30.1.21

“paradossi italiani si vuole fare una statua a Gigi Riva ma una legge fascista ancora vigente lo impedisce

appoggio in pieno tale iniziativa : da sardo , da refrattario e libertario , oltre che da sportivo ( passivo per per pigrizia e motivi di salute ) soprattutto dopo questa intervista : << Non essendo sardo ho deciso di diventarlo. Per la vita”. Luca Telese intervista Gigi Riva >> uno di quei " continentali " che venuti in Sardegna l'hanno amata e fatta grande , oltre a rispettarla.  

Pietro Porcella è uno dei tanti italiani all’estero, abita in un Comune della Florida non lontano da Miami, fa il giornalista e il professore di italiano. Fu il primo a lanciare l’idea di una statua gigante a Gigi Riva nel 2015 con un articolo che uscì sulla sua rubrica (molto letta) che appare sul quotidiano di New York “America Oggi”.

Era la vigilia dell’apertura della piazza Manlio Scopigno, a Cagliari, davanti all’Amsicora. Poi quell’idea, che sembrava impossibile e irrealizzabile, grazie alla testardaggine di Pietro divenne il progetto del comitato.( qui per aggiornamenti https://www.facebook.com/unastatuapergigiriva/  qui per  chi     vuole  contribuire  "COMITATO UNA STATUA PER GIGI RIVA" va effettuato al seguente IBAN
IT33N0101504809000070653484 per chi lo effettua dall'estero il BIC (codice swift) è BPMOIT22XXX
oppure ci si può recare direttamente a Cagliari filiale n. 6 del Banco di Sardegna al Quartiere del Sole in Via del Pozzetto (tel.070-3792000) e compilare l'apposito modulo.  )
Porcella ha una testa dura da sardo, più una mentalità fattiva amplificata dall’esperienza americana. Nel tempo l’idea di un monumento a Gigi Riva e ai campioni dello scudetto del 1969-70 si è perfezionata. Porcella ha iniziato a tessere la sua tela, preparando i bozzetti della statua, cercando i materiali, avviando la sottoscrizione, iniziando il rito dei tanti incontri istituzionali. Ha costruito un comitato il cui convivono ex campioni di calcio, amici di Riva, personalità che vengono da mondo diversi, ma nessun politico. Purtroppo Una vecchia legge del 1927 ne vieterebbe la realizzazione, ma la sensazione è che alla fine l’ostacolo possa essere superato, e la statua di Gigi Riva si farà: una scultura in bronzo alta tre metri, che raffigura il sardo di Leggiuno in una delle sue epiche “stamborrate”, posizionata al centro del grande piazzale antistante il Lazzaretto, e che sarà finanziata con una grande raccolta fondi popolare.




una cosa che fa incazzare visto che Un certo Pelé  😁😂 detiene il record di statue nel suo Paese, il Brasile: nel 2014 erano già sei. Ma lì nessuna legge le vietava)





il resto della storia da https://www.tpi.it/sport/calcio/    del 30\1\2021

Stiamo facendo un battaglia per Gigi Riva, e contro… Mussolini.
Riva contro Mussolini? Beh, devi spiegarla.
Tu sai, perché condividi il nostro progetto, che il sottoscritto, Pietro Porcella, coordina un comitato che ha l’obiettivo di erigere una statua in pietra, a Cagliari, in onore di Gigi Riva.

Certo: una scultura particolare, un simbolo, una piccola impresa. Il primo scudetto del Sud, quello del Cagliari, nel segno di Davide contro Golia.
Esatto: secondo lo statuto che ci siamo dati la statua dovrà ritrarre Gigi mentre è impegnato in una delle sue acrobazie. Io la chiamo “la stamborrata”. Ci piacerebbe che sorgesse a Sant’Elia.

Perché?
È un quartiere popolare a cui Gigi è molto legato, è una periferia che si sta riqualificando, è il luogo del suo stadio, è quello da cui partiva da ragazzo con il suo amico pescatore Martino.

Poi mi spieghi tutto meglio. Ma ora chiarisci la battuta d’esordio.
È presto detto: abbiamo iniziato la nostra attività quando c’era un sindaco di sinistra, Massimo Zedda, subito entusiasta e sostenitore del progetto…

E adesso c’è un sindaco di Fratelli d’Italia: Truzzu.
Ma perché fortuna anche lui é favorevole al progetto del comitato. In consiglio comunale penso che raccoglieremmo l’unanimità.

E cosa manca?
Un intervento del ministro Lamorgese.
Il ministro dell’Interno? Come mai?
Abbiamo scoperto, strada facendo, un paradosso contenuto in un articolo mai abrogato di una legge del periodo fascista sulla monumentalistica. Questa legge oggi é ancora in vigore.

Davvero?
Pensa: si tratta della legge 1188 del giugno de 1927. Si sono dimenticati di cancellarla.
E cosa prevede l’articolo di cui parli?
Che la statua ad un personaggio vivente possa essere autorizzata solo in tre casi.

Quali?
Non ridere. Il primo: se il personaggio è un gerarca del regime fascista.
Incredibile. Soprattutto perché il regime è finito da più di settant’anni.
Il secondo: se il personaggio è un alto prelato.

E questo si spiega con il concordato siglato fra Stato e Chiesa, proprio dal regime di Mussolini.
Il terzo caso é quello che interessa a noi. Si può dedicare una statua ad un vivente se c’è una deroga particolare del ministro dell’Interno.

Mi stai dicendo che in linea teorica oggi si potrebbe erigere una statua a Benito Mussolini ma non a Gigi Riva?
Esatto! Per questo credo che questa storia abbia un certo interesse per la vita nazionale italiana, e non solo per gli appassionati di calcio.

È stata dura convincere Riva?
C’è voluto più di un anno perché arrivasse a condividere il progetto alle condizioni che ti dirò.

Pietro, so che questa impresa, per di più animata dall’altra parte del mondo, ti sta costando molto impegno. Come mai sei così determinato?
Ti dico una cosa: se in America avessero un Gigi Riva, avrebbero edificato un mausoleo in suo onore. Abitando lì mi sono reso conto ancora meglio di come la monumentalistica possa essere una grande opportunità culturale e non solo.

Intendi dire anche economica.
Riva è noto da un capo all’altro del pianeta, è un simbolo italiano, è un personaggio pubblico privo di qualsiasi macchia. Verrebbero a visitare la statua da tutto il mondo.

La immaginate grande?
Beh, con il basamento siamo a 6 metri: ci piace che sia visibile dal cielo e dal mare, dall’aereo e dalla nave.

Sarà posata?
Raffigurerà Riva mentre colpisce il pallone. A Oxford – cioè in sardo – si dice mentre sta facendo una “stamborrata”.

Cosa ci sarà scritto?
Una cosa sobria: “A Gigi Riva: l’uomo, il campione, il sardo”.


Anche se Gigi è nato a Leggiuno, in provincia di Varese?
Ti cito una sua frase, che vale anche per gli altri suoi compagni di squadra rimasti in Sardegna: “Non essendo sardi, abbiamo scelto di diventarlo”. Questa epigrafe lo renderebbe felice, è il senso della sua vita.

Hai in mente un esempio?
A Madeira, in Portogallo, hanno dedicato a Cristiano Ronaldo un intero aeroporto. Che fra l’altro ospita un busto di bronzo dedicato al celebre giocatore del Real Madrid, oggi alla Juventus. Non è incredibile?

Spiega cosa intendi.
Beh, Ronaldo è un giocatore ancora in attività, per certi versi controverso. Gigi Riva è una pagina della vita nazionale già consegnata alla storia.

Lo conoscono anche in America?
Ovunque. Ti ricordo una celebre frase dell’allenatore del Brasile, Joao Alves Jobim Saldanha, che nel 1970 disse: “Anche l’Italia ha un suo Pelé, tutto di calcestruzzo: si chiama Gigi Riva”.

Come avete fatto a convincere uno degli uomini più schivi del mondo?
(Ride). Eeeeh… spiegandogli la verità. E cioè che questa statua sarebbe un regalo alla città, che richiamerebbe turisti. Che il monumento sorgerebbe in un quartiere popolare che oggi è tagliato fuori da qualsiasi itinerario turistico.

E lui?
Come ti ho detto, ci ha pensato a lungo, e poi ha posto tre condizioni e ha espresso un desiderio.
Quali condizioni?
La prima: che non ci siano di mezzo dei politici. La seconda: che ci fossero anche i nomi dei suoi compagni.
E la terza?
Che non costi un solo euro alle casse del Comune, della Regione o dello Stato.

Questo rende il vostro lavoro li difficile.
Chi ama Gigi condivide questo suo modo di vedere le cose. Non costare nulla agli altri, dare piuttosto che ricevere. È il suo stile di vita. Il suo esempio, se vuoi.

E il desiderio sul monumento?
Non ridere: “Ci deve essere spazio perché i bambini possano correrci intorno”. Gigi intende che deve essere un monumento vivo, inserito in un tessuto urbano vivo. Non un mausoleo, o una costruzione astrusa ed estranea alla città.

E i compagni come devono essere ricordati?
Ha chiesto che nel basamento di pietra ci fossero incisi anche i nomi dei suoi compagni, del mister Manlio Scopigno, e del dirigente che costruì quella squadra, Andrea Arrica.

Che ragionamento ha fatto?
Sa di essere il simbolo di quella vittoria, ma sa anche – e vuole che tutti ricordino – che fu prodotta dall’impegno di tutta una squadra.

E il luogo?
A lui la nostra idea del Sant’Elia piaceva molto, perché quel mare, davanti allo scoglio, era il luogo sacro dove si rintanava il lunedì mattina dopo la partita domenicale. Andava a pescare talvolta col suo amico Martino. Si isolava dal mondo e voleva stare con la gente silenziosa e rispettosa come lui. Sant’Elia è una periferia che si sta riqualificando, è il luogo del suo stadio, da dove si gode una vista esclusiva sulla città antica e sulle montagna.

E la forgia della statua?
Nella riunione di comitato si erano portate avanti tre possibilità sull’icona di Riva nel tempo: il magnifico gol di testa in tuffo a Napoli nella partita con la Nazionale contro la Germania Est, la strepitosa rovesciata al volo a Vicenza nell’anno dello scudetto o la classica “stamborrata” di sinistro.

Adriano Reginato osservò’ subito che se facevamo questa statua doveva essere una fotografia di quel Riva con quella maglietta del Cagliari. La rovesciata di Vicenza, fu detto, pur essendo la più suggestiva, avrebbe avuto uno sviluppo orizzontale che copriva il viso e sarebbe stata molto più difficile da realizzare. Alla fine ha vinto l’idea de l’hombre vertical: Gigi Riva che calcia potente di sinistro, con quella maglietta, quei calzoncini, quei calzettoni e quelle scarpette così speciali. È il modello sul quale stiamo lavorando.

Avete raccolto un entusiasmo che non vi aspettavate…
Sono arrivati subito migliaia di euro. Poi ci siamo fermati noi, perché volevamo che dopo le interlocuzioni positive con Comune e Soprintendenza fosse chiarito questo punto della deroga.

Chi altro vi aiuta?
Pensa che la figlia di Pinuccio Sciola, il più grande artista sardo contemporaneo, noto nel mondo per le sue pietre parlanti – purtroppo scomparso – ha messo a disposizione, regalandola, tutta la pietra che servirà per il basamento.

Gratis?
Sono tonnellate. Non ha voluto una centesimo. Sciola e Gigi si volevano bene. Ma ci sono anche altri produttori sardi di granito che hanno espresso disponibilità.

Chi vigila sui soldi?
Il nume tutelare del comitato è Oliviero Salvago, uno dei più cari amici di Gigi. Nel comitato ci sono anche suoi ex compagni di squadra come Beppe Tomasini e Adriano Reginato, il portiere del record di imbattibilità in serie A.

Morale della favola?
Nessuno tocca un centesimo se non per la statua. Tutti lavorano in modo volontario. I soldi già raccolti sono inventariati e custoditi gelosamente. Si va dai 10 euro del pensionato ai 100 del libero professionista.

E la figura della statua?
Sarà di un marmo granito, sarebbe bello se fosse quello della “sella del Diavolo”, il più noto promontorio di Cagliari, quello che si vede da lì.

È vero che avevate immaginato una maglia che veniva cambiata ogni anno?
L’idea è stata messa si voti e bocciata. Sapeva troppo di culto superstizioso. Il comitato preferisce laicità e sobrietà.

E cosa vorresti che accadesse?
Che la Lamorgese ci ricevesse, o anche solo che ci concedesse una deroga.

Perché dovrebbe farlo?
In primo luogo per correggere una legge che, come abbiamo visto, è platealmente sbagliata.
E poi?
Perché, anche e soprattutto nel tempo del Covid, questo Paese ha bisogno di scegliersi dei simboli positivi, anche nel secolo Novecento, e di indicarli a tutto il mondo come la sua carta di indennità.

In quella legge c’è scritto tuttavia che la deroga può essere data a chi ha dei meriti gli occhi della patria.
È una formula retorica, ma stiamo al gioco: Gigi ha vinto un Mondiale da dirigente, si è rotto due gambe giocando in Nazionale, detiene il record assoluto di gol in azzurro di tutti i tempi.

Non temi che possano esserci polemiche?
Sul suo nome? Ne parliamo da tre anni, in Italia e nel mondo: non abbiamo ricevuto o raccolto un solo parere critico. Conterà qualcosa?

Vorresti qualcos’altro?
Sì. Che dopo averci dato la deroga cambiassero questa legge un po’ folle.

Dimmi di più sul paradosso della legge fascista.
L’avvocato Dore, prezioso esponente del nostro comitato, ha scoperto, strada facendo, quel paradosso contenuto in un articolo mai abrogato di questa legge del periodo fascista sulla monumentalistica. Questa legge é ancora in vigore. Pensa, si sono dimenticati di cancellarla. Ti pare possibile?
No.
Tuttavia nella stessa legge – e questo è molto importante – c’è anche la via di uscita. A parte l’eccezione del gerarca e del prelato, quella che interessa a noi è la terza.

Perché non c’è bisogno di cambiare la legge.
Si può dedicare una statua ad un vivente se c’è una deroga particolare del ministro dell’Interno, nel caso il personaggio in questione sia stato di grande onore per la patria. E noi nella lettera certificata inviata alla ministra Lamorgese il 3 ottobre 2019 le abbiamo elencato i motivi per i quali Gigi è stato di grande onore per la patria.

Ovvero?
Sia come giocatore sia come dirigente sportivo e soprattutto come uomo d’esempio per fedeltà, onesta e valori morali.

Così l’auspicio è che, grazie a Riva, quella norma possa essere riscritta.
Stiamo facendo tutto questo anche per farlo capire alla ministra. E agli italiani. Sarebbe bello se finalmente questa legge iniqua fosse cambiata grazie a Gigi. Non vogliamo che nessuno ci ringrazi.
No?
(Ride). No. Ci basta che ci facciano la statua. E che poi, possibilmente, rimettano a posto la legge cancellando questo assurdo giuridico.

Leggi anche: “Non essendo sardo ho deciso di diventarlo. Per la vita”. Luca Telese intervista Gigi Riva






28.1.21

Le risposte che servono contro l'andragheta di Emiliamo Morrone

 

Premetto che la mia regione la Sardegna rispetto alla Calabria ed il resto del meridione  non ha la mafia  (anzi mafie) "classica" ma solo quelle moderne  tanto d'essere come altre regioni d'Italia sotto loro infiltrazioni e usata come luogo Franco perle loro sporche attività. Ma il discorso dell'amico Emiliano da me definito il Saviano Calabrese per le sue denuncie ed analisi  sulla Calabria è condivisibile ed applicabile alla lotta contro le mafie. Soprattutto Per il suo contenuto di giustizia, non per altro. La sua è riflessione profonda su 'ndrangheta, sanità e riscatto della Calabria, che fa seguito a un'intervista sugli stessi argomenti, rilasciata dall'amico Roberto Saviano al Corriere della Calabria.

https://www.corrieredellacalabria.it/z-db/item/290642-le-risposte-che-servono-contro-la-ndrangheta/

27.1.21

tre atroci Violenze da parte di giovani ragazzi Stupri, femminicidi, minacce di stragi di donne da parte di un 19enne, un 22enne e un 25enne

da https://ihaveavoice.it/tre-atroci-violenze-da-parte-di-giovani-ragazzi/


Stupri, femminicidi, minacce di stragi di donne da parte di un 19enne, un 22enne e un 25enne

19 anni, ha il ragazzo accusato di aver ucciso la fidanzata 17enne, bruciandola e buttandola giù per un dirupo.

22 anni, ha il ragazzo arrestato perché voleva fare una strage a una manifestazione di femministe, considerando le donne “bambole di carne da sterminare”.

25 anni, ha il ragazzo che ha brutalmente e ripetutamente violentato e picchiato, per diversi giorni, fino alla morte una neonata di 18 mesi, figlia della compagna.

Il 19enne che ha ucciso la fidanzata

Pietro Morreale, 19enne, ha accompagnato i carabinieri nel luogo in cui si trovava il cadavere della giovane fidanzata, Roberta Siragusa, di soli 17 anni. Il suo corpo era parzialmente bruciato ed è stato trovato in un burrone nella zona di Monte San Calogero a Caccamo (Palermo). Gli amici della coppia raccontano che quella sera avevano litigato per motivi di gelosia.

Il 22enne Incel che vuole fare stragi di donne

Andrea Cavalleri, 22enne di Savano, aveva creato un canale Telegram con 400 aderenti in cui inneggiava a stragi e allo sterminio razziale e di femministe, dichiarando di odiare profondamente le donne, poiché era “vergine a causa loro”. Si identifica nel pensiero Incel, (celibe involontariamente) e sostiene tesi altamente misogine e di violenza contro le donne. Questa setta ha già commesso diversi stragi in America, uccidendo oltre 80 persone (approfondisci QUA).


25enne violenza e picchia fino alla morte una neonata

Gabriel Robert Marincat, 25 anni, ha picchiato e violentato barbaramente la piccola Sharon Barni, di soli 18 mesi. Le sevizie sono andate avanti per giorni prima che la piccola morisse. Era figlia della sua fidanzata, con cui viveva a Cabiate, in provincia di Como. Quando la madre era al lavoro di solito la lasciava con la nonna paterna, tranne quando lei non poteva così la affidava al compagno. Lui aveva dato la colpa ad un incidente con una stufa, ma l’autopsia ha rilevato gli abusi.

Violenze atroci, ma anche un livello di perversione difficile da comprendere

Tutto questo solo negli ultimi giorni.

Non solo delle violenze atroci, ma anche un livello di perversione che si fa davvero fatica a comprendere come sia possibile in menti così giovani.Violenze, queste, che si vanno a sommare alle altre innumerevoli accadute nel corso dello scorso anno, tra stupri di gruppo, revenge porn, detenzione e distribuzione di materiale pedo-pornografico, addirittura video di sevizie e torture su minorenni, anche bambini piccolissimi, il tutto da parte di ragazzi sempre più giovani, alcuni a mala pena maggiorenni e spesso minorenni.Un problema terribile, di cui nessuno sembra accorgersene, pensando magari che siano casi isolati, ma ci sono evidenti trend in crescita. Si contano decine e decine di pagine social con contenuti altamente misogini, che diffondo disinformazione vittimizzando gli uomini e facendo apparire le donne come colpevoli dei loro presunti problemi. Queste pagine sono rivolte ai giovanissimi, a partire anche dagli 11 anni, e, giorno dopo giorno, instillano odio nelle loro giovani menti verso le donne. E questi sono i risultati.Ne abbiamo già parlato diverse volte, l’ultima qualche giorno fa, mostrando un brevissimo estratto degli insulti e minacce che riceviamo ogni giorno da questi adolescenti, istigati da queste pagine misogine.Finché non si farà qualcosa per contrastare questi messaggi pericolosi e non si inizia a fare educazione relazionale e sessuale, in modo sano e costruttivo, a scuola, questi ragazzini cresceranno con l’unico esempio dei porno, che propongono scene sempre più spinte e perverse, e l’istigazione all’odio contro le donne da queste pagine sessiste.Queste violenze non sono casi isolati, sono la conseguenza di un pensiero altamente misogino che si sta radicalizzando sempre di più e in modo sempre più esteso, attraverso i social. Non possiamo più stare qua a guardare, dobbiamo fermare questo scempio.

26.1.21

La memoria che serve a tutti La Repubblica - 25 gennaio 2021 di Enzo Bianchi

  Uno  degli articoli più interessanti    sulla  giornata      del  27  gennaio 
da https://www.ilblogdienzobianchi.it/home  sezione  articoli  

di   Enzo Bianchi  
Da vent’anni in Italia (prima della risoluzione dell’ONU del 2005) il 27 gennaio si celebra la giornata della memoria della Shoah: una memoria non come le altre, perché ci chiama a sentirci responsabili – sì responsabili –, noi europei, noi italiani, noi cristiani.
Ma se questa assunzione di responsabilità non avviene, allora la giornata della memoria è condannata a ridursi a ripetitiva retorica, è confinata nell’ambito della “narrazione”, anche se oggetto di parola pubblica o privata. Lo dobbiamo ammettere: per molti la Shoah è un evento che reca disonore all’umanità come tanti altri, è una pagina come molte ve ne sono nei manuali di storia, un giorno in cui risuonano forte i “Mai più!”, senza che però muti in profondità un atteggiamento. Continuiamo cioè a nutrirci quotidianamente di indifferenza, sopportando genocidi, guerre, campi di concentramento, tentativi di migrazioni attraverso perigliosi mari e gelidi inverni che causano la morte.
Vent’anni di celebrazione della giornata della memoria non sono stati in grado non dico di eliminare, ma almeno di arginare diverse forme di antisemitismo, che mostra la sua efficace presenza anche nella contagiosa violenza verbale praticata nei social media. C’è un antisemitismo volgare e “popolare” tuttora molto presente in Italia, che si manifesta anche solo nell’espressione: “Ma quello è un ebreo!”, per stigmatizzare chi, godendo di qualche riconoscimento, sembra esserselo meritato solo in virtù dell’appartenenza a una nebulosa lobby ebraica di potere. L’antisemitismo ha radici profonde in noi italiani, che non abbiamo mai sviluppato una coscienza storica e civile di quanto abbiamo commesso durante l’epoca fascista. Lo stesso vale purtroppo – mi preme dirlo – per il truce massacro che abbiamo commesso in Etiopia, sconosciuto ai più e del quale nessuno assume la vergognosa colpa.
Come cristiani, inoltre, va ricordato che le persone della mia generazione erano abituate a usare l’offensivo epiteto “sporco giudeo” e a credere alla condanna che pesava sull’ebreo deicida, quella di essere ramingo senza poter meritare l’appartenenza alla società. Ciò aveva la sua epifania nella invocazione liturgica del venerdì santo “pro perfidis Judaeis”, eliminata solo da papa Giovanni. Cosa, personalmente, mi convertì? Non posso dimenticare che nel 1960 la scuola ci portò in pellegrinaggio al campo di concentramento di Dachau, con lo slogan: “Devi vedere per ricordare!”. Tornai da quella settimana non più come prima e quell’esperienza mi segnò al punto tale che per tutta la mia vita mi sono impegnato a resistere all’antisemitismo.
Il fatto che la Shoah abbia avuto luogo nei paesi della cristianità deve tener viva la questione della relazione tra persecuzione degli ebrei e gli atteggiamenti dei cristiani: mancò infatti la resistenza spirituale concreta di quelli che nella fede sono i fratelli gemelli degli attuali ebrei. La giornata della memoria, dunque, è indispensabile alla storia e la storia essendo memoria futuri è indispensabile al futuro dell’umanità.
La Shoah ha una singolarità non esclusiva ma inclusiva, che deve essere celebrata pubblicamente come antidoto all’oblio e alla non-giustizia, continuando a confidare in una sola cosa: in ogni uomo, in ogni donna c’è e resta, nonostante tutto, la capacità di dire no al male e sì alla vita, quindi un’apertura possibile a riconoscersi fratelli.

25.1.21

anche chi era fascista fini nei lager . la storia dell'insegnante Zaira Coen Righi

Qualche  anno fa leggendo  che la protagonista  della storia  d'oggi era   fascista    avrei scritto  frasi del  tipo :  <<  peggio per  lei   che  era  fascista >>. Oggi   con  il senno di poi  e  con un maturazione interiore  oltre  che  ulteriore  approfondimento del periodo   del fascismo e della seconda  guerra mondiale  e quindi un nuovo  modo  di concepire    l'antifascismo   non lo farei  . 
Infatti  lo shoah e  l'olocausto    ha colpito   come la storia  che riporto sotto   anche persone   che avevano un ruolo nel regime fascista    sia   che lo fossero  perchè  ci credevano  ed  ne  condividevano
da http://digital-library.cdec.it

il pensiero \  ideologia    ma  anche   s'erano obbligati  perchè  dopo il 1927   dovevi per  forza   avere la tessera  del fascio   ed  era  obbligatorio    essere  iscritti alle   associazioni   del regime   ,  ecc. altrimenti finivi emarginato e  facevi la  fame  .
 La storia  che  mi accingono a  narrare   è  quella di Zaira Coen in  Righi  la professoressa del liceo Azuni deportata ad Auschwitz.

  


dalla  nuova   Sardegna   27 GENNAIO 2014

DI ELISABETTA FRANCIONI E GABRIELLA NOCENTINI
 


Nel cimitero di Sassari, entrando da via San Paolo, c’è una lapide che ricorda una donna le cui spoglie non hanno mai avuto sepoltura. “La tua Zaira Auschwitz. IV. 1943”, recita la scritta sulla piccola lastra di marmo sovrapposta a una tomba preesistente. Se fosse morta di vecchiaia o di malattia Zaira Coen sarebbe stata sepolta qui, accanto al marito Italo Righi. La sua vita, invece, finì il 23 maggio del 1944 (la data sulla tomba è palesemente sbagliata) molto lontano da casa, nel forno crematorio di un campo di sterminio della Polonia. La deportazione razziale in Sardegna colpì solo tre donne ebree: Elisa Fargion di Cagliari morta a Birkenau, Vittorina Mariani di Porto Torres sopravvissuta al lager di Bergen Belsen e lei, Zaira Coen, che sarda non era ma viveva a Sassari. Oggi è possibile ricostruirne più a fondo la vicenda, alla luce di nuovi documenti rinvenuti in archivi storici e di due testi: Il Libro della

             


memoria di Liliana Picciotto Fargion e il saggio Sardi nella deportazione di Aldo Borghesi.
Studi a Bologna. Vittoria Zaira Coen era nata a Mantova da Ernesto Coen ed Erminia Rimini il 4 ottobre 1879, primogenita di una famiglia numerosa la quale, nel 1897, si era trasferita a Bologna. Qui, nel 1905, Zaira aveva preso la laurea in scienze, poi l’abilitazione all’insegnamento e nel 1919 aveva sposato il medico Italo Giuseppe Righi, otto anni più di lei, della famiglia sassarese titolare del noto negozio di mobili e antichità. “Persona elegante, di aggraziata e squisita femminilità” – ha scritto di lei il pronipote Paolo Pinna Parpaglia -, giunta a Sassari insegnò scienze per 8 anni alla Scuola normale femminile, poi all’Istituto tecnico Lamarmora e infine, dal 1935, al Liceo Ginnasio Azuni. Come si legge in una nota inviata al Partito nazionale fascista dal professore Francesco Pilo Spada, la professoressa Coen Righi era «di buona condotta morale e politica». Iscritta al partito e all’Associazione fascista della scuola, ricopriva incarichi nelle organizzazioni femminili e partecipava alle attività del Fascio sassarese.
Insegnanti nel mirino. Non le mancava, inoltre, la stima del corpo insegnante per i suoi meriti professionali e un’autentica devozione da parte degli allievi. Ma a nulla servirono queste sue credenziali quando, in virtù del decreto “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” emanato nel 1938, fu dapprima sospesa e due mesi dopo dispensata dal servizio, sorte che in Italia toccherà a circa 280 tra insegnanti e presidi e ad oltre 400 tra docenti e assistenti delle università. A Sassari – ha scritto Manlio Brigaglia – furono rimossi due soli ebrei: la Coen e Michelangelo Ottolenghi, docente nell’Ateneo turritano, anche lui di origine non sarda. «Emarginata nel piccolo ambiente cittadino e persino oggetto di scherno – scrive Borghesi – Zaira Coen si ritrova senza lavoro e sola, perché nel 1938 muore il marito. Con l’entrata in guerra dell’Italia e soprattutto dopo l’8 settembre 1943 il destino degli ebrei diventa ancora più tragico: la nascita della Repubblica sociale segna infatti il passaggio dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite. E’ il momento di nascondersi, di rifugiarsi da qualche parte. I parenti Righi vogliono cercarle un posto sicuro in una piccola località del Logudoro, ma a nulla valgono le loro insistenze: Zaira decide di raggiungere la sorella Ione, anche lei vedova, a Firenze. Intanto nel novembre del ’43 Norina Coen, la sorella più giovane che viveva a Genova, era stata arrestata insieme al marito e alla figlia durante la prima grande retata degli ebrei liguri: partita per Auschwitz, sarà censita come «morta in data e località sconosciute» (forse di fame e sete, in un vagone abbandonato dopo un’incursione aerea alleata, come riportano le memorie familiari).
Fuga a Firenze. A Firenze Zaira e Ione furono vittime di una denuncia del portiere dello stabile in cui vivevano: oltre a riscuotere il premio stabilito per i delatori, sembra che l’uomo fosse interessato agli oggetti preziosi custoditi nella casa. In realtà, è quasi certo che furono tedeschi e membri dell’Ufficio affari ebraici a saccheggiare beni e gioielli. Arrestate, pare, da agenti di polizia e rinchiuse nel carcere fiorentino di Santa Verdiana, saranno tradotte al campo di concentramento e di transito di Fossoli (Carpi, Modena) il 23 aprile 1944. Da qui partiranno il 16 maggio su un convoglio piombato che, secondo gli studi di Italo Tibaldi, superstite di Mauthausen, venne diviso in due sezioni alla stazione di Innsbruck: una parte si diresse al lager tedesco di Bergen Belsen, l’altra ad Auschwitz, con 581 persone tra cui molti fiorentini e le due Coen. Nedo Fiano, 19 anni all’epoca, uno dei 60 sopravvissuti, ha raccontato nel suo libro A 5405: il coraggio di vivere il viaggio su un vagone di quel convoglio che, di tutta la deportazione italiana, impiegò più tempo per arrivare: 7 giorni. «A notte fonda il convoglio entrò dentro il lager di Birkenau. Alle prime luci dell’alba… i vagoni vennero aperti. Dove eravamo? Cosa ci avrebbero fatto?». La selezione dei prigionieri, divisi tra uomini e donne, fu fatta com’era prassi alla discesa dai treni, subito dopo l’appello. Scrive un’altra sopravvissuta dello stesso treno, Frida Misul: «Dopo la selezione, rimanemmo 65 ragazze, tutte robuste».
Subito alle “docce”. Le Coen, troppo anziane per essere ritenute abili al lavoro (avevano 65 e 61 anni), furono avviate subito alle “docce”, le camere a gas. «Morte all’arrivo» è scritto di loro nel Libro della memoria e tale circostanza fu confermata anni dopo da altri reduci di quel treno.

I nomi di Zaira e Ione Coen  --  sempre  secondo  la nuova  Sardegna --    compaiono su due grandi targhe che Firenze ha dedicato alla deportazione: una nel giardino della sinagoga, in ricordo dei 248 fiorentini morti nei lager e un’altra inaugurata il 27 gennaio 2012 in Palazzo Medici Riccardi, sede della Provincia, con i nomi di tutti i deportati della Toscana (857 ebrei e 964 politici). Alla professoressa Coen il Liceo Azuni ha intitolato nel 2001 il proprio archivio storico, dopo il riordino effettuato da un gruppo di insegnanti e studenti. E’ stato lo scrupoloso lavoro condotto su queste carte, per tanti anni dimenticate, che ha permesso di ritrovare il fascicolo personale dell’insegnante, la cui vicenda era stata rimossa dalla memoria collettiva della città. Basti ricordare che in settant’anni non si è mai pensato di dedicare una strada ad una donna che, in vita e in morte, è stata parte della storia di Sassari.
Ecco  quindi  che     Raccontare oggi di lei ( ma    anche  di    altri  )  , alla luce di questi nuovi documenti, contribuisce a dare il giusto riconoscimento alla sua figura e ci indica il senso di un percorso della Memoria: conoscere, interrogarsi, e possibilmente  non dimenticare.

24.1.21

non sempre il perdono vuol dire dimenticare il male . il caso di Silvio Pezzotta Padre di Mariangela Pezzotta che ha perdonato Elisabetta Ballarin l'assasina di sua figlia

Per un giorno stacchiamo da giornate \ settimane rompi ( giornata della memoria e giorno del ricordo ) e parliamo di Perdono
Elisabetta Ballarin protagonista di una delle vicende di cronaca nera più drammatiche del nostro paese quella delle Bestie di Satana dal 2017 è libera ha scontato il suo debito con la giustizia e si è rifatta una vita .Ed ha ottenuto aiuto e perdono dal padre al padre di una sua vittima Mariangela Pezzotta .
  da   questo articolo    di  https://www.corriere.it/sette/attualita/  del 31 maggio 2019
[...] Silvio Pezzotta, 71 anni, da Somma Lombardo, ex impiegato all’aeroporto di Malpensa, è il papà di Mariangela, una delle vittime delle Bestie di Satana, la setta di ragazzi appena più che diciottenni che uccise quattro persone tra il 1998 e il 2004 convinti di agire per conto del  Maligno.
Elisabetta  Ballarin all'epoca  
E mentre tutta l’Italia e il mondo intero (la storia finì anche sui media australiani) leggevano increduli degli sgozzamenti, delle crudeltà, del sangue e dei crocifissi rovesciati, mentre fioccavano gli ergastoli e le condanne, Silvio Pezzotta spiazzò tutti. Si rivolse a Elisabetta Ballarin, una ragazzina che aveva partecipato all’uccisione di Mariangela con queste precise parole: «Quando avrà finito di scontare la pena, sappia che per lei la porta di casa mia è aperta».


 Una bellissima scelta   quella   del signor  Silvio . 

 da https://www.ilsussidiario.net/news/ho-perdonato-lassassina-di-mia-figlia-padre-di-mariangela-pezzotta-ecco-perche/2112944/  e  da   https://www.tv2000.it/beltemposispera/video/silvio-pezzotta-mia-figlia-uccisa-dalle-bestie-di-satana/

Sincero ed emozionante il racconto di Silvio Pezzotta, padre di Mariangela Pezzotta, ai microfoni di Giovanni Terzi per Libero. L’uomo ha ripercorso il dramma vissuto quasi sedici anni fa, quando a Golasecca la figlia venne uccisa dalla mano di Andrea Volpe – esponente di spicco delle Bestie di Satana – sotto gli occhi di Elisabetta Ballarin.





E proprio lei ha trovato il perdono del padre di Mariangela Pezzotta: «Ho sempre considerato Elisabetta una vittima di Andrea Volpe alla stregua di altri, solo che, per fortuna, lei non è morta. Alberto Ballarin mi chiamò dopo la morte di mia figlia, la mamma la frequentai ed era una donna distrutta; entrambi poi morirono, lasciando sola Elisabetta». Dopo la morte dei genitori, Silvio Pezzotta le andò incontro: «Elisabetta rimase sola ed io semplicemente le dissi, incontrandola in Tribunale: “Quando avrà finito di scontare la pena, sappia che per lei la porta di casa mia è aperta“».

IL PADRE DI MARIANGELA PEZZOTTA: “PERDONO L’ASSASSINA DI MIA FIGLIA”

Elisabetta Bellarin  oggi
frame  dal video https://bit.ly/39aVRnB 
Il padre di Mariangela Pezzotta ha spiegato di aver capito nel corso del processo quanto Elisabetta Ballerin fosse plagiata da Volpe – «il suo sguardo smarrito non lo dimenticherò mai» – e non è tutto: «Un mio amico insistette per vedere Elisabetta. Io alla fine accettai. Elisabetta scese dal traghetto che proveniva da Monte Isola, dove si trovava in permesso per lavoro. Mi vide e mi corse incontro, abbracciandomi e mettendosi a piangere. Parlammo molto, quel colloquio rimarrà riservato nel mio cuore. Ci capimmo e capii che quella ragazza aveva il diritto di rifarsi una vita». Dopo la morte della figlia, Silvio Pezzotta ha potuto contare sulla fede: «Sono stato accompagnato dalla fede, in questo percorso doloroso. Se una persona non ha Fede, si chiude in sé stesso e non riesce più a vivere.
Io però ho una fede semplice, non bigotta; a volte mi fermo in qualche chiesetta di campagna per dire una preghiera».

Ora   ci  vuole  oltre  che una  vera fede   una mente   aperta     per  perdonare  simili  cose   e   non sempre  ci si riesce  . Ma  quando ci si riesce   , ed è questo il caso ,  fa  di te   una  grande  persona  .  Capace   d'incanalare  il tuo dolore   in qualcosa  di  costruttivo  ed  allontanare  l'odio    ed  a  vendetta   da  sé  . Ha  evitato   di  d'unire  dolore  al dolore  ovvero     << prima di intraprendere il viaggio della vendetta, scava due tombe ( Confucio ) >>. Secondo me      ha  fatto una scelta  giusta   in quanto  Elisabetta    come  si   vede questi due video il primo 
 


il   second ( da  cui   ho preso il   frame   , riportato nella   foto  in alto    a   destra  )

    SCONSIGLIATO PER I DEBOLI DI  STOMACO 
 

    
ha  capito   i suoi errori    ed   era  stata ,  questo  non vuol  dire  che  non sia  stata   innocente  ,  plagiata   ed ha  pagato  per  le  sue  colpe  . Ed   adesso  è  una persona  nuova   ed  diversa , il carcere  ed   il lutto  ( ha  perso  i suoi  genitori  )   ti  cambiano  .  Come   dimostra  anche i video   soprattutto il primo  




 Romanzo    suggerito    
Il conte di Montecristo (titolo orig. Le Comte de Monte-Cristo)  di Alexandre Dumas

23.1.21

27 gennaio e 10 febbraio sfatiamo la vulgata che non ricordare in modo ufficiale voglia per forza dire dire negare o giustificare tali bruttezze

  Poichè  le  due    giornate  ( anche se   si dovrebbe parlare  di settimane   )  " rompi  " sono    vicine  e   spesso  , sic  ,  vengono celebrate  insieme  ho  deciso  di  portarmi avanti  🤣😃 e  di  bloccare  per    evitare  che  finisca     come in chiedi alla  polvere  di  J.fante  o   perso  fra  la  cronologia  internet  ,  un post  sul   10m febbraio    e    del perchè  lo celebro   .

Dopo  questo  spiegone  veniamo  al post  

 Anche se  sono  critico   verso  il  10 febbraio ricordo  tale   evento   e  cerco  di sfatare  la  vulgata   come    che  e cercar di capire cosa accadde nell'Adriatico in quegli anni e  farsi un idea   diversa   da  quella  ufficiale   non vuol dire necessariamente  giustificarla o    negarla  .La cristallizzazione istituzionalizzata   delle  memoria    delle  vicende   delle  foibe  in una ricorrenza nata a qualche anno dall'istituzione del Giorno della Memoria contiene in sé un'irrisolvibile contraddittorietà. Il 10 febbraio l'Italia si ferma a ricordare una comunità sradicata dal proprio territorio e accolta a fatica nel seno della nazione. Lo fa in una data che è al tempo stesso l'inizio della fine per gli italiani adriatici e l'imposizione di un trattato come vinti per l'intero Paese. Agli occhi degli italiani, digiuni dalla Storia e dalla conoscenza delle terre di confine, il ricordo diventa rivendicazione, in continuità diretta, geografica e politica, con il mito  della “vittoria mutilata”. L'iter per l'istituzione della ricorrenza, al tempo stesso, ne marca il senso politico. “Colonizzata” dalla destra post-fascista, accettata dalla sinistra post-comunista in nome della “memoria condivisa” - lo scotto da pagare per la consunzione dell'utopia – questa data “dialoga” con il Giorno della Memoria, quasi fosse contrapposta allo sterminio nazi-fascista. "Pareggiare la storia", equilibrare le morti, presentarsi come vittime dimenticando deliberatamente d'essere stati carnefici. L'uso politico della storia strumentalizza la tragedia d'una comunità, acuendo le divergenze, impedendo la comprensione. Ma  soprattutto  

Non è ancora uscito, ma il libro "E allora le foibe?" suscita già polemiche. Gobetti: "Sul tema si è imposta verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni"

Lo storico Eric Gobetti è stato nuovamente al centro di attacchi da parte dei giornali e delle organizzazioni di destra per un libro che uscirà il 14 gennaio, intitolato "E allora le foibe?". Non è la prima volta che il suo lavoro di ricerca viene criticato perché in contrasto con la narrazione dominante sulle vicende del confine orientale. "Sul tema si è imposta una verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni. Chi la mette in discussione è tacciato di negazionismo"


Infatti    concordo  con    quanto  dice  qui    su  https://www.ildolomiti.it/societa/2020 Raul Pupo uno  degli storici  citati   dai  "  seguaci  "    del  10  febbraio ufficiale  . 

 


Professor Pupo, cosa avvenne nel confine orientale negli anni della Seconda guerra mondiale e cosa si celebra nella ricorrenza del Giorno del Ricordo? 

È un periodo lungo quello che si ricorda nella celebrazione del Giorno del Ricordo, così come diversi sono i fenomeni al centro di questa ricorrenza. Si parte con gli infoibamenti, un'espressione in cui è forte la tendenza a semplificare e all'uso pubblico della storia. Si indicano le stragi avvenute a ondate nell'autunno '43 e nella primavera/estate del '45. Si ricorda poi l'esodo, un fenomeno lungo cominciato con lo sfollamento di Zara nel 1943 e concluso nel 1956. Vi sono poi le altre vicende del confine orientale, per cui si va indietro all'occupazione italiana. Complessivamente nel Giorno del Ricordo si commemora il collasso dell'italianità adriatica, di un intero gruppo nazionale, che per il 90% decise d'emigrare. I numeri precisi non si conoscono, si parla di alcune migliaia di scomparsi, tra i 3000 e i 5000, e di 300mila esuli. Sul tema, Italia, Slovenia e Croazia diedero vita a commissioni d'esperti, che si conclusero nel caso italo-sloveno mentre è rimasta in sonno quella italo-croata. Alla pubblicazione in Slovenia, in Italia non corrispose una pubblica comunicazione. Il Ministro degli Esteri, comunque, lo ha lasciato a disposizione degli studiosi. Su questo “collasso” vi è poi stato il tentativo di colonizzazione da parte della destra, un uso politico che si è inserito sullo spirito originario della legge di recupero e valorizzazione di una memoria per lungo tempo rimossa dalla scena pubblica. 

Uso politico della storia e semplificazioni nel linguaggio segnano questa ricorrenza. Non è forse l'accento sulla memoria a determinarne la problematicità? 

Sulle vicende di giuliani, istriani e dalmati ha operato per lungo tempo una generale amnesia, a partire dal dopoguerra. Per gli esuli e i parenti degli scomparsi è rimasta una ferita. Il Giorno del Ricordo agisce in questo senso su un lutto non elaborato, recuperato e valorizzato, come detto, ma su cui poi si è prepotentemente inserito un uso politico. L'utilizzo di un linguaggio banalizzante e semplificatorio ne è l'esempio. Si parla tanto di foibe perché impattano maggiormente sull'opinione pubblica, ma nella categoria di infoibati si comprendono anche persone uccise in altri modi o scomparse. Si parla di pulizia etnica, ma se fosse stata davvero una pulizia etnica ci sarebbero attualmente in quei territori circa 100mila italiani. Infatti quando parliamo di italiani in questi territori ci riferiamo a italiani d'elezione, non a italiani etnici. Paradossalmente “pulizia etnica” è un termine riduzionista, una semplificazione che finisce per essere un boomerang per chi la fa. Si guardino i cognomi degli esuli, ci si renderà conto di questo concetto. Con l'istituzione della legge il racconto di queste storie è delegato alle associazioni di profughi, variegate al proprio interno, alla rete degli istituti della Resistenza e agli enti locali. È chiaro che in quest'ultimo caso le maggioranze politiche influiscono in modo più o meno evidente. La problematicità delle iniziative, d'altronde, si ritrova proprio nell'accento che si fa sulla memoria. Nella caccia ai testimoni, sempre di meno, si mettono in difficoltà queste persone. Non si può, in aggiunta, far spiegare da un figlio di un infoibato come funzionano le stragi. Bisognerebbe che ci fosse sempre uno storico o un esperto accanto al testimone, perché va bene quando la memoria fa memoria, ma quando la memoria fa la storia è un disastro. 

Tutti gli anni, a margine del Giorno del Ricordo, il dibattito pubblico viene percorso da opposte prese di posizione che negano o ingigantiscono il fenomeno degli infoibamenti. Quanto e perché è problematica questa ricorrenza?

La scelta del 10 febbraio è tutta politica. Nello spirito delle associazioni dei profughi è una data che segna l'inizio della tragedia, una data simbolicamente molto forte. Dal punto di vista storico, però, è estremamente problematica. Il governo italiano è oggetto del Trattato di pace, l'Italia è un Paese sconfitto e sul banco degli imputati. C'è inoltre il grosso limite d'essere vicini al Giorno della Memoria, segno che tra alcuni proponenti ci fosse l'idea di metterli sullo stesso piano. È una data infelice, se ne deduce, ma non era facile trovarne un'altra. Le ricorrenze si pongono spesso all'incrocio tra due fenomeni: la ricerca dei testimoni e il vittimismo come esaltazione della vittima. Queste due ricorrenze ne sono il simbolo. Riguardo ai diversi atteggiamenti nei confronti dei fenomeni al centro di questa ricorrenza, nel mio libro del 2003 ("Foibe", scritto con Roberto Spazzali) vengono avanzate alcune categorie come quelle di “negazionista” e “riduzionista”. Categorie scivolosissime da usare con attenzione, visto che il negazionismo è un reato punito per legge, e che rischiano d'essere utilizzate per ogni critica. C'è un grosso equivoco, a mio giudizio, e consiste nel fatto che cercar di capire cosa accadde nell'Adriatico in quegli anni non vuol dire giustificare.

  

lo ricordo oltre a quanto  ho già detto precedentemente  nei post  preparatori  [  I II  ]  a  tali  giornate   perchè : 1) combatto l'uso strumentale  e politico      di  tali  complesse  e dolorose  vicende  ., 2) perchè  essendo  La memoria, come un fiume carsico, percorre le profondità della terra prima di ritornare alla luce. E quando lo fa, spesso, è prorompente. La memoria degli italiani adriatici, silenziata e rimossa nell'Italia del dopoguerra - lacerata dalla guerra civile, ferita da vent'anni di regime, spaccata politicamente e socialmente dalla Guerra fredda - è esempio significativo. ed  io    sono cresciuto   con  ciò . Da  un lato  mio nonno e  i miei  prozii paterni    che   coltivavano  la  vulgata   come  eccidi    comunisti    sulle  foibe      e  mio padre  e mio  zio     che la contrastavano  . 3)   perchè ancora    non si è  fatto  i conti  con il nostro passato   dimenticando che siamo stati "noi"   ad  averle  innescate   e  poi   tacerle    ed  ora  usarle  strumentalmente   Ma  soprattutto   

Smontare la narrazione ufficiale e i miti cristallizzati attorno alle complesse vicende del confine orientale diviene così di decisiva importanza per la memoria pubblica del nostro Paese. “Ai problemi complessi vanno date risposte complesse – conclude – se non creassimo dunque un Olimpo di martiri, con date e così via, avremo un Paese più libero e democratico”.  (   Eric Gobetti    su https://www.ildolomiti.it/societa/2021  ,  di cui  ho citato  sopra  l'incipit  , per   l'articolo   integrale  qui 

al prossimo 10  febbraio  


le donne nei lager e i lagerbordell

in sottofondo
  • Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in si bemolle minore, op. 23 di Pëtr Il'ič Čajkovskij in  particolare la  parte l'allegro ma     non troppo e  molto maestoso 

  come promesso precedentemente  nel post    il dovere  di non dimenticare ecco a voi   il  post   sulle  donne  nei lager  

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz e ogni anno in questa data, divenuta simbolica, si celebra il Giorno della Memoria in cui si ricorda uno dei periodi più bui dell’umanità: la pianificazione dello sterminio di ebrei, disabili, oppositori politici, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, asociali, apolidi. Quando si parla , se se ne parla della deportazione femminile non possono essere dimenticati l’orrore e le ferite che i nazisti hanno inflitto alle donne e occorre ricordare il sacrificio e gli atti di resistenza messi in atto dalle deportate di tutta Europa, ebree e politiche, soprattutto durante il lavoro forzato nella fabbrica della Siemens. Raccontata magistralmente da Donatella Alfonso .con la collaborazione di Laura Amoretti e Raffaella Ranise in Destinazione Ravernsbruck -l'orrore e la bellezza nei lager delle donne ( foto della copertina a sinistra ) .
Ma  soprattutto   Le vicende accadute a Ravensbrück sono tra quelle che ricorrono meno nel Giorno della Memoria. Infatti  << Sino alla fine della guerra fredda, quindi all’inizio degli Anni Novanta, pochi sapevano della sua esistenza >> secondo quando  dice  Stefania Delendati  in questo articolo    su    http://www.informareunh.it/  di    <<  Le sopravvissute si vergognavano di raccontare, come se fosse stata colpa loro, e se lo facevano venivano additate come “bugiarde”, o peggio “complici”, accusate di essersi concesse volontariamente al nemico per salvarsi.
Tra le prime a sentire il dovere di tramandarne la testimonianza, ad avere il coraggio di farlo in un clima ostile e in anticipo sui tempi, fu un’italiana, Lidia Beccaria Rolfi, che arrivò a Ravensbrück il 30 giugno 1944, a bordo di un carro bestiame. Era partita quattro giorni prima dalle Carceri Nuove di Torino nelle quali aveva trascorso due mesi di angoscia, fra torture e minacce di morte, insieme ad altre donne in una cella sovraffollata.
Lidia era una maestra di Mondovì, staffetta partigiana dall’età di diciotto anni con il nome di “maestrina Rossana”; quando non insegnava fabbricava bombe a mano in casa e le nascondeva sotto il letto. Quando giunse in Germania, le parve perfino una liberazione, niente sarebbe stato peggio di quello che aveva passato, pensava, mentre incolonnata a piedi con le compagne marciava per i quattro chilometri che separavano la stazione ferroviaria dal campo.

Donne internate nel lager di Ravensbrück, in quella che oggi è considerata la “capitale” delle atrocità commesse dal nazismo nei confronti delle donne, tante delle quali con disabilità.

Ravensbrück si presentò con un alto muro sormontato da torrette di guardia e filo spinato elettrificato. Quelle donne che varcarono il portone furono le prime italiane non ebree ad essere internate.
L’impatto è ben descritto da un’altra superstite, Mirella Stanzione: «Il lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano. Sulla piazza del lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche, e molte sono rapate. Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli, tutte però hanno ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica».
Mirella Stanzione è una delle pochissime
donne italiane internate a Ravensbrück ancora viventi.
Per le deportate politiche come Lidia e Mirella il triangolo era rosso. La sorte peggiore toccava alle lesbiche, loro non “meritavano” neppure il triangolo rosa riservato agli uomini omosessuali negli altri campi. Erano insignificanti in quanto donne con l’aggravante di un comportamento “deviato”, pertanto passibili di ogni brutalità.
Lo scopo principale era annientare la dignità e l’identità delle prigioniere, tutto concorreva a raggiungere l’obiettivo. A partire dalla fame, il bisogno primario di cibo e l’istinto di sopravvivenza creavano conflitti fra le detenute. Il resto lo facevano il freddo, la sporcizia, il lavoro massacrante, le botte e le umiliazioni. [.... ]  segue  qui > . 




Di tutte le testimonianze aberranti sul trattamento disumano riservato nei campi di concentramento, il Lagerbordell è quella che ha avuto meno risonanza e che si è tentato di tenere nascosta il più possibile.


Nell’ottobre del 1941, durante una visita nel campo di concentramento di Mauthausen (famoso per essere l’unico campo di “classe 3”, cioè di punizione e di annientamento attraverso il lavoro), il capo delle SS Heinrich Himmler, in vista della scarsa produttività dei prigionieri dovuta soprattutto alla denutrizione, propose un “incentivo al lavoro”, un “bonus” sulla scia dei Gulag di Stalin: i lagerbordell.
I sonderbauten, traducibile con “edifici speciali”, erano a tutti gli effetti dei bordelli nei lager. L’obbiettivo della costruzione di questi spazi era quello di dare un incentivo ai lavoratori forzati ma, soprattutto, quello di debellare i casi di “degenerata” omosessualità, sempre più frequenti tra i prigionieri. Furono costruiti in dieci campi di concentramento: Mauthausen, Gusen, Flossenbürg, Buchenwald, KL, Dachau, Neuengamme, Sachsenhausen, Mittelbau-Dora e nel più grande, Auschwitz, che vantava ben 21 ragazze.
Le donne reclutate per i Lagerbordell (definite “antisociali”) venivano principalmente dai lager di Auschwitz e Ravensbrück: prostitute rigorosamente tedesche o provenienti da paesi occupati come Ucraina, Polonia e Bielorussia. Categoricamente escluse erano invece le italiane e le ebree, ritenute non degne in quanto prive di “sangue ariano”. L’età media delle donne scelte era 23 anni, tutte comunque sotto i 25. Dopo diverse violenze e stupri, venivano obbligate a prostituirsi con la promessa di libertà una volta passati sei mesi di lavoro, promessa ovviamente mai mantenuta. Venivano spesso sodomizzate e brutalmente abusate dalle guardie o dagli stessi prigionieri, che nonostante la fame riuscivano a trovare le forze per pochi minuti di sesso.

Una foto scattata nel campo di concentramento di Ravensbruck

Dal 1943 entrò in vigore il “Regolamento per la concessione di agevolazioni per i prigionieri” che concedeva alle prostitute una maggiore razione di cibo (anche e soprattutto offerto dai clienti) e un orario di lavoro ridotto rispetto a quello delle altre donne internate: dalle ore 20:00 alle ore 22:00 eccetto la domenica, con un ulteriore turno pomeridiano.
Ad usufruire di questi bordelli erano i detenuti-funzionari, i prigionieri “privilegiati” e i membri delle SS. Era vietato l’ingresso agli ebrei e ai prigionieri di guerra sovietici, mentre era concesso invece ai kapò. Per accedere vi era un lungo procedimento da seguire: l’interessato doveva prima presentare una domanda, essere inserito in una lista d’attesa, essere convocato per un appello, sottoporsi ad una visita medica molto blanda al Revier ed infine farsi una doccia. Se privi di bonus il servizio costava 2 marchi. I tedeschi con le tedesche, i polacchi con le polacche: la selezione razziale era presente anche lì. Il rapporto andava consumato senza protezioni, non poteva superare i 15 minuti e l’unica posizione ammessa era quella del missionario. Una guardia SS monitorava tutto dal buco di una serratura, per assicurarsi che non venissero “infrante le regole”. Gli aborti erano davvero rari: le donne venivano immediatamente sterilizzate, senza anestesia, appena arrivate nel Lager.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la presenza dei lagerbordell è stata oscurata dalla memoria collettiva il più possibile. Sia perché le vittime hanno preferito non testimoniare, provando un profondo senso di colpa per essere riuscite a sopravvivere al contrario di tantissime altre donne, sia perché la Germania trovava “scomodo” affiancare all’immagine di un luogo di annientamento fisico e psicologico anche quello dello sfruttamento sessuale, di cui erano complici molti dei prigionieri incaricati di sorvegliare gli internati. Inoltre, le donne che durante il regime nazista furono costrette a prostituirsi non vennero mai riconosciute come vittime e furono considerate consenzienti, negando loro qualsiasi diritto ad un risarcimento.
Solo dopo gli anni ’90, finalmente, si iniziò a parlare dei Lagerbordell, grazie soprattutto alla meticolosa ricerca di studiosi e scrittori come Robert Sommer in “Das KZ-Bordell” («Il bordello nel campo di concentramento») presentato nel 2009 al parlamento della città-Stato di Berlino o Helga Schneider, autrice de “La baracca dei tristi piaceri”, romanzo tratto dalla testimonianza della sopravvissuta Frau Kiesel. Ancora oggi, però, in pochi conoscono questo lato del regime nazista. Un lato terribile che, visti soprattutto i tempi in cui viviamo, è necessario conoscere.

per  chi ha  stomaco  ed   vuole  approfondire  ecco alcuni link