7.9.22

chi lo dice che il nuoto sincronizzato sia solo femminile . il caso di Giorgio Minisini campione europeo di specialità





Giorgio Minisini: "Soprattutto non chiamatemi sincronetto"

di Alessandra Retico
Giorgio Minisini (26 anni), in gara. FILIPPO MONTEFORTE/AFP via Getty Images

Per farsi strada in un nuoto artistico tutto al femminile, ha lottato contro nomignoli e pregiudizi. Ora, forte dei quattro ori agli Europei, sogna le Olimpiadi di Los Angeles. Intervista

Un'orca col tutù. Giorgio Minisini a sei anni la guardava disegnata sulle liste gara. "Mi turbava. Mi sentivo invisibile. In più, lo speaker ci chiamava tutti 'atlete'". Era l'unico ragazzo del nuoto artistico (conosciuto come nuoto sincronizzato fino al 2017). Un precursore. Discriminato: da ambosessi. Lo chiamavano sincrofrocio a scuola. Ha dato un pugno per dimostrare il contrario, poi mai più: "Informare è l'unico modo per abbattere i pregiudizi". Ha lottato anche contro se stesso e i pensieri cupi: si vedeva basso, grasso, non si piaceva. Problemi col cibo. È dimagrito, anche per piacere ai giudici. Ha chiesto aiuto a uno psicologo: "Ho imparato ad accettarmi". Ora che ha 26 anni e vinto (quasi) tutto, balla per abbattere gli ultimi tabù. Ha un sogno: le Olimpiadi. I maschi del suo sport, che hanno esordito ai Mondiali di Kazan 2015 nella specialità del misto in coppia con una donna (la sua partner in vasca è adesso Lucrezia Ruggiero) e nel singolo agli Europei di Roma dove Giorgio ha vinto quattro ori in totale, non sono ancora ammessi ai Giochi. Forse, ci riusciranno a Los Angeles 2028. Romano di Ladispoli, poliziotto, fidanzato con la saltatrice della Nazionale, Enrica Piccoli, figlio di Roberto, giudice di gara e di un'ex sincronette, Susanna De Angelis, sua prima allenatrice. Anche la sorella Diana è un'ex allenatrice e per seguire il fratello Marco, ora pallanuotista, Giorgio è diventato quello che è. Altro che sincronetto, una definizione che combatte e alla quale preferisce "nuotatore artistico". Ma è di più: un pioniere, anzi un rivoluzionario.  

Cominciamo dagli inizi?
"Mio padre era caporeparto di una Coop a Cerveteri, mia madre allenatrice di sincronizzato ed ex sincronette. A quattro anni sono andato a vedere Bill May che si esibiva a Roma. Rimasi sconvolto, per lo show e per le reazioni del pubblico. Decisi lì con mio fratello, due anni più grande di me, che volevamo diventare come la star americana, tutti gli chiedevano autografi. Sapevamo bene che il nuoto artistico era frequentato solo da donne, ci sembrava un'occasione ghiotta per noi, nessuno stava approfittando di una strada libera e aperta".

I vostri genitori non hanno mai avuto dubbi?
"Zero. Mia madre felicissima perché nuotavamo nella sua squadra, mio padre ancora di più perché lui ha iniziato a fare il giudice per stare di più con noi. Siamo diventati una famiglia ancora più unita grazie al nuoto artistico. I primi anni sono stati molto divertenti, oltre a me e mio fratello c'erano altri cinque ragazzi, compreso un cugino, eravamo un gruppo di scalmanati, sette maschi tutti insieme in un mondo di femmine".

Poi?
"Mi sono ritrovato da solo ed è stato molto diverso. Tutti hanno mollato, compreso mio fratello che ora gioca a pallanuoto col Civitavecchia e lavora nell'edilizia. Senza di lui, che era stato la mia guida, la mia strada si è complicata e si è riempita di ostacoli".

Quali?   
"Le orche col tutù, per esempio. Dettagli che adesso mi fanno sorridere, ma a quell'età un po' ti turbano. Era un po' come dire: non me ne importa niente che tu sia qui. Il fatto che io fossi l'unico maschio e che lo speaker chiamasse tutti noi 'atlete' e la categoria 'ragazze', mi ha sempre fatto pensare che chi si occupava di queste cose non prendeva minimamente in considerazione il fatto che io esistessi. Mi sono sempre sentito invisibile. Il periodo delle medie e del liceo è stato tra i più complicati perché è quello in cui costruisci la tua identità e molti lo fanno a danno degli altri. È normale, ma è difficile se il danneggiato sei tu. Chi doveva dimostrare di essere uomo lo faceva attraverso di me. Evidentemente non ero così uomo visto lo sport che facevo".

Cosa le è successo?
"Mai cose gravi, a parte i nomignoli, tipo sincrofrocio, e le battute. Ma ho sempre cercato di evitare lo scontro, il mio maestro di taekwondo, che ho praticato per dieci anni, mi diceva che se mai fossi arrivato a mettere in atto quello che mi insegnava, avrebbe significato che avevo già perso. Solo una volta, a dodici anni, ho dato due pugnetti, e pure male, a uno che mi prendeva in giro perché ho anche l'erre moscia. Un'esperienza così spiacevole che non si è più ripetuta. Non ho rancori, credo che certi atteggiamenti siano causati dall'ignorare le cose. Certo, ci sono stati tanti momenti in cui ho avuto paura che stessi sprecando la mia giovinezza. Che il mio era un sogno impossibile. Ma ho sempre conservato l'idea del futuro, che un giorno sarebbe andata meglio".

Nessuna gelosia o sospetto da parte delle donne?
"C'erano persone agli inizi, tra atlete, allenatrici e giudici, che mi facevano capire che non ero ben voluto, che da maschio non ero nel luogo giusto. Mi sono sentito un corpo estraneo per molto tempo. Mi dicevano che toglievo posti alle ragazze. L'intolleranza non ha età né genere, si combatte con l'informazione, la mia posizione è migliorata parlando del mio sport e della mia storia. Le compagne di squadra mi hanno invece sempre accolto bene. Unico problema: mi accollo tutte le colpe del genere maschile. Ho scoperto prima degli altri maschi che, al di là della differenza di genere, le donne sono delle individualità, ognuna a suo modo diversa dall'altra".

Giorgio Minisini (26 anni) e Lucrezia Ruggiero (22) con le medaglie d’oro vinte agli Europei di Roma il 15 agosto. getty images
Giorgio Minisini (26 anni) e Lucrezia Ruggiero (22) con le medaglie d’oro vinte agli Europei di Roma il 15 agosto. getty images 

E nelle relazioni amorose?  
"Una fatica. Con le ragazze che mi piacevano, prima dovevo dimostrare di non essere gay, poi riuscivo eventualmente a vivermi la relazione. Solo crescendo e con l'aiuto del mio psicologo, Stefano Tamorri, ho cominciato a capire: quello che pensano gli altri non cambia quello che sei. E anche se fossi stato gay, quale sarebbe stato il problema?".

Quindi, qual è stato il problema?  
"Accettarmi. Per tanti anni ho visto in me cose che non mi piacevano e mi disturbavano e ho sempre pensato che se un giorno fossi diventato qualcuno sarei riuscito ad accettare il fatto di essere alto 1,76 anziché 1,86 e di essere timido. Invece, un oro non ti cambia. Ai Mondiali di Budapest 2017 con Manila Flamini vinciamo l'oro nel duo tecnico, medaglia storica per l'Italia. I russi, d'argento, protestano perché in giuria c'è mio padre anche se il suo voto non è decisivo, annulla semplicemente quello del collega avversario. Eppure, sto malissimo. Tutto l'anno successivo è stato un dover dimostrare che l'avevamo meritato. Ho avuto problemi col cibo, adesso peso 75 chili, ero arrivato a 67. Se non vincere un Mondiale, cos'altro avrebbe potuto cambiarmi? Nel nostro sport è difficile capire come ti valutano: ai campionati di Gwangju 2019, dopo l'argento, i giudici dicono che negli elementi tecnici non c'era passione. Pensi: se fossi più leggero apparirei più alto. E non mangi per essere più magro possibile. Se ho sofferto di depressione? Non mi è mai stata diagnostica, quindi non uso una parola così delicata".

Come ne è uscito?
"Scardinando l'impianto di tutta la mia vita: da unico maschio in questo sport, e pensando di dover dimostrare di non essere gay, di fatto non sono mai stato me stesso. Il ragazzo che aveva iniziato a nuotare per la sola felicità di migliorarsi e della sfida. Ho cercato e ritrovato quella verità e quella gioia". 

Chi è Giorgio Minisini?  
"Faccio nuoto artistico, un cambio di nome che descrive l'evoluzione del nostro sport rispetto a vent'anni fa quando la sincronia era la base. Ora ci sono esercizi più vari, complessi, slegati, come nel pattinaggio artistico. C'è più prestazione e valore atletico, velocità. Mi alleno una media di 8 ore al giorno, dalle 6.30 del mattino: piscina, palestra, apnea, cura delle espressioni. Tifo Milan e ho sempre ammirato i grandi campioni che durano nel tempo: Maldini, Phelps, Bolt, Vezzali, Cagnotto. Vivo da solo, ho comprato casa a Roma sulla Cassia. Ho venduto la mia moto Duke 125, guido una MiTo a gas. Fidanzato con Enrica Piccoli, fondamentale condividere con chi sa cosa fai. Non ho tatuaggi. Ho mille passioni: zoologia, fisica, politica, manga, anime, fumetti. Leggo audiolibri nel traffico a Roma, mi piace la saggistica: Outliers di Gladwell e Giocati dal caso di Taleb. Per avere nuovi pensieri da utilizzare nella mia vita".

Nuovi pensieri?  
"Il futuro. In Italia il movimento al maschile cresce. Nel singolo siamo 10, nei doppi misti qualcuno in più. Ci sono ragazzi talentuosi in tutte le categorie, dal Nord al Sud del paese. È bello sapere che ci sarà qualcosa dopo di me e che avrò un testimone da passare. Io spero nei Giochi di Los Angeles, lavoro con questo obiettivo in testa. Non devo resistere sei anni, ma ho sei anni di opportunità. Voglio da sempre un'Olimpiade da protagonista, non per partecipare, ma per essere la prima scelta dell'Italia. A me piace molto l'astronomia, da piccolo volevo fare l'astronauta. Quando l'America era in difficoltà nella corsa allo Spazio contro l'Urss, puntò alla Luna dicendo 'tanto è così lontana e ci vorrà così tanto tempo che è come se partissimo da zero'. Ecco, Los Angeles è la mia Luna".

Il velo di Safiya al Sayegh batte (in volata) i pregiudizi

 

  dal  venderdi    di repubblica  del 2\9\2022

 Al Sayegh è la prima emiratina nel ciclismo di vertice. Gareggia coprendo capo, braccia e gambe: "È un mio diritto. Ogni donna deve essere libera di scegliere"

Safiya al Sayegh (a sinistra) è con alcune compagne dell’Uae Team. La ciclista di Dubai è nata il 23 settembre del 2001. Quest’anno ha vinto il Campionato nazionale degli Emirati Arabi in linea e a cronometro (Manuela Heres) 


Safiya indossa il velo e corre in bicicletta. È nata a Dubai tre anni e due giorni dopo il suo idolo Tadej Pogacar e negli Emirati è già un mito e un esempio. Safiya al Sayegh è la prima donna araba nel ciclismo di vertice. Indossa l'hijab sotto il casco e corre con braccia e gambe coperte, cerca la Mecca con lo sguardo e prega prima e dopo l'arrivo. Sorride molto a chi le chiede "perché proprio il ciclismo?", "perché no?" risponde lei, con naturalezza, facendosi grande nelle sue piccole spalle.

Perché no, in effetti, in quell'angolo ricchissimo del mondo che sta spalancando le sue strade spazzolate dal vento e accarezzate dalla sabbia all'arte occidentale dell'andare in bilico su due ruote sottili? UAE, sigla degli Emirati Arabi Uniti, è anche il nome del team di Safiya, la sezione femminile della UAE di Pogacar. Safiya di strada deve farne ancora tantissima. Ma ha vent'anni e molto, per lei, deve ancora succedere.

Come è nata la sua passione?
"Sono figlia di due culture molto diverse. Sono nata a Dubai da padre emiratino e madre inglese e provengo da una famiglia sportiva. I miei genitori mi hanno sempre incoraggiata a fare sport e sono presenti nella maggior parte delle mie gare. Sono la più grande di tre sorelle. E a marzo ho vinto due gare, il Campionato nazionale degli Emirati Arabi, sia in linea che a cronometro".

Oltre al ciclismo, che cosa c'è nella sua vita?
"Studio graphic design, sono al terzo anno. Vorrei diventare una designer e lavorare nel mondo della grafica e della pubblicità".

Qual è il suo rapporto con l'Islam?
"Sono profondamente religiosa. La fede è un modo per farci vivere questa vita nel modo corretto, per essere vicini al nostro Creatore e faccio del mio meglio per mantenere questa connessione spirituale il più possibile".

Che cosa rappresenta per lei il velo?
"Indosso il mio hijab per il mio bene. Non sono obbligata a indossarlo da nessuno e non lo indosso per compiacere la mia famiglia, ma per me stessa. Indosso il velo tutto l'anno, tutti i giorni e non lo trovo un problema per la mia carriera sportiva. Spero che ogni donna in tutto il mondo possa inseguire ciò che ama senza che sia un ostacolo per lei. Certo, nel ciclismo è più dura che in ogni altro sport per via del caldo, ma con la fede e se sai di star facendo qualcosa di importante e bello, tutto si supera".

In alcune culture il ciclismo viene considerato disdicevole per una donna. Ha mai avvertito questo stigma sul suo sport?
"No, mai, a Dubai le donne sono assolutamente libere di praticare qualunque sport. Io lo faccio in ogni momento libero dai miei impegni di studio. In città c'è uno splendido Cycle Park e se voglio allungarmi raggiungo il Jebel Jais, dove all'UAE Tour quest'anno Tadej Pogacar ha vinto una bella tappa. Lui è il mio modello, un ragazzo straordinario e molto simpatico. E poi corre con i miei stessi colori".

In Francia c'è una proposta di legge per impedire l'utilizzo dell'hijab durante la pratica sportiva e c'è un gruppo di calciatrici, le Hijabeuses, contrario a questo progetto. Lei cosa pensa?
"Credo che a una donna debba essere lasciata la scelta di usarlo o meno e non essere costretta per legge a rimuoverlo. Non ne capisco il senso, il fine. Indossarlo è un diritto. Possa Dio guidarci tutti e mostrarci la retta via in questa vita".

E lei come è approdata al ciclismo?
"Da bambina ho praticato nuoto e atletica. Intorno ai quindici anni mio padre ha acquistato una bici da città e anche grazie alla nascita del Dubai Tour e poi dell'UAE Tour il ciclismo è arrivato sulla porta delle nostre case. All'inizio mio padre era contrario, è uno sport duro, pericoloso. Sono arrivata al ciclismo per mezzo dello studio: studia, mi diceva, e potrai praticare lo sport che desideri. Non sono tantissime le ragazze di Dubai che praticano ciclismo, ma solo perché non c'è ancora una tradizione da noi. Cresceranno i numeri nei prossimi anni". 

Grazie a lei e al suo esempio, magari.
"Mi piacerebbe essere un modello per altre ragazze emiratine, sento comunque la responsabilità di essere un'apripista, una pioniera, ed è una cosa che mi piace. La mia squadra, l'UAE Team ADQ, ha tra i suoi obiettivi anche quello di far crescere un movimento nazionale negli Emirati. Il team è stato creato per condividere una visione e consentire alle donne di perseguire i propri sogni e diventare eroine in qualunque cosa vogliano. È davvero un piacere e un onore essere stata scelta per far parte di questo fantastico progetto".

Che cosa sogna per la sua carriera?
"Vorrei diventare la prima ciclista emiratina in gara alle Olimpiadi. Vorrei correre le grandi corse europee, le classiche, il Giro e il Tour. Ma soprattutto voglio rendere orgogliosi i miei genitori e restituire loro il bene e la fiducia che mi hanno dato. Amo far sorridere le persone e i miei cari, la vivo come una missione".

6.9.22

PROCEDURE PERFETTE E MISERIE UMANE - con Elvia Franco


Vorrei raccontare un episodio in apparenza minuscolo, ma che dietro ha la visione del mondo in cui siamo immersi.La stampa locale qui a Udine, ne ha parlato i giorni scorsi.
Si tratta di una bambina di 12 anni della periferia di Udine che per la prima volta nella sua vita prendeva l'autobus per andare a trovare un' amichetta all'altro capi della città. I genitori di entrambe erano d'accordo.
E la bambina entusiasta. Nella gioia di questa prima esperienza unita a quella di vedere l'amica, si è del tutto dimenticata di timbrare il biglietto. A una fermata è salito il controllore per vedere i biglietti di tutti. Arrivato alla bambina, non l'ha guardata in volto, non ha visto l' età, non ha badato alle sue lacrime e alle sue parole quando lei gli ha detto desolata che si era dimenticata di timbrare il biglietto e che era la prima volta che prendeva l'autobus da sola.
Il controllore le ha ritirato il biglietto e le ha dato una multa di 70 euro.
Il padre ha regolarmente pagato, ma ha commentato il comportamento del controllore: " - Si giusto multare chi fa il furbo, ma riguardo mia figlia perché non l'ha fatta timbrare il biglietto, avvisandola di non dimenticarsi più di timbrarlo? - Concordo.
Ma l'azienda di trasporto ha replicato:“I controllori hanno svolto semplicemente il lavoro per il quale sono stati assunti. E l’hanno fatto con professionalità, educazione e rispetto. Non è compito loro valutare, scoprire attenuanti o verificare situazioni diverse.-Ecco un funzionario perfetto, che si attiene rigorosamente alle procedure, e fa il suo lavoro come si deve . Anche in classe molti insegnanti per ricevere lodi dal preside seguono le procedure didattiche e non guardano in faccia i ragazzi. Anche i medici fanno questo e non si accorgono che hanno dei volti davanti a loro. Volti che chiedono di essere accolti. Anche i nazisti, come Eichmann (La banalità del male della Arendt) alla fine non sono criminali perché obbediscono a comandi superiori ed eseguono perfettamente procedure assegnate. Il controllore della bambina e Eichmann hanno in comune lo stesso tratto: essere bravi esecutori di ordini altrui. Non sto dicendo cose scandalose.
Semplicemente noto che la struttura di fondo è la stessa. Non essere animati da capacità empatiche nella vita e nel lavoro, abbassa la società, la rende triste e trista. Ma questo è il clima generale che stiamo vivendo. L'autobus in cui è successo il fatto. È il tre. Il mio autobus.
 
Ora mi  chiedo  
che aggiungere a quanto scritto dall'amica faceboookiana elvira che   ha  già fatto un ottimo   commentoin cui ahime  i parallelismi che si posso fare sono tanti...mi viene in mente, fra gli altri, quello della giustizia..spesso ingiusta... ? se non povera piccola e vergogna controllore e azienda. Ormai si è persa l'umanità sul lavoro. Eseguono gli ordini senza utilizzare il proprio cervello. Sono diventati come automi. Vergogna. Infatti Spesso si eseguono gli ordini come i "robot", senza ascolto dell'altro ... anche quando l'altro è una bambina felice di assaporare una nuova conquista: percorrere un tragitto di strada in autobus da sola. Non c'è stato ascolto dal "robot" per quel biglietto non vidimato esibito ... ha pensato soltanto di spezzare la felicità di quel viaggio e di quell'arrivo dall'amichetta. Povera bambina, ignara che i "robot" hanno cuore di latta ... che sono privi di orecchie per le valide giustificazioni .  😡
 
 [...]
Il padre

“Mia figlia era sconvolta, non ha potuto replicare perché presa dal panico. Non si è potuta difendere, anche sapendo che dietro c'era la mamma con l'auto – afferma il padre della giovane –. Dove è finito il buon senso di un essere umano?”. Secondo il genitore, i controllori avrebbero dovuto avere un occhio di riguardo per la ragazzina, ma invece “hanno voluto fare cassa sulle spalle di una bambina indifesa. Potevano semplicemente farle timbrare il biglietto e dirle che la prossima volta le avrebbero fatto la multa se l’avessero ancora scoperta senza biglietto timbrato. Invece no. C’è modo e modo di fare il proprio lavoro, secondo me. Mia figlia ha sbagliato e la multa la pagheremo. Resta l’amaro in bocca di una situazione che poteva essere gestita diversamente. Non esistono più le persone di cuore”. La replica dell'azienda di trasporto locale non ammette dubbi: “I controllori hanno svolto semplicemente il lavoro per il quale sono stati assunti. E l’hanno fatto con professionalità, educazione e rispetto. Non è compito loro valutare, scoprire attenuanti o verificare situazioni diverse. Inoltre, su tutti i mezzi sono esposti i cartelli della nostra campagna di sensibilizzazione al rispetto delle regole che invitano i passeggeti a munirsi di regolare documento di viaggio e di ricordarsi di timbrarlo"


concludo  condividendo  quanto dice commentando   il  post  di  Elvira    Federica Cassola : << [...] Ha fatto bene il padre a replicare eppure mi vengono in mente la schiera di genitori che invece di sgridare un figlio se la prendono con quegli adulti (spesso gli insegnanti...) che a volte fanno anche bene e faticosamente il proprio lavoro... Chissà...magari quella ragazzina poteva giovarsi di più di un atteggiamento paterno (che poi non sappiamo quale sia stato verso la ragazzina...) che non squalificava del tutto l'operato giusto peraltro del controllore e che rimandava a lei le sue proprie responsabilità. Comunque uno scenario che offre molti spunti di riflessione .[...]  È uno scenario, come dici, che offre molti spunti di riflessione.
A una cosa però dico no: non si può ridurre un uomo a un esecutore perfetto di procedure dettate da altri. La coscienza in primis, come dice un commento più sopra . La coscienza e l'empatia. I neuroni specchio li abbiamo tutti. Non silenziamoli ! O consegnamo completamente il mondo al suo declino.>>
 grazie Elvia  ell'ottima riflessione   

verso la luce [ la malinconia può essere preziosa parte III fine ? ]

colonna  sonora  




Non potrai mai attraversare l’oceano se non hai il coraggio di perdere di vista la riva.
                                                         da facebook


La malinconia  e  la  tristezza         di cui  parlavo  nei post  precedenti (  I II )  sta passando  ed il  viaggio verso la luce   è  a buon punto     . Infatti   Ho   deciso   quale luce seguire   dopo    aver    toccato  l'oscurità .  la  vita   sta  rincominciando  ed  le  nubi  si stanno ( o quasi  )  dissolvendo  .  E  si ritorna  al  solito   tran tran     fino  alla prossima  batosta   o  gioia    dipende   da  cosa  troviamo   durante  il  cammino  . 
Indubbio  se    percorrere   una  retta via  o  una  via  contorta con curve perchè : <<  .... Ci vuole un fisico bestiale  \ il mondo è un grande ospedale\ e siamo tutti un po' malati  \ma siamo anche un po' dottori\E siamo tutti molto ignoranti sì, ignoranti sì  \ma siamo anche un po' insegnanti sai, insegnanti sai \Ci vuole un fisico bestiale \perché siam barche in mezzo al mare ... >>  L'unica     cosa  certa  (  vedere     meme   sinistra  )   è  quella  dell'uso  del   cuore  e dellla mente    anche  se  non  semre  ci si  riesce 

  galleria de  gli Anelli del  potere  prequel  del Hobbit  e  del signore  degli Anelli  
tratta dalla  pagina  di primevideo   sulla  saga 

Ma  questo fa  parte  del   percorso di ciascuno di noi l'importante  è andare perchè alla fine di viaggio  c'è  sempre  un  viaggio  da  rincominciare . Allenandoci    sia  mentalmente     che spiritualmente   perchè  
[...]
Ci vuole molto allenamento, allenamento sai,
per stare dritti contro il vento sai, contro il vento sai [...] 

  Ed  proprio  sule note    di    non  è  tempo  per  noi  di Luciano  Ligabue  l'ultima  della  colonna  sonora    del  post   odierno       vi saluto   e    al prossimo  post  












5.9.22

Una piastrina della II Guerra mondiale sulla spiaggia di Santa Severa: storia del soldato Norbert

 dopo la  storia     raccontata    su  queste  pagine  del messaggio  in bottiglia   contenente  una lettera 

d'amore  e  d'addio  trovata  nelle  acque d'Alghero      ad  un amica   ilmare o meglio a  battaggia  in questo caso restituisce  un  altra storia  avvicente       fortunatamente  alieto   fine  


Una piastrina della II Guerra mondiale sulla spiaggia di Santa Severa: storia del soldato Norbert

Daniel Ciofu e Alessandro Marinelli stavano "spazzolando" con il loro metal detector la spiaggia di Santa Severa, vicino a Roma, quando il tipico suono dello strumento ha indicato una possibile scoperta. Daniel si è piegato e dalla sabbia le sue mani hanno estratto un piccolo oggetto metallico che il mare ha conservato per 78 anni: la "dog-tag", ovvero la piastrina militare individuale, di un soldato americano che aveva partecipato allo sbarco di Anzio durante la seconda guerra mondiale.


 I due appassionati sono riusciti a contattare la famiglia del militare e hanno così scoperto che Norbert Martin Knight è sopravvissuto al conflitto, è tornato a casa, si è sposato e ha vissuto il resto della sua vita in compagnia della moglie e dei figli. "La prima volta che ho parlato con sua figlia lei è scoppiata a piangere", ha raccontato Daniel. "Per loro è stato come ricostruire un pezzo mancante della storia del padre", ha aggiunto Alessandro. I due adesso intendono riconsegnare agli eredi di Norbert Knight la piastrina ritrovata. "Questa tornerà a casa", ha promesso Daniel.

                              Di Francesco Giovannetti


Cacciatore uccide il suo cane ferito per non pagare le cure: Tosca era stata investita da un'auto

2 h fa il http://www.gazzettino.it/ tramite https://www.msn.com/it-it/notizie/italia/


Quanto vale la vita di un cane da caccia? A giudicare da quanto accaduto alla povera Tosca, non molto. Sì perché per evitare il pagamento delle cure veterinarie che avrebbero potuto salvare il proprio cane ferito, una femmina di segugio, il proprietario cacciatore, ha pensato bene di risparmiare e l'ha ucciso. Questa triste storia ha inizio un paio di giorni fa quando, a Costabissara, nel Vicentino, in località zona del Buron, una squadra di cacciatori decide di recarsi in campagna. Sono accompagnati dai loro cani, vogliono allenarli "al riporto" della selvaggina. Tutto sembra filare liscio, almeno per un po'. Poi, improvvisamente, Tosca il segugio, forse per la troppa foga, durante la corsa si trova fuori dal campo di addestramento e, tempo un attimo, finisce in strada. Sfortuna vuole che proprio in quel momento, si trovi a passare un'auto che la travolge. Il conducente non si ferma e la povera cagnolona, ferita dall'impatto, arranca. Nel frattempo, stando a quanto riportato dalle cronache locali, il proprietario non si accorge di nulla.

Un cacciatore con il suo cane (immag repertorio Ansa)
Un cacciatore con il suo cane (immag repertorio Ansa)© Ansa

Soltanto successivamente, una volta trovata, si rende conto di quanto accaduto. La cagnolina evidenzia un paio di fratture. La più grave, come ribadito successivamente da Enpa Vicenza, è quella che vede coinvolto il femore. A questo punto la storia si fa oscura. Per curare quella frattura, infatti, serve un urgente intervento chirurgico veterinario cui seguirà diverso tempo per il recupero. Un tempo e soprattutto un costo economico da sostenere non indifferenti. Già, ma cosa non si farebbe per il proprio fedele amico a quattro zampe? E invece niente. Sì perché, preoccupata, una persona vicina al cacciatore, stando a quanto ricostruito da Il Giornale di Vicenza, saputo del ferimento della bestiola, decide di allertare Enpa. Da lì, l'amara sorpresa. Giunti dal cacciatore, i due volontari inviati chiedono di Tosca. Il cane, infatti, sembra sparito. Ci sarebbe voluto un po' ma alla fine, il cacciatore confessa: Tosca l'ha uccisa lui, con un colpo di fucile alla testa, all'alba. Tutto, per evitare le costose cure mediche che probabilmente l'avrebbero salvata.
«Siamo di fronte ad un fenomeno, quello dell'abbattimento dei cani da caccia - ha commentato Renzo Rizzi ispettore di Enpa - che si verifica molto spesso». E ancora, «dai nostri dati abbiamo rilevato che oltre il 30% dei cani da caccia di proprietà, quando ormai vecchi o non servono più, vengono eliminati. Senza contare gli esemplari giovani senza microchip che finiscono dispersi chissà dove durante l'addestramento». Così, è morta Tosca, il segugio che non serviva più. L'uomo è stato denunciato. 


La dolorosa battaglia di Carlo Iannelli per la verità su suo figlio Giovanni , con i social come arma


Lo so che voi lettori/lettrici  sarete stanchi di leggere ancora di questa vicenda e vorreste sentire parlare d'altro o  nuovamente d'essa aggiornata . Ma



«Lo so che faccio la figura del rompic… – esordisce Carlo Iannelli   su https://bici.pro/focus/storie/   del  4,9.2022 – non sono un leone da tastiera, ma che cosa devo fare? Quale altro strumento ho per far capire che si sta perpetrando una grave ingiustizia, coprendo non solo chi è stato chiamato in causa, negando la possibilità di arrivare alla verità?».






quindi è per questo nonostante ne abbia parlato a più riprese queste pagine continuo a parlarne riportando l'articolo di Gabriele Gentili  04.09.2022 su https://bici.pro/focus/storie/

7 ottobre 2019. Quel giorno finisce, troppo troppo presto, la vita di Giovanni Iannelli, promettente corridore pratese vittima di una caduta all’87° Circuito Molinese di Molino dei Torti, gara under 23 in provincia di Alessandria. Quel giorno finisce anche la vita, per come era stata fino ad allora dedicata alla famiglia, al lavoro, al sostegno della passione del figlio, per Carlo Iannelli, avvocato toscano (padre e figlio sono insieme nella foto di apertura).

Iannelli correva per la Uniontrade-Cipriani e Gestri. Era un buono sprinter con doti di passista
La vita strappata a 22 anni
Ne inizia un’altra, che si tramuta ben presto in una lotta quotidiana, interminabile, per rendere giustizia a suo figlio. Un autentico inferno, fatto di aule di tribunale, carte bollate, documenti su documenti, un labirinto che non porta mai da nessuna parte.
Giovanni muore a 22 anni. Cade in volata, finisce contro un pilastro di mattoni, a meno di 150 metri dal traguardo. Le immagini tv, le foto scattate (in rete sono ancora disponibili) dimostrano chiaramente che pur essendo una gara nazionale (come se questo dovesse fare la differenza) non ci sono protezioni adeguate. Quelle protezioni minime necessarie per gestire in sicurezza un evento ciclistico, neanche le transenne se non per gli ultimi 40 metri.
La vicenda prende subito una piega strana: il rapporto dei Carabinieri segnala il loro arrivo sul luogo dell’incidente alle 16,15, la gara si conclude alle 16,24… Non vengono fatti rilievi, misurazioni, non vengono scattate foto né sentiti testimoni tra cui gli altri ciclisti coinvolti nella caduta. Sul verbale si scrive che Giovanni è caduto in maniera autonoma per l’alta velocità, in fase di sorpasso di altri corridori. Il rapporto della giudice di gara segnala che il corridore è stato “incauto”.

Il successo di Iannelli alla Coppa Caivano, seconda vittoria nel 2014

  Sempre   secondo   l'articolo   il  padre  Carlo   ha   dovuto  e  sta  subendo   un cammino    di umiliazioni

Questa è solo la prima umiliazione che deve subire Carlo. Nel corso dei mesi, delle udienze, delle arringhe ne arrivano tante altre, affermazioni  ciniche   e  poco rispettose   che fanno rabbrividire come quella dell’avvocato difensore del Comune di Molino dei Torti (chiamato a rispondere in sede penale insieme alla società organizzatrice, ai due direttori di corsa, presidente di giuria e Comitato Regionale Piemontese della Fci):



 «I genitori hanno altri figli e i nonni altri nipoti».

A tre anni di distanza, Carlo è provato, ma non domo: «Due anni dopo è arrivata l’archiviazione da parte della giudice di Alessandria – dice – negando così la possibilità di un processo. Ho percorso mille altre vie legali per far riaprire il caso, trovando spesso porte chiuse e, quando anche qualcuno si rendeva conto di quanto stava accadendo, si scontrava con il classico muro di gomma. Ricorsi rigettati senza neanche essere esaminati nel merito, appena ricevuti. Ma io non mi arrendo, lo devo alla memoria di mio figlio».
La vita di Carlo, che ha sempre vissuto nel ciclismo, da presidente di società a giudice di gara, affiancando quella sua passione al lavoro e corroborandola al seguito di suo figlio Giovanni, passa attraverso due binari. Uno è il costante impegno in sede legale per riuscire ad avere un processo dove finalmente si possa quantomeno discutere di quel che avvenne quel maledetto pomeriggio. L’altro passa attraverso i social.
Molti avranno fatto caso che su Facebook come su Instagram, sotto moltissimi post ciclistici ma anche di altri argomenti, compare Carlo che pubblica gli aggiornamenti su come sta andando la sua battaglia legale. Per certi versi sembra un novello Don Chisciotte, con uno smartphone al posto della lancia, unica arma per combattere uno status quo granitico.

Carlo Iannelli con in braccio Giovanni vicino a Marco Pantani. 

  Conconcordo   pur  non  avendo  conosciuto     solo telefonicamente     e via  email  il pare    con il  fatto       riportato   sempre  dall'articolo in  questione   che  

La sua storia per certi versi ricorda la tenacia con cui Mamma Tonina ha continuato a lottare, giorno dopo giorno, per arrivare alla verità sulla morte di suo figlio Marco Pantani.
«Io ho iniziato ad andare in bici guardando Marco – dice – custodisco in ufficio una foto con lui, mio fratello e Giovanni da bambino. Sono pienamente convinto che dietro la sua morte e le sue vicende precedenti ci sia stato un complotto, ma le similitudini si fermano qui, le circostanze sono troppo diverse».
Il dolore che traspare a ogni sua parola, tanto sofferta quanto soppesata, si mischia alla tenerezza alla domanda su chi fosse Giovanni Iannelli.
«Un ragazzo d’oro, corridore esemplare, che interpretava questo sport con una passione enorme, ma senza cedere mai a nessuna lusinga, a qualsiasi scorciatoia. Si era tesserato a 5 anni, ancor prima di avere l’età per gareggiare da bambino. Ha fatto tutta la trafila, ha iniziato a vincere al primo anno junior, vicino a Signa, battendo in un colpo il campione toscano Baldini e quello italiano Trippi.La 

La sua unica convocazione in azzurro fu a Roubaix, un’emozione enorme
«Un giorno al suo diesse Mirco Musetti arrivò la chiamata di Rino De Candido, selezionatore della nazionale juniores: voleva Giovanni per la Parigi-Roubaix di categoria. Mio figlio si ritrovò in squadra con Ganna, Affini, Plebani. Era entusiasta. In gara forò dopo 40 chilometri perdendo il treno giusto, ma volle finirla a tutti i costi, anche se fuori tempo massimo».
Il 7 ottobre saranno tre anni che Giovanni non c’è più. Carlo continua la sua battaglia: «Chiedo solo che un magistrato abbia il coraggio di andare contro il sistema, di esaminare tutte le carte. Di capire che quel giorno sono state commesse gravi mancanze che hanno portato alla morte di mio figlio e che le stesse sono state artatamente coperte. Io continuerò a lottare e a raccontare la mia battaglia».

ora      quando troverete i suoi commenti in fondo a qualsiasi post, o post   che mette  sulla mia bacheca   , credo   che  li guarderete in modo diverso…ed  non vi lamenterete  più  se   ripeterò sempre  la  sua  storia  e credo  che   che    condividerete    e  denuncerete   questo crimine giudiziario compiuto sulla pelle di un ragazzo Esemplare di un corridore Esemplare di 22 anni con la complicità con il concorso in primis della Federciclismo e quindi delle altre istituzioni sportive e non di questo Paese

4.9.22

[ la malinconia può essere preziosa parte II ] Autunno, stagione di passaggio





da  https://www.giltmagazine.it/



In attesa che gli effetti dell'auttunno   facciano la loro comparsa un temporale in lontananza allontana la malinconia e la tristezza che ti porti dentro ( ho già spiegato il perchè ) anche nei momenti di felicità . 
 
cosi   pure  un bagno nel mare non ancora non  auttunnale  

                                     







piccole librerie che ancora resistono

 




Jack, il cane libero: mascotte di Dolianova e star su Facebook

  unione  sarda   4\9\2022
                      Carla Zizi

Passo sicuro e andatura veloce di chi sa il fatto suo. Chi lo incontra al mattino sa già che difficilmente si fermerà per un saluto. Jack, il cane diventato da qualche anno la mascotte di Dolianova, è un abitudinario. Manto nero, screziato di marrone e muso leggermente allungato: si direbbe che abbia antenati bassotti ma quello che ammalia è lo sguardo buono ed eloquente. Scorrazza indisturbato per le vie del paese, rigorosamente sui marciapiedi, da mattina a sera. Libero Jack ha un padrone che lo


accudisce, è dotato di regolare microchip, è un animale educato e rispettoso. Ma è uno spirito libero: impossibile tenerlo in casa a poltrire. Ha necessità di uscire tutti i giorni per andare a trovare i suoi amici. La sua giornata inizia da una pasticceria del centro. «Jack fa spesso tappa qui, in genere beve un po' di latte, a volte il suo premio è un pezzettino di würstel che lui adora, ma gradisce soprattutto due coccole e un angolo dove riposare per qualche minuto – dice Susanna Corrias, banconiera del caffè di Piazza dei Pisani – noi, qui lo adoriamo. Abbiamo paura più che altro delle automobili. Corrono tanto, in paese. Jack lo sa e non è raro vederlo attraversare sulle strisce pedonali». A spasso Poco più in là, la passeggiata prosegue: seconda tappa al negozio di articoli per animali. Con un abbaio, dal timbro inconfondibile, segnala la sua presenza e Valentina Manca, titolare del negozio, accorre subito. «Se la porta è aperta, lui entra senza troppe cerimonie. Non sempre prende il suo biscottino, a volte passa solo per un saluto. Si siede, sonnecchia e dopo un po' riprende allegramente il suo giro». Una sosta davanti al supermercato, in pieno centro, è d'obbligo. I clienti abituali lo salutano e se non lo vedono si preoccupano. Chi invece ancora non lo conosce lo segnala sui gruppi social pensando al povero cagnolino smarrito in attesa del padrone che lo vada a recuperare. Il coro delle risposte non si fa attendere: «È Jack, spirito libero, torna a casa da solo. È la mascotte di Dolianova». La star Sui social è ormai un'autentica star: i post a lui dedicati compaiono a cadenza settimanale. Per non parlare delle tantissime foto che lo ritraggono nei suoi spostamenti quotidiani. Non c'è angolo del paese che non abbia esplorato, attratto talvolta da qualche cagnetta vivace: ecco perché per qualche giorno è possibile non incontrarlo in centro. Con la riapertura delle scuole però il suo itinerario, come ogni anno, subirà una variazione. «Quasi ogni giorno lo vediamo all'ingresso della scuola materna, poi si sposta alle scuole elementari – dice Anna Carrassi, bidella presso l'istituto di viale Europa – i bambini impazziscono per lui e lui ricambia in pieno tutto quell'affetto. Un mio collega, durante la pandemia, faceva il gesto di misurargli la temperatura suscitando l'ilarità di tutti». Arriva la sera: tra i tavoli dei locali della piazza Europa, Jack passeggia senza disturbare. Aspetta che qualche bimbo giochi con lui e se qualcuno gli allunga un assaggino, non lo disdegna. Poi, come di consueto, torna a casa a dormire oppure approfitta dell'ospitalità di qualcuno. Ma sempre al sicuro, protetto dall'affetto di un'intera comunità. 

2.9.22

da nuoro alle sfilate a miami Nadia Petite Ψ






 qui le  sue  creazioni  Nadia Petite Ψ | Facebook 


La psichiatra sassarese Laura Fumagalli in Iraq per aiutare i sopravvissuti a un genocidio e La favola di «Nadia Petite»: da Nuoro alle sfilate a Miami

 La psichiatra sassarese Laura Fumagalli in Iraq per aiutare i sopravvissuti a un genocidio
In missione con Medici senza frontiere in un villaggio colpito dall’Isis. «Si portano dentro il ricordo dell’orrore»

 l’agosto di otto anni fa: seicento uomini vengono uccisi a colpi di kalashnikov, le donne rapite diventano schiave e merce di scambio. La piccola stoica minoranza religiosa Yazida, nell’Iraq settentrionale,  vittima di un sanguinoso genocidio da parte dei terroristi dell’Isis. Una tragedia raccontata da “L’ultima ragazza”, il libro del premio Nobel Nadia Murad, che da quell’orrore ; riuscita a salvarsi. Otto anni dopo, Laura Fumagalli ha raccolto, ma in maniera diversa, storie di vite – ancora – strappate alla quotidianità .
Laura Fumagalli (al centro) assieme al resto dell'équipe
impegnata nella missione in Iraq



Laura le ha ascoltate dai letti di ospedale di un piccolo villaggio. I pazienti di fronte, che forse nemmeno sanno di essere tali, e lei, psichiatra, a cercare di capirli e farsi capire in inglese. Laura, 42 anni, di Sassari, rientrata da poco da una missione umanitaria per conto di Medici senza frontiere a Sinuni, in Iraq.  partita lo scorso gennaio, era la sua prima volta. Dice di aver bisogno di qualche mese per metabolizzare l’esperienza.
La cosa più; sorprendente, Laura Fumagalli la dichiara subito:La comunità yazidi \ una minoranza etnoreligiosa che ha subito nel 2014 il genocidio da parte dell’Isis, ma nella loro storia ne ha subiti ben 74. E nonostante ciò continua a essere aperta e disponibile col prossimo. Le persecuzioni continuano, ora hanno gli echi delle bombe. Racconta Laura che durante il suo servizio di sei mesi presso una piccola struttura ospedaliera, ci sono stati due episodi di bombardamenti particolarmente pesanti da parte della Turchia. La prima volta ci è tato dato ordine di evacuare, si stava formando un corridoio di sicurezza ma era notte, una situazione pericolosa, e siamo rimasti nell’ospedale – dice la psichiatra –. La seconda volta è stato bombardato un edificio a un minuto da noi. In entrambi i casi vedevamo i miliziani sparare dai tettiLa guest house di soccorso era per\u0026ograve; marchiata Medici senza frontiere: I bombardamenti erano precisi, fatti coi droni, per questo sul tetto avevamo il logo cosi' da evitare di diventare un target direttLaura era l’unica italiana nella equipe di assistenza formata da medici di tutto il mondo, da Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania e Grecia nel gruppo europeo, da Congo, Nigeria, Tanzania e Camerun in quello africano. Laura definisce la sua esperienza  e in quell’aggettivo ci sono situazioni vissute estremamente profonde. Ho visto una comunità molto forte, unita purtroppo nella tragedia. Il momento peggiore arrivava quando bisognava comunicare le patologie croniche, ma ho trovato persone che cercavano sempre di reagire, senza perdere la speranza o farsi sopraffare dallo sconforto. Un atteggiamento diverso rispetto a quello degli occidentaliCi sono quelle che restano impresse più di altre. Il camice da psichiatra costringe a guardare le cose dall’alto. Raccontarle ora significa invece rivestirle di emozioni: Molti non si sono ripresi dal genocidio. Una ragazza – ricorda Laura Fumagalli – era rimasta prigioniera dell’Isis per tre mesi e quando riuscita a tornare a casa era completamente psicotica. Era libera ma segnata nell’animo. Poi mi ha colpito moltissimo il caso di un uomo con disturbo post traumatico da stress: lui \u0026egrave; riuscito a scappare nelle montagne ma ha visto e vissuto cose che lo hanno segnato per sempre. Quando le famiglie fuggivano – racconta Laura – non avevano modo di portare nulla e alcuni lasciavano per strada i neonati. Quest’uomo continua ad avere gli incubi legati proprio a quell’immagine, dei bambini abbandonati nella fuga. E quest’uomo è  riuscito a buttare fuori i propri demoni attraverso le sedute psichiatriche, ma l’aiuto \u0026egrave; su tutti i fronti, sul campo ci sono diverse Ong e ognuna d\u0026agrave; il proprio apporto. Ci sono le sedute, i farmaci, la psicoterapia, l'ospitalita' il cibo. Un lavoro di squadra con l’obiettivo di rimettere insieme i pezzi di vite strappate. La domanda più; secca: ripartirebbe per una missione umanitaria? La risposta lo è ancora di più 




crociere alternative .l'impresa felice di due ottantenni che molla gli ormeggi ad Olbia dopo tre mesi in barca a vella

 


Dal virtuale al reale: è di Sassari il volante scelto da Mercedes Maximilian Goetz I modelli di Cube controls conquistano la casa automobilistica tedesca L’azienda leader nel sim racing è nata dalla scommessa vincente di due ami

  dalla  nuova   srdegna  online 

 
 Tra i capannoni della zona industriale di Predda Niedda, brillano le luci di Cube controls. È una sorta di laboratorio dell’innovazione, capace di comunicare col mondo e al cui interno lavora un team sardissimo. Chi è appassionato di giochi virtuali e simulatori di gara, molto

Maximilian Goetz
probabilmente sta impugnando uno dei volanti nati dalle idee di questi ragazzi di Sassari. Manufatti di alta tecnologia con pulsanti e luci richiesti da gamer, piloti di professione e grandi marchi.
La storia L’azienda rappresenta un unicum in Italia e gareggia in un settore, quello del sim racing (i simulatori di guida, appunto) di prima fascia, dove ha pochi altri concorrenti internazionali. Come le storie romantiche, anche questa nasce da un incontro e da un piccolissimo angolo nel mondo: quello tra Fabio Sotgiu, ora Ceo di Cube controls, e Massimo Cubeddu, lead designer, nella ciclobottega di via Porto Torres a Sassari. Il secondo produceva artigianalmente volanti per simulatori, nel garage di casa. Fabio veniva da un passato nelle corse kart e motociclistiche. È il 2016 quando il progetto prende il via, ci si suddivide i compiti e si realizzano i primi modelli. Ora l’attività si è allargata e conta quasi una ventina di dipendenti. Si è assestata nel settore come azienda da fascia premium, la produzione è passata da qualche decina di pezzi l’anno ai 3.500 del 2021 e ha un fatturato di due milioni e mezzo.


Dallo schermo alla pista «La distanza con la realtà? Davvero poca», dice Francesco Delrio, responsabile della comunicazione. Si parla degli abitacoli dei simulatori, che al giorno d’oggi da fuori sembrano così simili a quelli reali. Davanti allo schermo, volante, pedaliera, motore, telaio, sedile. «Esclusi i fattori come il caldo e la spinta data dal peso della vettura, l’esperienza è molto vicina a quella vera e propria». Per questo, spiega, ormai tra i piloti professionisti del motorsport si è diffusa l’abitudine di usare i videogiochi di simulazione («iRacing va per la maggiore, poi Assetto corsa, che è italiano, e i giochi su licenza Formula 1 e Rally») per tenersi allenati e studiare i nuovi tracciati. «Permette di pensare strategie, spingersi oltre senza il rischio fisico. Come Cube controls abbiamo tra i clienti Rubens Barrichello, Lando Norris, Valentino Rossi». Sugli eSport si investe tanto, anche sul concetto di passare dalla stanza dei giochi direttamente al paddock. «Sì molte scuderie per reclutare giovani piloti stanno guardando al mondo dei videogame – commenta Francesco –, un nostro ambassador è James Baldwin. Due anni fa ha esordito in una gara reale al British Gt Championship senza aver mai guidato un’ auto da corsa, ed è arrivato primo. Sapeva il tracciato, conosceva tutte le curve, le velocità da prendere».

I volanti Performance e design sono le due parole che il gruppo di Cube controls sceglie per descrivere il proprio lavoro. Ospiti di recente alla Maker faire Sardinia a Olbia, il loro simulatore è stato preso d’assalto dai visitatori e Francesco, mentre spiegava le specificità dell’azienda, mentre parlava dei modelli di volante, li accarezzava e se li rigirava tra le mani come dei piccoli tesori. «È importante la performance, che l’oggetto riesca a restituire una sensazione di vera guida. Poi, sarà perché siamo italiani e fa parte del nostro Dna, c’è tanta attenzione al design, cosa che in questo settore mancava». I volanti sono costruiti «in materiali pregiati come fibra di carbonio e alluminio, riducendo al minimo la plastica» e vengono assemblati uno ad uno a mano. Mani umane, non meccaniche.

La Mercedes chiama In programma c'è l'idea di allargarsi alla creazione di altre componenti, sono già sul mercato le prime pedaliere. E l’ultimo grande progetto è un chiaro passaggio dal virtuale al reale, grazie a una collaborazione prestigiosa. Mercedes-Amg ha bussato alla porta dell’azienda sassarese per chiedere di disegnare e realizzare un volante ad hoc. «Una cosa per noi di grande onore e per loro senza precedenti, che ci ha permesso di portare le nostre esperienze virtuali nel motorsport reale. Il volante che abbiamo progettato è per la Mercedes-Amg GT Track Series ed è qualcosa di completamente nuovo per l'ambiente. C'è un'attenzione particolare all'estetica, di solito bistrattata per ragioni funzionali. È stata la prova che possiamo farlo e ci apre nuove porte», commenta entusiasta Francesco Delrio. L’auto è stata annunciata ad aprile a edizione estremamente limitata e i 55 esemplari verranno venduti entro l’anno. Dai siti specializzati viene descritta come «l'auto più potente mai realizzata dalla divisione sportiva della casa tedesca».