SASSARI. Ogni tanto la sindrome bipolare trasforma il soffitto della sua camera in un widescreen. La notte, in quel buio non buio rischiarato dai pensieri, Gian Marco Carboni spalanca gli occhi, e la mente va in rewind. Rivede le immagini che scorrono. Sono perlopiù anime ancora sporche di morte, che forse non lo abbandoneranno mai.
Ora sta bene. Dice: «Vedi cosa ha scritto il mio psichiatra tre giorni fa? Compensato. Quindi tranquillo: non stai parlando con un matto».
L’autoironia è un’ottima medicina, che lui assume in dosi massicce. Poi ci sono gli altri farmaci, quelli chimici, che si trasformano in un navigatore interiore, capace di mantenere l’umore sulla retta via. Ma talvolta la sindrome bipolare riprende il volante, sterza bruscamente e preme sull’acceleratore della vita. Se Gian Marco Carboni ora si ritrova nel presidio sanitario di San Camillo, a Sassari, con una scrivania davanti, una penna tra le mani, l’umore sotto i piedi e una risma di fogli da fotocopiare, invece di stringere un bisturi chino su un letto operatorio, lo deve agli smottamenti emotivi della sua malattia. Lui, medico di trincea, promettente chirurgo, Dimonios, eroe di guerra, medaglia d’argento al valore che ha salvato vite a rischio della propria, ora si sente in stand-by esistenziale, a mollo nella burocrazia.
Parla con precisione, ha neuroni vivaci, il suo racconto è secco, verrebbe da dire chirurgico, la memoria è svelta. Ma quando va a pescare in profondità, nei fondali più bui, allora tutto rallenta: perché i ricordi sono ancora pieni di spine, e per non pungersi e sanguinare bisogna andarci piano. Riesumarli con cautela, soppesarli, lasciarli andare con un sospiro. Dodici novembre del 2003. ore 10,30. «Svolgevo le visite mattinali negli ambulatori dell’infermeria della Brigata Sassari. Avevo 28 anni, ero sottotenente medico del 151° reggimento fanteria: ero un Dimonios. All’improvviso udii un forte botto, e pensai a un petardo. La nostra base, White Horse, distava 7 chilometri da Nassiriya. Uscii e guardai la piana sterminata: vidi una coltre di fumo densissima, e capii che doveva essere successo qualcosa di grave. La chiamata radio, qualche secondo dopo, confermò i miei timori». Carboni organizza rapidamente la squadra sanitaria e si dirige verso l’esplosione. «A un centinaio di metri dal luogo dell’attentato c’era un ponticello. Lì vidi un carretto pieno di frutta, e attaccato un mulo. All’animale mancava il ventre, perché l’onda d’urto era stata talmente devastante, da avergliela asportata». Quell’animale sbudellato sarà una delle sequenze di morte trasmesso in loop dal soffitto insonne. Un’autocisterna carica di nafta aveva puntato a tutta velocità sulla santa barbara della caserma dei carabinieri e si era fatta saltare in aria. Il cratere scavato dalla deflagrazione, la palazzina dilaniata, la devastazione fisica del paesaggio è un’altra istantanea che contaminerà per sempre i pensieri.
«Io mi ritrovai in mezzo a uno scenario di guerra, con i caricatori e le munizioni custoditi nella riservetta che, avvolti dalle fiamme, continuavano a sparare proiettili intorno. Colpi di ak 47, beretta calibro 9, ar 70-90, uno dietro l’altro. Era come stare sotto tiro. Vidi un Vm blindato ribaltato su un lato, con il portellone aperto. Mi levai il casco per entrare, violando qualunque norma sulla sicurezza. Tirai fuori con tutta la forza che avevo un ragazzo. Mi accorsi subito che c’era poco da fare. Ma non volevo lasciarlo lì. Aveva 24 anni, volevo dargli una chance. Quando provai a rianimarlo era già morto». Non c’è paura in questi scenari estremi. Il cervello va in autoprotezione, ti immerge in un liquido amniotico di imperturbabile onnipotenza: «Io non so se ci fosse già lo zampino della mia patologia, che cominciava già a lavorare sulla testa, fino a quel momento non mi aveva dato segnali. Però io, in quel frangente, mi sentivo immortale. Ricordo bene questa sensazione, e so di non essere l’unico soldato ad averla provata. Io dopo Nassiriya non ho più paura. Temo solo che i miei figli si possano ammalare. Posso avere incubi, rivedere fantasmi. Ma la morte non mi spaventa più». L’ha vista posarsi da un corpo all’altro, mentre l’ospedale degli americani in pochi minuti si trasformava in una catena di montaggio. I soccorritori arrivavano come tante formichine che depositavano uomini fatti a pezzi. Un ufficiale a un certo punto grida: «We need a surgeon, ci serve un chirurgo». Gian Marco Carboni si fa avanti. «Avevano bisogno di me per un carabiniere colpito da una scheggia, con una emorragia toracica. Si chiamava Vittorio De Rasis, un abruzzese, che riconobbe la mia divisa e mi disse: tenente la prego mi salvi, ho dei bambini a casa che mi aspettano. Guardai la ferita e applicai un trucco che avevo “rubato” al mio primario Mario Trignano. Spruzzai dell’acqua ossigenata, che fa schiuma, per individuare l’origine del fiotto di sangue. E alla cieca tamponai il danno: era impensabile isolare l’arteria e suturarla. Feci la cosa più immediata per non farlo morire: chiusi il rubinetto con una pinza. E grazie a questo accorgimento un po’ rudimentale, De Rasis rivide i propri figli». Il direttore sanitario del presidio Usa il giorno dopo si complimenta. «Mi fece chiamare e mi disse: “You are very qualified”. Io, specializzando al terzo anno, risposi: I’m very lucky. Sono solo fortunato».
Ma quel piccolo miracolo, assieme al coraggio e all’energia dimostrata durante i soccorsi, nel maggio del 2006 gli sono valsi la medaglia d’argento al valore militare. Che non equivale esattamente a un “bravo” accompagnato da una pacca sulla spalla. «Alla cerimonia di consegna ricordo un colonnello che, davanti alla mia onorificenza, è scattato sull’attenti». Poi però la medaglia e soprattutto i ricordi hanno un loro peso, e finiscono per trascinare a fondo Gian Marco Carboni. La sindrome bipolare a distanza di un anno presenta il conto. «Ha fatto un bel po’ di casino nella mia testa, e ci sono voluti cinque specialisti per rimettere ordine». Per risalire a galla bisogna spogliarsi dei fardelli, e dopo il congedo dalla Brigata l’ex medico del fronte comincia a denudarsi degli orpelli in maniera molto francescana. Il 12 luglio del 2013 regala la sua medaglia d’Argento al Museo della Brigata Sassari. «L’ho fatto per tre motivi: per prima cosa volevo lasciare un ricordo di quel che è accaduto a Nassiriya. Ritengo sia stato il più terribile attentato subito dall’Italia, ancor più di Piazza Fontana. Voglio che tutti sappiano cosa sia capace di fare l’uomo a un altro uomo. Poi l’ho fatto per me: per alleggerirmi di un peso, perché quell’esperienza è una ferita aperta. E infine perché ai miei figli un giorno possa capitare quel che è già successo a mio nipote. In gita scolastica al museo, ha guardato la mia foto e ha esclamato: ehi, ma quello è mio zio! E i compagni: non dire cazzate! Ma sì, c’è il nome: Gian Marco Carboni». Un mese fa è andato all’ospedale di Ozieri alterato. «Avevo pasticciato con i farmaci, non mi rendevo conto, ero in fase ipomaniacale». Significa irascibilità a dieci tacche, niente freni inibitori, un traliccio ad alta tensione. «Ho avuto un diverbio con una collega, c’era il mio primario e una paziente: ho perso il controllo e sono andato in escandescenze. Tre mesi dopo, a causa del mio disturbo, sono stato sollevato dagli incarichi assistenziali e chirurgici e trasferito a San Camillo a sbrigare compiti burocratici. In pratica mi stanno ammazzando una seconda volta». Prende ancora un respiro, lascia andare piano le parole: «Io ho sempre tenuto un profilo basso, ho preferito privarmi di ogni luccichio. Ma ora la mia medaglia la tiro fuori. Perché se non sono morto a Nassiriya non voglio morire pian piano nella depressione. Ho dato tanto e pretendo una possibilità. La sindrome bipolare è una patologia che si può controllare, come il diabete. E io resto un bravo chirurgo. Non ho mai avuto una denuncia, mai un danno a un paziente. La mia capacità diagnostica mi viene riconosciuta, so gestire un reparto, posso dare il mio contributo. Non pretendo di operare, ma in un momento di difficoltà non merito di essere gettato via così». Perché il soffitto della sua stanza, da qualche tempo non è più solo uno schermo che trasmette i ricordi: rischia di diventare un buco nero che assorbe la luce della vita. sta combattendo contro il suo ( e di tutti quelli che tornano da guerre ) mi ha dato la forza di riprendere a leggere il suo nome era guerra ( ultimo n di dylan dog ) un numero : Fiero ed indigesto l'ultimo Dylan dog visto gli elementi di rottura che ci sono contenuti per coloro abituato al vecchio stile ,i nostalgici insomma, o abituati che una cosa non cambi o si trasformi . Ottimo uno, forse il più bello ,di questo ciclo . Speriamo che lo sceneggiatore vi rimanga in pianta stabile . Un po' Troppo splatter da non leggere di notte e prendersi dopo averlo letto una bella camomilla antiemetico come fa Block con questo è tutto alla prossima
lo so che convenzionalmente l'autunno inizia Nell'emisfero boreale, l'inizio dell'autunno è convenzionalmente individuato attorno al 23 settembre: in tale data, si verifica infatti l'equinozio.e durerà fino al 21 dicembre, quando avviene il solstizioinvernale. Ma la temperatura inizia a diminuire e le giornate ad accorciarsi ed gli uccelli ad intraprendere la via del ritorno e come testimoniano questi brevi versi che chiudono l'album dopo il lungo inverno dei modena City Ramblers
Ci sono storie e passioni e fuoco
e una grande aia per il raccolto
C'è il raccolto di un'altra semina prima della notte e prima del prossimo inverno
che è , una delle cose della vita e che da un senso( proprio come una famosa canzone di Vasco Rossi ) , testimoniato da questo Murales sardo da me fotografato tempo fa
Lula 5\10\2015 murales di Elena Marras con la partecipazione di : la nipote Carla Monni e Francesco Porcu versi di Giovanni Piga
Ma soprattutto a me piace pensarla diversamente dalla cultura di massa ( cioè dal 'immaginario collettivo ) inquadra l'autunno come la stagione della decadenza, dopo i calori portati dall'estate e come alcuni ( sognatori , nostalgici , utopisti ) che invece, lo vedono tratta di un periodo di rinascita o di preparazione al lungo inverno ( vedere la i versi dei Mcr ) I raccolti e le vendemmie, propri della stagione, rappresentano invece una preparazione in vista dell'inverno . Autunno, dipinto di Giuseppe Arcimboldo (Museo del Louvre, Parigi).
Una serie di ricerche condotte in America è giunta alla conclusione che le persone nate in autunno, specialmente nel mese di novembre, possano vivere più a lungo toccando anche i 100 anni.
E poi non è completamente vero che sia triste in quanto ci sono numerose feste ( alcune inventate per fare casa e guadagnarci qualche € ) ci sono numerose feste quelle più conosciute ( alcune intatte altre mercificate a voi capire quali 😎😇😉 altre non italiane ma purché tutto fa soldi ed ormai c'è un americanizzazione imperante non mancheranno , spero il più tardi possibile , anche se vedono che con Halloween li molti e molti \ defunti è venuto il contrario ) , importate in italia della stagione autunnale sono:
la festa dei nonni e il ricordo degli angeli custodi, che cadono entrambe il 2 ottobre
l'Oktoberfest, comunemente detta «festa della birra», che ha luogo tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre
il giorno del ringraziamento: essendo una festa mobile, la data precisa varia. In Canada si celebra il secondo lunedì di ottobre (settimana dall'8 al 14 ottobre), mentre negli Stati Uniti il quarto giovedì di novembre (settimana dal 22 al 28 novembre)
Questo , che leggete sotto non è , secondo un commento .... che vuole nascondere tali problematiche sotto il tappetto un argomento per le sue ovvie implicazioni sociali da trattare su un blog di un quotidiano. E’ un errore trattare di comportamento ed orientamento sessuale su qualcosa che è letto da persone che non hanno una cultura in psicologia. Dovrebbe essere una discussione tra psicologi ed addetti ai lavori, in caso contrario vengono espressi giudizi e posizioni che non hanno nulla di scientifico, ma esprimono pregiudizi e orientamenti morali e religiosi che creano solo confusione.
Personalmente mi astengo da qualsiasi valutazione e spero anche altri.
Ora secondo questo commenti possono discutere di politica solo i Politologi , gli iscritti o laureati in scienze politiche e storia ? Secondo me Ogni uno può ( anzi deve perchè il silenzio ne uccide più di una morte fisica ) invece esprimere sull'argomento un proprio parere, purché rimanga in un ambito di tolleranza di rispetto e di comprensione . in un percorso difficile che può,poi ovviamente dipende da caso a caso, come dice questo commento << dopo la laurea in Lettere, mi sono specializzato in Psicologia. Ne ho letti a bizzeffe di articoli, saggi e testimonianze omosessualità, ma le cause psicofisiche sono tuttora misteriose. Anche perché presenta sfaccettature e sfumature infinite, e a volte rientra in fasi di bisessualità, temporanee o permanenti. >> portare a determinate conseguenze
Massimiliano studia all'università e ama la musica e i libri
Massimiliano Tellico, 20 anni, di Catania, studia Lingue e culture straniere, pratica arti marziali
“Non sono gay. E non capisco perché quest’idea, tutt’a un tratto. A me sono piaciute sempre e solo le ragazze, com’è giusto che sia. Figuriamoci se, con tanta gente al mondo, debba esserlo proprio io. Non sono gay. Vado sempre in chiesa coi miei genitori e Dio è contrario. L’uomo è fatto per stare con la donna: solo loro, insieme, possono avere figli. I miei, comunque, dicono che i peccatori verranno giudicati per le loro azioni"."Guardo il telegiornale, un ragazzo si è suicidato, perché vessato dai bulli. Aveva la mia stessa età, ma lui era un gay. Mi dispiace, ma il suicidio è sbagliato: poteva curarsi. È stato un vigliacco. Ora ho anche una ragazza, Greta, ed è bellissima. Quando siamo insieme mi sento strano, e non mi smuove come penso dovrebbe, ma, in fondo, sono un romantico: quando sarà il momento saprò cosa fare. Non sono gay. I miei amici stanno insultando un ragazzo: 'Ti piace il c... ricchione?' dicono. Lo difenderei anche, ma se lo facessi finirebbero per prendere anche me per gay. Io sono normale e non voglio pagare per gli errori degli altri"."Non sono gay, Lorenzo è solo un’avventura. Con Greta non va benissimo, e lei non è tenuta a saperlo. Certo, è carino, e con lui mi sento davvero bene. È solo una distrazione e poi, se non trasgredisco a quest’età. Non sono gay. È successo un casino: Greta ha visto me e Lorenzo insieme, l’altro giorno. Si è messa a dire in giro che sono gay e che l’ho tradita con un ragazzo. Ora non posso entrare a scuola, che tutti mi guardano male o ridono alle mie spalle. Sono qui solo come un cane, a trattenere le lacrime, non devo piangere. Mi siedo su un muretto, mi sento toccare la spalla. È Lorenzo, ha visto tutto. Ma io mi alzo inorridito. 'È colpa tua!' lo accuso"."Non sono gay. Sto a casa da giorni, finto malato. Mia madre non si beve più la storia della febbre, così mi manda a fare la spesa. Arrivo al supermercato col morale a terra. 'Ciao', ma chi può essere? È Sofia, della classe accanto. 'Ma quindi è vero che sei gay? Ma è bellissimo!' sorridendomi. La conversazione non è durata molto e, nonostante l’imbarazzo iniziale, mi sono sentito meglio.Ok, forse sono gay. E non m’importa. Ho dei nuovi amici, ora, e mi vogliono bene così come sono. Ho anche chiarito con Lorenzo e stiamo cominciando a uscire, senza vergogna ora. Per la prima volta in vita mia sento davvero bene, così come sono, e non ci rinuncerei per nulla al mondo".
concludo condividendo questo commento
4 ore fa
Assunta Guarino
Caro Massimiliano, diciamo la verità, l'uomo del terzo millennio deve ancora capire tante cose.
Si cercano le regole, si fanno i regolamenti, si disciplinano le differenze in nome della legge, della scienza, della tecnologia, della morale, degli usi.
Ma non è ancora cambiato l'approccio alla diversità, altrimenti la diversità medesima non sarebbe tale.
La diversità la crea l'uomo con i suoi comportamenti che cercano una radice nel "così si fa, così è, così dev'essere".
Se invece il comportamento fosse inclusivo a prescindere dai canoni, allora tutti staremmo meglio.
Perchè non ci sarebbe bisogno alcuno di legiferare per la tutela dei diritti di chi è diverso, e chi è diverso ora non lo sarebbe affatto.
Il gioco sta tutto lì, allargare la mente e farci entrare tutte le differenze.
Ma tu sei sulla buona strada, anche se spesso ti taglierai i piedi sui cocci di vetro che ti lanceranno quelli normali. In bocca al lupo e buona vita!
l'articolo che trovate sotto conferma tale storia che circola sul web da diversi giorni .
https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/08/25/news/vacanza_in_puglia_il_post_e_virale-234320226/ "Quando un forestiero viene al sud piange due volte, quando arriva e quando riparte". Alessandra, una ragazza di Milano tornata a casa dopo l'estate in Puglia, chiude così il suo post dedicato ai luoghi in cui ha trascorso le vacanze. Una dichiarazione d'amore ("colpo di fulmine", lo definisce lei) per la Puglia che era destinata ai suoi amici virtuali ma è andata oltre le aspettative, raggiungendo in meno di 24 ore mezzo milione di persone. Inchiostro di Puglia, il portale che Michele Galgano ha dedicato a storie e persone della sua regione d'origine, ha infatti ripubblicato il post della ragazza sulla propria pagina: nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione il post è stato letto, condiviso e commentato da migliaia di persone. Toccate, evidentemente, dalla descrizione di una regione
Questo è un post diverso dal solito. Nel senso che non è una lettera che qualcuno ci ha inviato. Ma è un pensiero pubblicato sul proprio profilo da Alessandra, una ragazza milanese, al ritorno dalle sue vacanze in Puglia. Ce lo hanno segnalato e noi glielo abbiamo rubato :)
...
Diario di bordo della Puglia. Sono tornata al nord. Neanche il sole pugliese mi ha dato un po' di colore.
Già immagino i vostri "ma come sei bianca!! " raga lo dico qui per TUTTI io ero sotto l'ombrellone a mangiare.
Panzerotti, focaccia, polpettine, orecchiette alle cime di rapa, capocollo, cacioricotta, salsicce, bombette, gelati, polipo fritto, pasticciotto e un'altra infinità di cose troppe buone.
Sono ingrassata, ho messo su qualche chilo ma di felicità (o meglio, sui fianchi li ho messi davvero) felicità di aver visto dei posti meravigliosi. Ho visto posti incantevoli, mi sono innamorata del "bianco Puglia" che non è il classico bianco raga, è bianco Puglia!
Apro una parentesi non ho mai, e dico mai sentito suonare un clacson quando ero indecisa ad un bivio, ho avuto tutto il tempo per decidere da che parte andare senza che nessuno ti mettesse la pressa al culo. Una volta deciso via e non ci sta il concerto di clacson che ti fa da sottofondo. (...)
Il pezzo forte è l'accoglienza, raga non c'è storia. Sono entrata in un negozio per comprare un paio di occhiali e adesso so tutta la storia familiare della commessa. Perché a quanto pare lì funziona cosi, funziona che tutti parlano con tutti: tu chiedi un caffè e ti ritrovi a mangiare panzerotti, funziona che tu chiedi una bottiglietta d'acqua e ti ritrovi a parlare dello scioglimento dei ghiacciai.
Altra meraviglia è il mare (visto poco ma visto) e che mare! Sono stata a Miami ad Aprile, ok? Bene, non c'entra una cazzo. Miami spostati e fai spazio al mare pugliese mèèè!
I prezzi altro punto forte, cono medio 3 gusti con panna 2.50€, insomma un gelato vero. Strano per chi è abituato ai prezzi di Milano.
Cmq inutile dirvi che io dei posti così belli non li ho mai visti, delle persone così ospitali nemmeno.
Sono stata in America, bella. Sono stata in Russia, bella. Sono stata in diversi Paesi Europei, belli. Portogallo bellissimo raga, lo consiglio, Parigi è magica, va bene Berlino stupenda la porta di Brandeburgo. Bella la Lombardia, bella Milano la mia città, mi piace anche il Duomo, buono il risotto alla milanese, per carità anche l'osso-buco (la cassoeula no mi fa cagare) ma La Puglia è un'altra storia. È un'altra storia. La Puglia mi è entrata nel cuore. È stato un colpo di fulmine.
E posso affermare con certezza che per quanto mi riguarda non c'è partita con i viaggi che ho fatto fino ad ora. Puglia voto 10 e lode. Presto comprerò un Trullo e vado ad abitarci dentro.
A quelli che abitano a Bosco Verticale o ai futuri Giardini d'Inverno dico avrete anche i soldi ma la vera ricchezza non sapete neanche dove sta di casa.
MÈÈÈ saluto la Puglia con la gioia nel cuore e con una massima "Quando un forstiero viene al sud piange due volte, quando arriva e quando riparte".
P.s. Se non riesco a comprare un trullo, spero che mia zia o la mia amica mi aiutino a progettare il Trullo Verticale
e tale canzone
Nella provincia di Sondrio, a quota 932 metri sul livello del mare, sorge il piccolo borgo di Savogno:
una paese abbandonato nel 1968 che oggi testimonia la bellezza della vita rurale in montagna. Le mura in pietra e i loggiati in legno perfettamente conservati richiamano ogni estate tanti turisti ed escursionisti, ma non è facile arrivare all’abitato. Savogno non è mai stato raggiungibile in macchina e l’unica via d’accesso al paese è una ripida mulattiera di 2.886 scalini tra le montagne e le cascate dell’Acquafraggia.
Trapani, mamme fanno da baby sitter alla bimba dell’ambulante donna sulla spiaggia L'italiano non ha bisogno di grandi gesti, la solidarietà femminile non ha colore o etnia. Ci si aiuta con naturalezza e spontaneità
Trapani, mamme fanno da baby sitter alla bimba dell’ambulante L’Italia quella bella oggi la racconta Desirè Nica, una ragazza di Roma che, in vacanza a Trapani, ha potuto testimoniare come la parte migliore del nostro Paese esiste e non si vergogna di fare la parte da “buonista”. L’episodio, di cui lei stessa è protagonista, è accaduto sulla spiaggia del litorale siciliano. “Sono le 13.00, e arriva sulla spiaggia uno dei tanti ambulanti che cercano di vendere qualcosa”, scrive in un post su Facebook Desirè. “Solo che stavolta è donna. Solo che stavolta è mamma. Ha una cesta enorme che tiene in bilico sulla testa, con dentro tutto ciò che vorrebbe vendere, e dietro, legata sulla fascia, la sua bambina. Avrà 2 anni e mezzo, 3 al massimo. Sta sotto al sole in groppa alla sua mamma mi chiedo da chissà quante ore”. Nonostante in questi mesi ci siamo dovuti abituare a narrazioni in cui l’odio e il razzismo sembrano aver avuto la meglio, c’è una parte del Paese che ha tutt’altra propensione e di fronte alle difficoltà del prossimo – italiano o straniero che sia – prova disagio e desiderio di aiutare.
“Guardo mia figlia e penso che sono 3 ore che mi affanno per farle scegliere cosa mangiare, per coprirle la testa dal sole, per stare attenta che non beva acqua troppo fredda”, scrive Desirè. “Dico a Gabri che vado a comprare qualcosa da quella mamma e che vado a portare un po’ di frutta fresca alla bimba e darle qualcosa da mangiare. Ma non c’è stato bisogno di fare niente. Perché oggi l’Italia bella è stata quella delle mie vicine di ombrellone che tutte insieme hanno detto a quella mamma come loro, di andare a lavorare tranquilla, perché alla sua bambina ci avrebbero pensato loro”. “Ed è proprio così che è andata. La mamma ha continuato il suo giro per le spiagge, e la piccola ha mangiato insieme a tutti i nostri figli sotto l’ ombra del ristorante dello stabilimento, ha giocato sulla riva, ha fatto i gavettoni insieme agli altri bambini della spiaggia. E io oggi sono felice, perché è stato davvero bello vedere tutto questo”. Già, perché l’italiano non ha bisogno di grandi gesti, la solidarietà femminile non ha colore o etnia. Ci si aiuta con naturalezza e spontaneità.
dovrebbe essere la norma visto che
Dopo che la storia è stata diffusa in rete Dall'Ogliastra, un'altra turista, Marina Carta, ha raccontato che "da anni un'ambulante lascia suo figlio a giocare con i nostri", accompagnando anche in questo caso le sue parole con un'immagine di bimbi che giocano sereni tutti insieme sulla spiaggia sarda. E pare che non sia un caso isolato: "Stessa situazione. Golfo di Baratti. La bimba della venditrice ambulante gioca con i miei nipoti mentre la mamma fa il giro della spiaggia. È nata un'amicizia", ha scritto Luisa Giolli. continua qui su https://www.fanpage.it/attualita
Ecco, guardateli. Guardate gli sposi, quel giovane uomo, quella giovane
donna, osservate quanto sono belli, sono belli da far piangere, ad aver
voglia di piangere per la bellezza. Del resto, quale sposa non è bella
il giorno delle sue nozze, e quale sposo non lo è mentre se la rimira
dall'alto del suo radioso orgoglio. Solo che loro sono belli oltre
misura, Rossella O'Hara diresti di lei, un principe diresti di lui, sono
così belli che riescono persino a imporre unicità alla fotografia più
comune tra tutte le immagini di circostanza; quante centinaia di milioni
di immagini come questa dormono in vecchie scatole da scarpe e
centenari album di famiglia sparsi per tutto il mondo. Non questa,
questa è viva, e i due sposi guardano ancora il mondo e dal mondo si
fanno guardare lassù in alto nella scansia tra le focacce e i pandolci
nel negozio di un fornaio. Continuate a dare un'occhiata ai due sposi
per favore, cercate di indagare nei particolari, perché nei particolari
vive una storia ancora più grande e più bella di come possa sembrare.
Difficile, capisco, l'immagine è rozzamente riprodotta con la fotocamera
di un telefono, i dettagli che contano sono materia nascosta e anche se
fosse evidente, ignota. Il vestito della sposa è di seta, la seta di un
paracadute di un reggimento aerotrasportato inglese, il vestito dello
sposo è di pesante stoffa di lana, la stoffa di una divisa del corpo
delle SS naziste; e il bouquet di fiori della sposa, quel grande bouquet
di così vividi colori, è fatto di fiori di carta, la carta velina della
modulistica dell'ufficio amministrativo del campo di concentramento e
lavoro forzato di Helmstedt, Bassa Sassonia. Il matrimonio è stato
celebrato e certificato il 3 luglio 1945 dal comandante dei
paracadutisti inglesi che lo hanno liberato, confermato due giorni dopo
con rito religioso amministrato da un prete cattolico.
Il forno si chiama da Gianchettu, Bianchetto, perché questo è il nome
del fornaio, e il suo negozio è nel carruggio di un borgo della Riviera
di Levante dove vado a fare i bagni da tempo immemore. Mi piace portarmi
a mare la mattina presto, mi piace essere il primo piede a scompisciare
la spiaggia di ghiaietta che i bagnini hanno appena finito di
pettinare, mi piace nuotare fino a non poterne più, asciugarmi in fretta
e poi passare da Gianchettu a prendermi una fetta di focaccia lunga un
braccio e larga mezzo, mangiarmela su una panca all'ombra scarsa di un
oleandro, leccarmi le dita dell'olio che è olio buono e buttarci dietro
mezzo bicchiere di un qualche vermentino del bar di fronte. Si fa presto
a dire focaccia, ma impastare, lievitare e cuocere una focaccia di
Riviera nell'aria madida di salmastro e non farne venir fuori una
flaccida, aspra, rugginosa lasagna, ma una sfoglia tenera e croccantina,
non è faccenda che ci riescono in tanti. Gianchettu, sì, e quella
focaccia è un gran sollievo alle inappetenze della calura, ai gastrici
dinieghi della macaia. Chissà se lui lo sa che il suo forno è una cura e
un riparo, lui se ne sta là dietro in canottiera e berrettino a
rimestare e infornare. Ma ogni tanto viene di qua per sorridere a sua
moglie che sta al banco, le sorride per riposarsi un po', e gli deve
piacere così tanto che gliene avanza anche per sorridere alla coda che
aspetta scontrosa e sudaticcia la sua fetta di focaccia cadauno.
Gianchettu è un fornaio sorridente, una rarità in assoluto, un'unicità
tra i fornai rivieraschi; lo vedo sorridere a sua moglie da quando passo
dal forno, diciamo vent'anni. E fa bene Gianchettu, non foss'altro
perché la signora Teresa ha due occhi azzurri bellissimi e distanti, e
uno sguardo in quei suoi occhi di quelli che ti viene da pensare che un
principe straniero potrebbe da un momento all'altro prendersela e
portarla chissà dove. Gli occhi della signora Teresa sono gli occhi
della sposa del campo di Helmstedt.
È per via di quegli occhi, e, certo, anche un po' per quella focaccia
così buona, per via del fornaio di Riviera singolarmente sorridente, che
al termine di un ventennale tirocinio mi son preso la confidenza di
chiedere alla Teresa chi fossero mai quei due sposi lassù dietro al suo
banco. Quei due sposi sono suo padre Tullio e sua madre Theresa. E
questo mi ha raccontato Teresa, la moglie del fornaio, nata Leocadia e
detta Lola, che però si chiama Teresa perché ha voluto prendersi il nome
di sua madre che non ha mai conosciuto perché è morta mettendola al
mondo; tutto quello che sa di lei glielo hanno detto le fotografie e le
storie di suo padre.
Dunque mi ha raccontato che sua madre Theresa è nata nella città polacca
di Pabianitz da una cattolicissima famiglia di commercianti. Pabianitz è
una città colpevole, ha inutilmente e sanguinosamente resistito alle
truppe germaniche d'occupazione, e dunque è severamente punita con la
deportazione in massa dei civili; Theresa è prelevata dalle SS
all'uscita da scuola, ha appena finito il corso di dattilografia, ha
ancora da compiere quattordici anni, è destinata al campo di Helmstedt.
Il campo è su una miniera di salgemma, ben in fondo nella miniera ci
sono i laboratori per la fabbricazione di componenti del prototipo di
un'arma segreta della Luftwaffe; il lavoro nella miniera è per i
deportati politici più pericolosi, quello nel laboratorio per i più
specializzati, gli uffici sono destinati alle ragazze come Theresa.
E mi ha raccontato che Tullio è nato nel '17 a Monterosso, in Riviera di
Levante, da una famiglia di sarti e barbieri dove i maschi sapevano
fare l'uno e l'altro mestiere assieme e anche dipingere e scrivere
poesie e anelare alla rivoluzione socialista. Tullio è partito alla
guerra da marinaio e dopo l'8 Settembre se n'è tornato a casa; quando i
fascisti sono andati a prenderlo per arruolarlo nella Repubblica
Sociale, lui si è fatto trovare in casa, era una testa calda. Lo hanno
deportato a Fossoli; di quel campo non ha mai voluto parlarne, solo,
morendo, ha lasciato sul comodino dell'ospedale un biglietto in cui
diceva di un orrore che non poteva dimenticare, per il resto ha solo
raccontato che a salvarlo dalla morte è stato il suo mestiere, un sarto è
sempre di grande utilità in un posto dove ci sono tanti uomini in
divisa, specialmente poi se è anche un barbiere.
Il campo di Helmstedt non è un campo di sterminio anche se c'è
l'edificio per le eliminazioni, il vitto è uguale per tutti, un filone
di pane da dividere tra i sedici componenti della baracca e una patata
con l'acqua di bollitura a testa al giorno; nel campo tutto era proibito
tranne eseguire gli ordini, Tullio ha portato per tutta la vita le
cicatrici delle percosse che ha ricevuto disobbedendo alla regola, il
suo nome era un numero, o altrimenti "tu, merda". Tullio ha raccontato
che il primo ricordo che aveva del campo era il canto di un gruppo di
polacchi, cantavano inni sacri polacchi mentre le guardie lì
picchiavano, prendevano le bastonate e continuavano a cantare, cantare
era proibito, era proibito anche pregare a voce alta. Era proibito
festeggiare anche il Natale, e per questa ragione Tullio ha conosciuto
Theresa; quella polacchetta era una testa calda e nel Natale del '44 era
diventata famosa in tutto il campo perché s'era risaputo che,
rischiando la morte, aveva rubato un rametto da un albero e con la carta
colorata rubata negli uffici aveva allestito un alberello natalizio
nella sua baracca, era furbissima e riusciva a nasconderlo alle
ispezioni giornaliere. Così Tullio si è intestardito di conoscerla la
testa calda polacca, e ci è riuscito trovando il modo di arrivare
all'ufficio dove dattilografava. L'ha vista, era bellissima e piena di
fascino ribaldo, e si è innamorato; e siccome era anche lui un uomo
molto bello e molto affascinante, anche Theresa si è innamorata, così,
in un lampo. Tullio ha raccontato che la cosa strana in quel campo dove
nessuno pensava a altro che a sopravvivere, dove essere buoni d'animo
era come suicidarsi, fu la gran complicità generale per quegli
innamorati, così che riuscirono a scambiarsi persino dei biglietti, e a
promettersi, e a sopravvivere fino alla liberazione.
Naturalmente il vestito della sposa e il suo lì ha tagliati e cuciti
Tullio. Che ha preso la sua sposa e se l'è portata in Riviera, e alla
stazione c'era tutto il paese ad aspettarli, in testa la cara, vecchia
mamma, che per prima cosa si è schiantata sul figlio con uno schiaffone
tremendo, perché, con tutto quello che gli era successo, Tullio si era
dimenticato di aver lasciato al paese una promessa sposa, nientemeno che
la nipote del parroco, e queste cose non si fanno. E poi sono vissuti
felici e contenti, tanto da fare una figlia e poi un'altra, e l'altra è
la signora Teresa che non ha mai conosciuto sua madre e quello che sa di
lei sono le fotografie e i racconti. Che è quello che so io e che ora
sapete voi. E tutti quanti sappiamo da quelle fotografie un'altra cosa,
sappiamo che persino nella più vigilata fortezza dell'inumanità, nel più
schifoso tabernacolo del sadismo, nel tempo dove niente di buono è
ammissibile e plausibile, ecco che anche lì non tutto è perfettamente e
eternamente predisposto e stabilito. Questo nel caso che al tempo
presente dovessimo sentirci deprimevolmente impotenti.
Una squadra della 36° Brigata Garibaldi (1944 - 1945). Credit: Fototeca Gilardi
I ragazzi che fecero la Rivoluzione
L’ordinamento repubblicano affonda le radici nei
principi dei tanti giovani che scelsero la Resistenza e la libertà. Una
storia che non si può dimenticare
di ALBERTO ASOR ROSA
Quando ho letto le prime trenta-quaranta pagine di questo libro di Giuseppe Filippetta, - L'estate che imparammo a sparare (Feltrinelli, pagg. 302, euro 22) - mi sono detto che sarei andato avanti fino alla fine come un treno. Si tratta, come risulta evidente anche dal titolo, della ricostruzione precisa e circostanziata, ampia ma anche facilmente interpretabile nei suoi significati più profondi, della lotta partigiana in Italia, dalle sue drammatiche e insieme esaltanti origini nel settembre 1943 alla sua conclusione, altrettanto esaltante, fra la primavera del 1945 e il lungo svolgimento del 1946.
Il libro è talmente ricco da esser quasi impossibile una sua sintesi, sia pure rapidamente argomentata e ragionata. Dirò perciò più semplicemente quali sono stati i suoi aspetti che mi hanno colpito di più. Il primo riguarda la presenza prioritaria nel racconto di figure di partigiani autentici, identificabili con nome e cognome, e storie proprie nell'ampio arco della resistenza nazionale, dalla Maiella in Abruzzo alle Alpi, di rango superiore e dirigenziale, oppure, forse anche più spesso, della massa dei militanti comuni, di ogni censo e condizione. Questo vuol dire che, con attitudine anche narrativa estremamente efficace, Filippetta coglie e valorizza nell'originaria scelta partigiana una sorta di rivendicazione, spontanea, della propria identità individuale popolare, contro l'affermazione bruta del diritto alla violenza e alla sopraffazione. Si vedano ad esempio, nelle pagine di esordio, le biografie di due partigiani di zone diversissime d'Italia, Vincenzo Cozzani diMontepulciano in Toscana, e Mario Grisendi di San Polo d'Enza nel Reggiano. Scrive Filippetta: "Nelle scelte di Cozzani e di Grisendi non c'è traccia di Stato e di regni, c'è la decisione sovrana di uomini che, venuto meno ogni ordine, scelgono loro quando, contro chi e per quale scopo fare la guerra e diventano partigiani con l'obiettivo di porre fine alla paura e all'ingiustizia del presente e di aprire a sè e agli altri il futuro".
Quando viene meno l'ordine costituito, - quello bene o male rappresentato in Italia dalla tradizione monarchica, a un certo punto persino intrecciata con un disordine istituzionalizzato e brutale come quello del fascismo, - una quota consistente di giovani italiani non sta lì ad aspettare, inerme, subalterna e servile, che un'altra potenza esterna costruisca un nuovo ordine, cui assoggettarsi, ma prende le armi per costruirlo a modo proprio. Del resto, la ricostruzione storica e il discorso argomentativo di Fileppetta non si fermano qui: tutt'altro. Il segnale della traccia che l'autore segue è indicata con precisione dal sottotitolo dell'opera: "Storia partigiana della Costituzione". E cioè: senza tradire il rispetto delle priorità rappresentate in questa storia dalle scelte di Cozzani e di Grusendi, Filippetta dimostra come, attraverso una scalarità di scelte e di tendenze, si arrivi in quei lunghi mesi di lotta a formulare i primi lineamenti del processo costituente, il voto per la Costituente, i tratti fondamentali della nostra Costituzione. Su questi punti Filippetta non potrebbe essere più chiaro: "La Costituzione repubblicana è il risultato di processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello della Costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutti ordini giuridici instaurati in vista della creazione stabile e definitiva di un nuovo ordine costituzionale". Altrove parla della "Costituzione dei fucili".
"La Costituzione dei fucili"! Nella ricostruzione di Filippetta c'è indubbiamente la traccia di altri autorevoli interpreti di quel passato, da Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, da Guido Quazza a Giovanni De Luna; ma, se non erro il nostro autore porta fino alle ultime conseguenze il discorso. Un tratto significativo, - ma anche commovente - del suo rapporto con questa materia è consegnato alle ultime pagine del libro. Filippetta ricorda che già nel 1946 un maestro del diritto amministrativo, Giovanni Miele, aveva puntato il dito accusatore contro quei numerosi giuristi che tranquillamente si erano adattati al cambiamento dei regimi, dedicando il suo saggio Umanesimo giuridico a due suoi studenti dell'Università di Pisa, caduti nella Resistenza: Francesco Pinardi e Rurik Spolidoro. Sono gli stessi cui ora, - evidentemente con scelta non casuale, - Filippetta dedica il suo libro. Come mai? Anche qui Filippetta è di un'estrema chiarezza. Perché "nella lunga stagione del 1943-1947 il nuovo diritto repubblicano nasce innanzi tutto dalle vite costituenti dei tanti che, insieme a Rurik e Francesco, attraverso le bande partigiane affermano e instaurano con le loro scelte e le loro azioni... I principi e le regole dell'ordine democratico della libertà... Dimenticarlo significherebbe rinunciare al progetto di liberazione e di emancipazione umana che la Costituzione del 1947 ci ha affidato e privarci del nostro futuro di cittadini repubblicani". Sono le ultime parole del libro. Talvolta, quando ci accade anche inconsapevolmente di misurare quelle scelte e quelle giovani vite di combattenti partigiani con il nostro presente di oggi, ci viene da piangere.
Una militanza fatale
Novecento. «Un
amore partigiano», il libro di Mirella Serri che racconta la storia
oscura di Gianna e Neri, uccisi dai loro stessi compagni e scomparsi nel
nulla
Quella di Gianna e Neri è una storia oscura della Resistenza. La ricostruzione appassionata che ne fa Mirella Serri (Un amore partigiano, Longanesi, pp. 217, euro 16,50) consegna al lettore un’empatia forte con i due protagonisti: lei, all’anagrafe Giuseppina Tuissi, che diventa partigiana dopo che i fascisti uccidono il fidanzato, torturata a sua volta in una prigione di Salò, addetta all’inventario del cosiddetto «oro di Dongo» sequestrato ai gerarchi, accompagnatrice di Claretta Petacci nel suo ultimo viaggio (e l’amante di Mussolini viene dipinta come una donna antisemita, ambiziosa e priva di scupoli, smontando ogni stereotipo assolutorio); lui, vero nome Luigi Canali, a capo della Brigata Garibaldi che arrestò il Duce, secondo qualcuno l’uomo che diede il colpo di grazia al gran capo del fascismo (ma per le cronache l’esecutore materiale fu un altro partigiano, Walter Audisio, che a più riprese ha raccontato come avvenne l’esecuzione). L’autrice ne sposa la causa e aderisce all’idea che tra i due ci fosse più che una comunanza politica, un’ipotesi suffragata dalle parole della vedova di Canali quando, nel 2002, il Comune di Como ha inaugurato una scalinata intitolata ai due combattenti per la Liberazione dal nazifascismo: «Per quel che mi riguarda, Gianna è la donna che mi ha portato via un marito che mi amava». Ma è soprattutto una storia dal tragico finale, che racconta delle opacità e delle durezze di quell’ultima fase della guerra partigiana e soprattutto di quei mesi di interregno seguiti al 25 aprile del ’45. Ne scrisse sul manifesto Rossana Rossanda, nel 1985, ben prima che due lettere del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi Walter Veltroni da segretario dei Ds arrivassero a chiudere una ferita rimasta aperta per settant’anni: «Mi sfilavano davanti le immagini dei compagni uccisi… Questo ricordo, vivo come i colori freddi d’una giornata d’aprile del Nord, e quello immediatamente successivo del Neri e della Gianna, uccisi dai loro, dai miei compagni per una storia oscura e della quale mi si avvertì energicamente che non mi dovevo occupare, fece sì che non mi è riuscito di dire ‘Ai bei tempi della resistenza’». Rossanda ha ripreso la vicenda nella più recente autobiografia La ragazza del secolo scorso. Racconta di quel «comandante favoloso» e di «una ragazza spericolata», della loro condanna e della fucilazione, non crede al collegamento con la scomparsa dell’oro di Dongo, come pure Mirella Serri, e scrive che «nel 1945 nulla di quella storia mi convinse. Ma non mi venne in mente di abbandonare. Non me ne vanto, non me ne pento». Come morirono Gianna e Neri? E per mano di chi? Fu una vicenda «locale», un regolamento di conti all’interno delle bande partigiane comasche o la gravità dei fatti non consente di archiviarla come tale? Erano «traditori», come aveva deciso il Tribunale della Resistenza diramando ai Gap l’ordine di ucciderli, oppure no, come avevano pensato da subito i compagni del Neri, riaccogliendolo nella loro brigata dopo la fuga dal carcere? Soprattutto, perché dare esecuzione a una sentenza di morte quando tutto era ormai finito? «A Milano domandai un’inchiesta. Urtai contro un muro. Tutti coloro che la chiesero urtarono contro un muro. Forse non si volle ammettere l’errore, forse lo si comprese inescusabile», scrive Rossanda. Mirella Serri aggiunge qualche sospetto in più, lasciando intravvedere delle rivalità preesistenti: chi fece la soffiata che fece arrestare entrambi a Lezzeno, sul lago di Como? L’ipotesi è che il comandante Neri, comunista, fosse inviso ad alcuni personaggi della Resistenza comunista comasca, in primis Dante Gorreri, ex Ardito del popolo, collaboratore di Guido Picelli nella resistenza antifascista di Parma nel 1922, segretario del Pci di Como, dopo la guerra componente dell’Assemblea Costituente, poi arrestato con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di Gianna e Neri, scarcerato nel 1953 perché eletto deputato per il Pci e infine amnistiato. E poi a Pietro Vergani, anch’egli senatore nel dopoguerra e poi amnistiato, che da comandante delle Brigate Garibaldi della Lombardia aveva fatto sospendere la condanna a morte dei due partigiani. L’accusa nei confronti di Neri, poi smentita dai fatti, fu quella di essere una «spia» del nemico, fatto fuggire dal carcere per arrestare i compagni. La partigiana Gianna, anch’ella comunista, fu invece sospettata di aver parlato, sotto tortura, rivelando gli indirizzi di alcune basi partigiane e provocando diversi arresti. Fu uccisa e gettata nel lago il 22 giugno del 1945, giorno del suo ventiduesimo compleanno, probabilmente perché non si era arresa alla scomparsa nel nulla di
Luigi Canali, avvenuta il 7 maggio. I loro corpi non saranno mai
ritrovati.