere una raccolta di fondi per consentire fino a giugno il proseguimento del servizio di trasporto dei bambini di Rebibbia a nidi esterni. Per un complicato motivo (mancano i soldi, certo: è sempre una questione di priorità) da due anni il IV municipio non rinnova il contratto per il trasporto pubblico. Servono 3600 euro, non i milioni di certi appalti portatori di voti e consenso. Qui come donare. Il commento di Salvini lo do per noto, può almeno in questo caso risparmiarselo.

anche le donne fanno calcio



Dalla    rubrica  di concita di repubblica  del  4\3\2017

 La risposta di Repubblica sport a una mamma





                           Giulia, giocatrice della Roma, categoria Esordienti

I dubbi di Silvia, mamma di una calciatrice, e la risposta di Angelo Carotenuto, capo dello sport di Repubblica
Ho riflettuto a lungo se inviare o no questa lettera..… forse perchè, leggendo le altre storie, un po’ mi sono vergognata: ma come, si parla di difficoltà a trovare lavoro, di lettere di licenziamento in bianco, di minacce in caso di gravidanza (tra l’altro, provate sulla mia pelle) e tu stai qui a frignare perché il calcio femminile non viene trattato con la stessa dignità di quello maschile? Ma come ti viene in mente?
Parlare di calcio vuol dire non avere spessore, figuriamoci lamentarsi per quello femminile! Ma poi ho guardato la foto di mia figlia, 13 anni, vestita con quei pantaloncini troppo grandi per le sue gambette fine e ho ripensato al sorriso ingenuo quando, dopo una partita terribile contro dei maschietti che le hanno riempite di insulti, ha risposto alla mia domanda “Ma tu vuoi vivere di questo? E’ questo il tuo futuro?”.
Non c’è stato bisogno di parole, i suoi occhi si sono illuminati mentre i miei si oscuravano perché un futuro in quel mondo non potrà mai averlo..…. disparità, in tutto…. nel lavoro, nello sport, nella vita. E allora mi sono detta, ma si scriviamo! Rimarrà uno sfogo, ma almeno quello ci sarà stato. E poi non voglio fare come i soliti italiani che si lamentano e non agiscono mai, come quelli che dicono Roma è sporca e buttano la carta per terra, no non voglio fare questo ma voglio insegnare alle mie figlie che ognuno di noi è un contributo al cambiamento, per quanto piccolo possa essere.
Quindi eccomi qui, a chiedere perché? Perché non viene dedicato spazio (attenzione, non ho detto uguale spazio ma solo spazio perché ora di spazio non ce n’è) sulle pagine dei giornali alla realtà del calcio femminile? Perché, quando apro la pagina dello sport di Repubblica, non trovo i risultati delle partite della domenica o della Nazionale Italiana femminile? Forse potrebbe essere un inizio, un cambiamento sciocco, insignificante, privo di spessore ma un inizio. Forse, leggendolo tutti i giorni sul giornale, diventerà normalità, e nessuno guarderà più mia figlia camminare per strada con i calzoncini troppo larghi come un alieno…..magari dopo un po’ di tempo sarà normale assumere una donna incinta o una neomamma. Prendiamoci ció che ci spetta!

Silvia Polidori



Risponde a Silvia il reponsabile dello Sport di Repubblica, Angelo Carotenuto

Cara Silvia,
Sarebbe di una noia mortale risponderle secondo gli schemi delle redazioni, dove ci diciamo che non c’è spazio sempre più spesso, dove quasi sempre dettano legge la popolarità, il seguito, la pratica di uno sport, dove qualche volta effettivamente lo spazio non c’è perché non c’è il coraggio, lo spazio manca quando non si vuol trovare. Intanto mancano i risultati del calcio femminile, vero, e anche molto altro, per le donne e per gli uomini: la pallanuoto, spesso la pallavolo, la pallamano che in Italia non ha un movimento di vertice, il calcio a cinque. Per non dire di quegli sport fantasma che appaiono ogni quattro anni alle Olimpiadi.
Onestamente non credo che un trafiletto con una lista di risultati sia in grado di fare chissà cosa. Vuoi vivere di questo, ha chiesto la signora Silvia a sua figlia. Vivere di questo, vivere di sport. Qualche mese fa Marco Mensurati e Alessandra Retico si sono occupati della discriminazione verso le donne nello sport italiano, dove ai vertici delle federazioni e sulla panchine delle Nazionali siedono solo uomini. Per la legge 91/181, quella che in Italia regola lo sport professionistico, le donne possono essere solo dilettanti. Non c’è tutela sanitaria, né versamenti, né assicurazione al momento di sottoscrivere un accordo con un club. In qualche caso spuntano clausole anti-maternità. C’è un solo posto dove si può cambiare tutto questo: in Parlamento. I giornali devono ricordarlo tutte le volte che possono.
Lo sport però è altro, molto altro prima di essere agonismo, professionismo e sostentamento. Vivere di questo, come scrive Silvia, significa pure vivere di passione. Uscire presto di mattina per allenarsi in barca, o per correre, o salire su una pedana con un fioretto dopo aver passato tutto il giorno sui libri, schiacciare una palla oltre la rete per il piacere di farlo, per stare con amici nuovi o non dividersi da quelli di sempre. Vivere di sport questo è. Difendere il proprio sogno anche se scandalizza gli altri, anche se è diverso da quello che i tuoi genitori hanno sognato per te, vivere di sport è scoprire che si sta bene dentro la propria pelle e dentro il proprio corpo, prima ancora che dentro gli abiti. Per storie così su questo giornale lo spazio c’è stato, c’è e dopo questa lettera ce ne sarà un pochino in più, per raccontare donne come Bebe Vio e Tifanny Abreu, come Melania Gabbiadini e Paola Egonu, capaci di attraversare muri e scavalcare barriere.
Grazie di averci scritto
Angelo Carotenuto

Cominciò radendo i fascisti a 91 anni è ancora in bottega Arturo Busso barbiere da guinness: festeggia i tre quarti di secolo di professione

http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/ del  04 marzo 2017


Cominciò radendo i fascisti a 91 anni è ancora in bottega
Arturo Busso barbiere da guinness: festeggia i tre quarti di secolo di professione Premiato dal “suo” Comune, Agna, confessa: «Il mio lavoro mi dà ancora gioia»

di Nicola Stievano






AGNA. Era ancora un ragazzino quando fece barba e capelli a gerarchi fascisti, soldati tedeschi e partigiani. Settantacinque anni dopo è ancora al suo posto, nella bottega di famiglia, davanti allo specchio, con forbici e pettine in mano. A 91 anni Arturo Busso è il barbiere dei record, una vera istituzione nella zona. Lavora da quando aveva 15 anni e non ha mai pensato di smettere: «Sono fortunato», ammette, «di salute sto bene, ho la mano ferma e mi piace stare in mezzo alla gente. E poi a casa non saprei che fare». Così trascorre le giornate nella bottega che ha aperto quando aveva vent'anni, attività poi proseguita dal figlio Michele, al suo fianco da ormai 35 anni. «È grazie a lui se sono ancora qua», conferma Arturo, «altrimenti avrei dovuto smettere. Invece lui ha scelto di proseguire con l'attività e io gli dò una mano». Ogni giorno il barbiere è al suo posto, pronto a servire i clienti vecchi e nuovi. La sua dedizione al lavoro e il suo record incontestabile gli sono valsi una festa a sorpresa giovedì sera in municipio, con la consegna di una targa dal parte del sindaco e del consiglio comunale. «Non me lo aspettavo proprio», continua Arturo, «e ringrazio tutti per il pensiero, a partire dall'amico Carlo Vedovetto. Ho sempre lavorato volentieri e non mi sento stanco. Ovviamente faccio quello che posso, intanto trascorro le giornate in mezzo alla gioventù».
La sua memoria va a quando, a 15 anni, venne assunto dal falegname del paese per fare il barbiere. «La bottega era condotta dal nipote del proprietario, il signor Varagnolo», ricorda, «che però era stato chiamato sotto le armi. Dalla guerra purtroppo non è più tornato. Fra i miei clienti in quegli anni c'erano i fascisti e i soldati tedeschi al comando insediato nella canonica. Poi arrivarono i partigiani e mi occupai anche di loro. Ricordi della guerra non he ho altri, ho preferito dimenticare quegli anni». Al termine del conflitto Arturo decise di mettersi in proprio e aprì bottega in piazza, dove rimase fino all'inizio degli anni Settanta, quando «un camion con tanto di rimorchio uscì di strada e mi sfondò il negozio. Nell'incidente morì anche una donna. Per un po' mi trasferii altrove, poi passai nella bottega attuale, in via Roma, sempre in centro. Ho scelto io, ancora da giovane, di restare ad Agna. Avrei potuto andare a Milano nel salone aperto da un mio amico ma ho preferito stare qua, tra la mia gente. Mi è sempre piaciuto questo lavoro, peccato che i giovani non lo vogliano più fare, ci vuole tanta umiltà, nessuno invece vuole più iniziare facendo il garzone di bottega. E poi ci sono gli orari, il lavoro al sabato, ma una volta era anche peggio. Per non perdere i clienti tenevo aperto anche ben oltre l'ora di cena».
In questi tre quarti di secolo Busso ha visto cambiare non solo la professione ma anche il suo paese e la società: «Non è vero che si viveva meglio in passato», conclude, «dopo la guerra c'erano la miseria e la fame, la gente si spaccava la schiena nei campi e non aveva nemmeno di che vestire». Al barbiere va il plauso del sindaco Gianluca Piva a nome di tutto il paese: «I suoi 75 anni di professione siano di esempio e stimolo per tutte le future generazioni e per i nostri giovani. Le persone come Arturo sono un orgoglio per tutti noi».





dizionario sul fine vita parte II


parte  I
 http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2017/03/i-fine-vita-non-e-solo-eutanasia-un.html


dalla nostra appendice facebookiana , e  con  questo concludo  la serie dei post  dedicati na tali argomenti  ( se  poi  alcuni  utenti  sia   qui   che  sulla pagina  e\o mio account fb    voglio  continuare  liberi di farlo  )   non voglio  annoiarvi ed  angosciarvi ulteriormente  , ecco un interessante discussione . sul fine vita e di come l'italia sia ancora molto indietro non solo sulla mancanza del testamento biologico , sospensione cure e non accanimento terapeutico , ma anche sulle terapie del dolore. Infatti


Daniele Jommi Il mio parere è che in Italia c'è paura ingiustificata dei farmaci antidolorifici oppiacei. Nessuno deve sentire talmente tanto dolore fisico da voler morire: si deve medicare PRIMA di arrivare a tanta sofferenza. Non sono solo questi i problemi, ma in Italia potremmo iniziare a migliorare con le cure palliative. Dovremmo iniziare da qui.
Debora Bobo Demontis Mio personale parere, in Italia risentiamo dell'assioma cattolico sofferenza uguale espiazione. C'è il culto del dolore che avvicina a Dio e non viene tollerato che si chieda sollievo.
Mi piaceRispondi122 h
Tommaso Spartaco Ci sono dolori che non passano con niente!!
Daniele Jommi certo, le "ferite dell'anima", le sofferenze psichiche, son dolori che non si possono medicalizzare.

Siamo agli ultimi posti in Europa nell’impiego di oppioidi efficaci nella cura del dolore severo; la spesa per questi farmaci analgesici è inferiore d...Altro...

Ruggiero Olivieri Non mi sembra c'entri molto il discorso del dolore: chi chiede l'eutanasia di solito e' gente come Welby e come codesto Fabo che vivono in stato quasi vegetativo e che hanno perso ogni tipo di autosufficienza e che non hanno piu ragione di rimanere in vita. Il dibattito verte sulla personale decisione di "farla finita" una volta che esistano le condizioni tali da concederlo: e' o non e' un mio diritto decidere come e quando morire? Se questa donna si e' sentita chiamata in causa sul discorso eutanasia poiche disabile la trovo quantomeno fuoriluogo: mi rievoca ricordi di "eugenetica" memoria.
Daniela Tuscano Affermare "l'assioma cattolico del dolore che avvicina a Dio e non viene tollerato che si chieda sollievo" è dichiarare il falso. Già il papa Pio XII aveva affermato che l'uso dei narcotici per alleviare il dolore è legittimo -anche se avessero l'effetto di ridurre la coscienza e di abbreviare la vita - “se non esistono altri mezzi". E questo perché la Chiesa, contrariamente a ciò che pensa la vulgata comune, si oppone all'accanimento terapeutico. Con queste motivazioni: “la decisione di rinunciare all'accanimento terapeutico, in altre parole, a procedure mediche che non corrispondono più alla reale situazione del paziente, sia perché sono sproporzionate rispetto ai risultati attesi, sia perché impongono un peso eccessivo al paziente e alla sua famiglia,… purché non vengano interrotte le normali cure dovute alla persona malata in casi simili “. Inoltre: “La sospensione dei mezzi sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte” .
In ogni caso , in tali situazioni le decisioni devono essere guidate dal principio della proporzionalità del trattamento. E' anche ammesso, con il consenso del paziente l'uso di metodiche nuove e sperimentali, purché non siano pericolose.
Il concetto fondamentale del diritto a morire con dignità, non deve intendersi come il diritto di infliggersi la morte o nel farsela procurare, nel modo in cui si desidera, piuttosto è il diritto a morire in tutta serenità e con dignità umana e cristiana.
In questa ottica la Chiesa assegna un'importanza particolare alle cure palliative. Tutto ciò è scritto nero su bianco nella "Evangelium vitae" del 1995 http://w2.vatican.va/.../hf_jp-ii_enc_25031995_evangelium... . Sarebbe sufficiente leggerla. Perché fra l'altro ci si sorprenderebbe di scoprire che le parole di Giovanni Paolo II sono praticamente uguali a quelle pronunciate da Zagrebelski circa vent'anni dopo: http://www.ilfattoquotidiano.it/.../piazza-grande.../177305/ . Ciò detto, concludo, perché sinceramente il continuo inneggiare di questi giorni al suicidio assistito m'infonde una profonda depressione... E avendola provata, non intendo ricascarci.  Fortuna che non mi trovo in Belgio, dove soffrire di questa patologia è sufficiente perché i medici ti spediscano "dolcemente" all'altro mondo. Col tuo consenso, beninteso! http://www.repubblica.it/.../belgio_a_24_anni_chiede_e.../


Evangelium Vitae, 25 marzo 1995 - Giovanni Paolo II
W2.VATICAN.VA
Daniele Jommi Un po' di confusione.
1 Il caso di Welby: chiedeva di rifiutare la terapia medica. È un suo diritto. Ovviamente conosceva perfettamente le conseguenze, era lucido e in grado di comunicare.
2 Dj Fabo: un caso di suicidio. Non c'entra nulla con la eutanasia. Se poteva spararsi in bocca, nessuno glielo avrebbe potuto impedire.
3 il malato terminale che soffre dolori indicibili (es. Malattia oncologica avanzata). Ha diritto prima di tutto alla terapia del dolore. A costo di addormentarlo.
4 il paziente che non è cosciente o che non può comunicare la propria volontà. Ha bisogno di un respiratore meccanico. Se valesse il DAT potrebbe aver dichiarato da prima (quando era in piena salute) di rifiutare quel passo, non entrare in quella terapia.

Sono esempi con aspetti molto diversi. Nessuno di questi è "eutanasia".
Mi piaceRispondi12 hModificato

quando l'eutanasia è omicidio e non libera scelta


leggi anche  
http://www.intelligonews.it/spiritualita/articoli/3-marzo-2017/58198/marwa-rischia-eutanasia-per-legge-240mila-francesi-coi-genitori/

dall'appendice  facebookiana  del  nostro blog . Perchè un conto è  , non  sono d'accordo  ma l'accetto ,  che   con il permesso  dei genitori  gli sia data l'eutanasia o gli siano sospese le cure mediche  in quanto  non c'è  più niente da fare  . Un altro  è   anche andare  contro la stessa  volontà dei genitori    che invece  vogliono continuare  a curarla  .





Compagnidistrada
Pubblicato da Daniela Tuscano · 19 h ·





VALORE
No, non è la tua disabilità, la disgrazia peggiore. Non il tuo volto bellissimo, su cui aleggia un sorriso di devastante tenerezza. Né l'enigma di quel sorriso. Perché guardi, sì, ma chissà se vedi. E sei lì, creata apposta per un abbraccio. Che forse, però, non sentiresti.
L'immagine può contenere: una o più persone e primo piano
Non è questa la tua croce, piccola musulmana di nome Marwa.
La tua condanna siamo noi. Noi cui spetta decidere per te, addirittura per la tua famiglia, prevaricandola, perché così abbiamo legiferato. Noi che ti abbiamo confinata nel braccio della morte, con lucida follia; ma di fronte alla tua culla, ovattata e sepolcrale, la mano esita, il respiro si spegne, e quei tuoi occhi, ora, gridano. E c'inquietano.
Oltre il nostro positivismo, la tua ostinata carnalità ripete che non sei solo un corpo, la tua inerzia per i genitori è gioia, il tuo valore inestimabile. 
Poiché, in realtà, il valore umano non esiste.
Il valore è numero: lasciamolo alla contabilità.
La vita non è valore. Non si quantifica. Altrimenti delimitarla, determinare quando sia degna o no d'esser vissuta, diventa facilissimo.
La vita "vale" nel suo essere, soprattutto nell'estrema fralezza. "Vale" nella dipendenza, nel frutto del parto, in occhi che forse non vedono, ma forse sì, ed esistono per noi, per chi li possiede, per chi in essi annega.
Siamo giunti a rivendicare il diritto di morire ma non il dolore del vivere, la lentezza e la fatica della cura, la speranza; e, con essa, la rinascita. Che è giovane. E inerme come un bimbo. 

© Daniela Tuscano