6.2.23

lo scontro dei due paolo . Pietro Sarpi fra Paolo e Camillo Borghese,Paolo V di Anselmo Pagani

a  chi  mi dice   che nei  mie post  sul blog     qui  in particolare  : <<  recensione del film la scuola cattolica di stefano mordini >>    e  sui social  attacco   la  chiesa   rispondo che  pur  essendo  un senza    chiesa  cioè  vado solo  a :  funzioni  sacramentali  (  battesimi  ,  ecc )  o  matrimoni    \  funerali  o    quando  ho bisogno  di raccoglimento  o  silenzio  perchè  penso  che  la  fede  vada  vissuta  in libertà  e   nel mondo     non ingabbiata  in istituzioni    e sovrastutture    salvo  che  non   si tratti  come  gli venti  descritti sopra    colllettivi ,  non  odio   e rispetto    sia   chi invece  la pensa  diversamente  da me  e  pratica   sia   anche la  critico  la  stessa  istituzione  .Il   primo Paolo  Il cosiddetto “Oracolo del secolo”   vedere   articlo  sotto  aveva ragione, perché di tanti “lamentevoli esempi” di abuso del nome di Dio, da parte di uomini cattivi e fanatici, siamo testimoni impotenti anche ai giorni nostri.
 
  da   Anselmo Pagani

Milanesi DOC, sentendo pronunziare il nome di Paolo Sarpi, pensano subito alla Cina perché la via cittadina a lui intitolata costituisce l’asse portante della “Chinatown” locale.
Eppure Fra Paolo Sarpi con l’Estremo Oriente non aveva nulla a che fare, essendo nato a Venezia nel 1552 e non avendo mai viaggiato in terre lontane.
Molti invece furono i suoi punti di contatto con un famoso contemporaneo, perché erano entrambi preti, quasi coetanei e battezzati tutt’e due dai rispettivi genitori con nomi che in realtà non erano “Paolo”.
Sarpi infatti si chiamava Pietro, ma divenne Fra Paolo una volta pronunciati i voti dopo essere entrato, 

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giovanissimo nell’Ordine dei Servi di Maria.
L’aristocratico romano Camillo Borghese, invece, dovette attendere sino al secondo conclave del 1605 per diventare Papa Paolo V.
Lo scontro teologico, politico e caratteriale fra questi due “Paolo”, per certi versi simili, ma per altri molto diversi fra loro, sul finire del primo decennio del Seicento poco mancò che anticipasse di qualche anno lo scoppio della Guerra dei Trent’anni.
A quei tempi la Serenissima Repubblica, di cui Fra Paolo era cittadino, era l’unico Stato in Italia a godere di una certa indipendenza dalla Spagna, come pure dagli Stati Pontifici. Venezia infatti non perdeva l’occasione per riaffermare la superiorità delle proprie leggi su qualsiasi interferenza straniera, Inquisizione inclusa.
Fra Paolo, che l’Urbe la conosceva bene per avervi vissuto fra il 1585 e il 1588 come vicario generale del suo Ordine, era rimasto scandalizzato da corruzione, lusso ed intrallazzi politico-clientelari che vi regnavano, come pure dalla disinvoltura con cui il clero locale teneva fede al voto di castità, tanto più che lui, ascetico e contemplativo com’era, veniva chiamato “il vergine”.
Tornatosene in patria, da dove non si sarebbe mai più allontanato, dopo il conseguimento della laurea in diritto canonico si dedicò agli studi non solo filosofici e storici, ma anche matematici ed astronomici sotto la guida di Galileo in persona, che in quegli anni insegnava presso lo “Studium” patavino.
Un uomo come lui, poliglotta e “natus ad Encyclopaediam” (secondo la definizione che ne diede il filosofo Giambattista Della Porta) nel 1606 fu nominato dal governo dogale “canonista della Repubblica” e in questa veste dovette occuparsi di una spinosa “querelle” riguardante la perentoria ingiunzione arrivata da Roma, in cui il novello pontefice ordinava a Venezia di consegnare ai messi papali due preti resisi colpevoli di reati comuni e per questo incarcerati ai Piombi.
Quel diktat, considerato offensivo dal Doge, fu abilmente smontato pezzo a pezzo sotto il profilo giuridico da Fra Paolo, con ciò mandando su tutte le furie Paolo V, che fulminò lui con la scomunica e Venezia con l’interdetto.
Ben presto “il piccolo Lutero d’Italia” coi suoi scritti infuocati iniziò a suscitare gli entusiasmi di Olanda, Inghilterra ed altri Stati protestanti, che inondarono Venezia coi loro agenti al fine di farvi scoppiare una rivolta anti-papale e, se possibile, persino anti-cattolica.
A scorrere non furono soltanto fiumi d’inchiostro, ma anche il sangue perché nell’autunno del 1607 Fra Paolo subì un tentativo d’omicidio a pugnalate da parte di due agenti dell’Inquisizione Romana.
Quell’attentato, cui scampò per miracolo, ne accrebbe a tal punto la fama in Europa che l’altro Paolo, il Papa, dovette velocemente addivenire ad un compromesso, terrorizzato com’era dalla possibilità che la Serenissima abbracciasse la religione riformata.
Nemmeno a bocce ferme però l’indomito Frate interruppe il suo “cannoneggiamento” contro il Papato e la dottrina della Chiesa, pubblicando una serie di libri, pamphlet e trattati, sempre al riparo dello scudo protettivo offertogli dalla Serenissima.
Di Paolo Sarpi numerosi e poliedrici furono gli scritti, fra i quali in particolare i “Pensieri”, la “Istoria del Concilio tridentino”, le “Lettere ai Protestanti” e quelle “ai Gallicani”.
Poco prima di morire il 15 gennaio del 1623, a soli due anni distanza dal suo nemico-Papa, vedendo le devastazioni causate dalla Guerra dei Trent’Anni scrisse con grande preveggenza: “per l’abuso della religione vengono le più crudeli guerre e le più perniciose contaminazioni che possono occorrere, e li tempi presenti ne portano lamentevoli esempi”.
Il cosiddetto “Oracolo del secolo” aveva ragione, perché di tanti “lamentevoli esempi” di abuso del nome di Dio, da parte di uomini cattivi e fanatici, siamo testimoni impotenti anche ai giorni nostri.
Accompagna questo scritto un disegno seicentesco raffigurante Fra Paolo Sarpi, con l’iscrizione “Non si verrà mai più un Fra Paolo”.
 

Il confine orientale Dove corrono i tormenti del ’900 è le foibe e l'esodo spiegato ad un adolescente parte II )



Inizialmente stavo pesando a qualcosa di simile all'articolo sotto vista l'età 13\14 del ragazzo in questione . Ma poi vista : 1) l'obbietà dell'articolo che collima con il mio intento che coltivo dall'istituzione di tale giornata palla ma che ormai dopo anni di silenzio a livello della pubblica opinione
è diventa una delle date fondanti della Repubblica. Insieme al 27 gennaio ( anche se sarebbe stato meglio il 16 ottobre deportazione degli ebrei romani ma va beh ) , 8 marzo , il 25 aprile , il 1 maggio , il 2 giugno , il 4 novembre , Il 12 dicembre 2) la sagacità del ragazzo quando : << [...] ma come sta  mettendo sullo stesso piano violenze fasciste e violenze comuniste , lager e foibe [...] >>   di cui parlavo  nel post  precedente   : il 10  febbraio e la  questione   del confine orientale  spiegata   ad  un adolescente  ho cambiato idea .
Perché anche  se   come tutti  gli eventi   storici    è  difficile come  ho  detto nel post  : << 10  febbraio (  e  non  solo  )  e impossibilità della memoria  condivisa >>  trovare  una  memoria  condivisa    , non significa   che     certi eventi    debbano  essere  dimenticati    o   silenziati   e  gli orrori   che     ne  sono alla base   siano  ripetuti  anche    se  in maniera  diversa   . 




Ma  soprattutto visto che Il tema delle foibe e dell’esodo giuliano è da sempre un argomento molto delicato, affrontato da alcuni con reticenza e da altri con una certa strumentalizzazione politica ed ideologica . Qui come potete vedere nei mie post per il giorno \ settimana dl ricordo   sia  recenti  sia  passati  c'è l’intento di fare il più possibile chiarezza su quei tragici avvenimenti, raccogliendo a 360 gradi e non a senso unico l’invito della stessa legge istitutiva del Giorno del Ricordo che, testualmente, invita a “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale " Il mio obbiettivo è certamente quello di ricordare quei tragici avvenimenti che causarono tanti dolori e lutti ma anche quello, affrontandolo dal punto di vista storico, di cercare di comprenderne le origini, le cause e le conseguenze.
Solo in questa maniera può essere possibile difendere degnamente la memoria delle tante vittime e dei tanti profughi. e di cui ha subito sulla propria pelle gli effetti nefasti e brutali del nazionalismi e delle aberrazioni ideologiche de secolo corso . Ma ora basta parlare io , vi lascio all'articolo in questione




l'espresso 5 febbraio 2023

Il confine orientale Dove corrono i tormenti del ’900

                                      di PIERANGELO LOMBARDI *




Il Giorno del Ricordo  rievoca le vicende avvenute  nel secolo scorso nell’Alto Adriatico. La memoria
di questa tragica pagina di storia è difficile. E spesso strumentalizzata per  scopi politico  \  ideologici  [  corsivo  mio   ]





IL 10 febbraio è una data del calendario civile italiano: il Giorno del ricordo. Nel corso di formazione [  foto   a  sinistra     dell'edizione  di quest'anno  ] 
per insegnanti organizzato l’autunno scorso dall’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la sfida è stata quella 
di andare al di là delle sovraesposizioni mediatiche e delle ingerenze politiche, che non aiutano, ma al contrario allontanano la piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’Alto Adriatico. Il ragionamento di lungo periodo, proposto
agli insegnanti, è stato quello di riflettere 
sul tema che proprio la legge istitutiva del
Giorno del ricordo, del 2004, indica come
«la tragedia degli italiani e di tutte le vittime
delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli 
istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Perché in questa tragica  pagina di storia non c’è solo una memoria 
difficile e complessa, ma, come ha suggerito
Guido Crainz, c’è in «quel confine tormentato tutto il nostro Novecento».
Ci sono i nazionalismi e i processi di nazionalizzazione, dove uno spirito discriminatorio e per nulla inclusivo troppo a lungo ha soffiato sul Vecchio Continente; c’è il trauma della Prima guerra mondiale, con  la «italianizzazione forzata» imposta dal fascismo alle popolazioni slovene e croate; ci sono la violenza e la brutalità dell’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia 
nel 1941; c’è la tragica lezione della Seconda guerra mondiale, una guerra totale, in  cui veniva meno la distinzione tra militari e civili, dove l’imbarbarimento del conflitto, specie sul fronte orientale, è stato
massimo. Ancora: c’è l’incontro tra violenza e ideologia politica che si fa devastante e dove, in un clima torbido e inquietante, s’intrecciano il giustizialismo politico 
e ideologico del movimento partigiano titino, il nazionalismo etnico e, soprattutto in Istria e nelle aree interne, la violenza selvaggia tipica delle rivolte contadine.
Ci sono le violenze contro le popolazioni italiane del settembre del 1943 e del maggio-giugno del ’45, di cui le foibe, gli arresti e il clima di terrore che spinge all’esodo forzato migliaia di italiani sono simbolo ed espressione; c’è la volontà di Tito e del comunismo jugoslavo di annettere l’intera Venezia Giulia, con un’epurazione volta a eliminare – senza andare troppo per il  sottile – qualsiasi voce di dissenso. Ci sono, infine, le logiche della Guerra fredda e della radicalizzazione dello scontro ideologico nell’immediato Dopoguerra. Il tutto sulla  pelle di decine di migliaia di persone. 
Un vero e proprio tornante di fughe e di espulsioni in tutta Europa, infatti, si accompagna agli esordi della Guerra fredda e a una più generale ridefinizione dei confini europei e dei loro significati. Diventa, quindi, sempre più necessario, nell’affrontare questa pagina di storia, contestualizzarla con grande rigore, respingere tesi negazioniste o riduzioniste, così come le banalizzazioni e le verità di comodo più o meno  finalizzate a uno scorretto uso pubblico della storia.
 Occorre assumere un ruolo attivo nel processo di rivisitazione critica, che sola può portare al superamento delle lacerazioni   del passato. Anche perché le vicende dell’area  giuliano-dalmata costringono chi le affronta  a misurarsi con temi assai più generali e con  fenomeni centrali per la comprensione della  nostra contemporaneità.





* Presidente di ISTORECO Pavia A cura della Biblioteca Civica Vigevano, Rete Cultura Vigevano e dell’Istituto pavese per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea )

5.2.23

10 febbraio ( e non solo ) e impossibilità della memoria condivisa

Da  19  anni  a questa parte ,   come   ogni anno s'inizia a  parlare   della  questione  adriatica   cioè  della  giornata , ora  diventata   la  settimana    palla del giorno   del ricordo   \  10 febbraio   ed   adesso a  freddo  ed  in anticipo    al  fiume  di :  retorica nazionalista  ed  nostalgica  ,  di  negazionismo  (  da entrambe le parti )  , ricordi a metà  ,   paragoni idioti  e  fuorvianti , e appelli  ipocriti  ed  utopistici alla memoria     condivisa  ,    faccio   soprattutto  su  quest'ultima  la   mia   odierna      riflessione  . 
 Non ricordo se  per  la settimana  del giorno del  ricordo    o  qualche  altro anniversario  di un evento storico  "divisivo "  ho appreso  che  sono  stati  trovati dei  volantini con la    scritta  nessuna memoria condivisa".Parola che sentiamo e sentiremo spesso per descrivere la storia del secolo scorso in paticolare da dopo la grande guerra ad mani pulite . Ma mi chiedo ogni volta che sento tale termine Cosa significa, esattamente, memoria condivisa ? quale sarebbe il significato in opposizione a quello informatico ? cosa significhi Nel suo significato socio-antropologico ? Ma soprattutto Memoria di cosa, e soprattutto, condivisa da chi ? Visto l'utilizzo mediatico e politico che ne viene fatto del termine , sospetto che questa sia un'espressione a sé stante, ma non ho trovato alcuna spiegazione del suo significato né su Google né su treccani.it.
Poi  continuando a   cercare   ho  trovato  questo post  di  https://italian.stackexchange.com/ in cui ho letto  il    commento    di  utente193 che    cito integralmente   


Mettendo insieme gli spunti forniti da uomo in verde e Elberich Schneider , azzardo un'interpretazione.
Per 'memoria condivisa' si intende un insieme di racconti o mitici che condividono vivi in ​​una data comunità senso d'identità, valori, ideali, aspirazioni, usanze, contribuendo insieme ad altri fattori a far da collante tra gli aderenti a quella stessa comunità . Tali racconti debbono essere tali da suscitare emozioni e valutazioni simili e concordi tra i più, o almeno tra chi conta di più, ma senza scatenareeccessivi contrasti, senza eccessive conflittualità nella comunità più ampia. Forse questa è la differenza rispetto alla 'memoria collettiva' citata da uomo inverde che invece mi sembra possa contenere racconti molto discordi tra di loro, e quindi non la funzione di collante: in questo caso la 'memoria condivisa' potrebbe considerarsi un sottoinsieme della 'memoria collettiva' ?


 Da notare però che qui si dice che la memoria collettiva è anche condivisa, nel senso di "shared", e si mette in collegamento con altri concetti quali 'intelligenza collettiva' , 'coscienza collettiva' , 'conoscenza distribuita' : secondo me è " shared" solo nel senso che è generata più collettivamente e quindi a disposizione di tutti, ma non tale da generare le stesse reazioni emotive come suggerito invece dall'aggettivo italiano "condiviso" che mi sembra forte dell'inglese "shared".
Per come lo capisco io, il concetto di 'memoria condiviso' è associato a quello di 'mito fondante' (o fondativo ). Inoltre continuando nella mia ricerca ho , più precisamente Qui , trovato alcune opinioni interessanti, ne cito un paio:
  1. La memoria è soggettiva, non può essere condivisa; può essere confrontata, ma non condivisa. Ciò che si può cercare di condividere non è una memoria, ma una storia (Walter Barberis)
  2. Memoria collettiva […] non equivale necessariamente a memoria condivisa […]: perché l'una rimanda ad un unico passato, cui nessuno di può sottrarsi e che coincide appunto con la nostra storia; mentre l'altra sembra presumere un'operazione più o meno forza di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una "smemoratezza parteggiata", la dimenticanza. (Sergio Luzzatto)

Ma è qui che c'è invece un più ampio pubblico in cui si discute di discorso collettivo, condiviso, comune, pubblica, uso pubblico della storia, e altro. Ma ci stiamo allontanando dalla lingua italiana per addentrarci nei meandri insidiosi della filosofia, della storia, della sociologia e della politica.
 Infatti  << Ora è ormai    --- come fa notare   quest  articolo   de La stampa   del 23 Aprile 2009 modificato  il  23 Ottobre 2019 13:10 ----  frequente, in occasione di anniversari che riconducano a momenti critici e controversi della nostra storia nazionale, sentire il richiamo a una memoria condivisa. Sembrano confondersi, tuttavia, in questo invito istanze diverse, sulle quali vale la pena riflettere. E in primo luogo per una questione assai semplice: che il termine memoria è ambiguo per definizione. Connota il giusto intento di trasmettere alle generazioni più giovani il patrimonio di esperienza di coloro che le hanno precedute. E, generalmente, indica l’esigenza di tenere viva la lezione che si presume ci abbiano lasciato avvenimenti tragici che hanno lacerato la nostra società. Ma la memoria è soggettiva, individuale, e per di più incline a deteriorarsi, a perdersi, a peggiorare. La memoria è il risultato di sguardi particolari, che non possono essere modificati. Certo, si può affermare che esperienze comuni abbiano sedimentato una memoria collettiva. È vero. Ma sarà comunque impossibile conciliare, rendere omogenee, memorie legate a esperienze diverse, derivate da punti di vista e da adesioni personali o di gruppo totalmente differenti. [.... ] >>

Secondo  alcuni  me  compreso  per  memoria    condivisa  e  qui  sta la sua  utopia   s'intende  come metafora di qualcos’altro. Ovvero come il terreno su cui far germogliare un processo di riconciliazione nazionale, cioè quell’accordo fra visuali diverse e distanti che permetterebbe di mettere alle spalle il passato: con la concessione ai «vinti» di qualche risarcimento morale e di un conseguente restauro di immagine, e con la richiesta ai «vincitori» di una qualche forma di abiura e di cessione valoriale. IL fatto è che con tutta evidenza non funziona. Perché ogni guerra civile o scontri sociali , dalla Rivoluzione Francese in avanti, ha sempre lasciato dietro di sé una scia di recriminazioni, di rese dei conti, di riscritture ed    uso  strumentale (  nel  caso delle vicende  dl confine orientale )  degli avvenimenti e una molteplicità di memorie differenti e antagoniste. Esattamente com’è successo  e  succede  in Italia  dopo  periodi  di   forte contrapposizione  sociale   e  culturale  esempio  tangentopoli  \  mani pulite   .Quindi, per fare un esempio, i fatti relativi ad alcune stragi italiane, tra i quali la Strage di Portella della Ginestra (1947), la Strage di Piazza Fontana (1969), la Strage di Piazza della Loggia (1974), la Strage della stazione di Bologna (1980), le Stragi di Capaci e Via D'Amelio (1992), appartengono a tutti alla memoria collettiva italiana, tutti li ricordano; ma i racconti sono discordi, non è una memoria condivisa, le ricorrenze vengono vissute con emozioni contrapposte piuttosto e tali non aperti da rafforzare il senso d'identità nazionale quanto tali da rafforzare conflittualità e apparentemente insanabili.
Ed ecco che ( chi già sa cosa la penso sul giorno del ricordo è sull'uso che viene fatto di tali dolorosi ed drammatici avvenimenti della nostra storia nazionale , può anche non leggere il resto dell post )
il giorno del ricordo come tutti gli eventi del italiani del secolo scorso su cui almeno fin ora , non si è riusciti a raggiungere rispetto all'Europa tale intento visto che 1) non si è riuscito a farci i conti ., 2) si è ancora troppo divisi come testimoniano due lettere da me ricevute in questi giorni . la prima a favore e l'altra contro tale celebrazione scelte tra quelle che ho ricevuto ( come succede tutti gli anni ) dopo i miei post sul giorno del ricordo, l'impossibilità ed l'utopia .

Caro Giuseppe

Ti seguo fin dalle origini del blog [ quando era ancora splinder N.a ] e poi su facebook account e pagina   e quindi quando hai , in contemporanea all'istituzione della giornata del 10 febbraio  , iniziato a fare post sulle foibe ed l'esodo degli orientali cioè sulla nostra storia e le nostre storie / memorie . Pur non condividendo  il modo con cui ne parlavi ti si poteva riconoscere un po' di onestà intellettuale visto che riconoscevi il genocidio  e criticavi i tuoi amici /compagni di viaggio - strada che lo negavano o sminuivano    ed   alcuni  d'essi   ogni anno ne distruggono le lapidi o targhe. Ma, mentre  cercavo   i  post    di quest'anno  , ho trovato   due   tuoi   post  dell'anno scorso    riportati sul blog e  sull'appendice   Facebook ,  in cui   hai offeso tale ricordo : proponendo l'abolizione del 10 febbraio ¹, e mettendo sullo stesso piano  gli slavi che nostri morti ².  Per il momento mi prenderò sia dai tuoi social sia dal ti blog un periodo di riflessione per decidere se dirti addio o continuare a seguirti. Per il momento un abbraccio

                                       Lettera firmata


¹ https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2022/02/piuttostoi-c]he-fare-celebrazioni.html

² https://www.facebook.com/redbeppeulisse1/posts/10227213258547228


Caro compagno
 hai riportato  nei  giorni precedenti    la storia del maestro di musica Lojze Bratuž [  vedere   secondo url  dell' email  prima  riportata  ] e quindi cosa fecero quella canaglie dei fascisti . E hai deciso di non stare a sentire la voce dei fascisti che : per sottrarsi vigliaccamente al giudizio delle loro vittime  sono  scappati  in italia . Infatti nessuno dei fuoriusciti fu espulso ufficialmente con un preciso decreto di espulsione come avvenne per i tedeschi in Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia, Polonia e altre terre dell'Europa orientale. I successivi   rinunciando al paradiso creato dal compagno Tito scapparono ritornare in Italia e vivere a spese nostre. Votando i partiti oppressori della DC e gli eredi dei fascismo ovvero Msi

                        Maresciallo  Tito


potrei anche non rispondere  a queste  due  email    visto che    che   coloro hanno scritto  dovrebbero    aver letto  le  FAQ  ed  i  post in cui  parlo delle  foibe  \  giorno  del  ricordo .   Voglio  però  precisare  spero in maniera  definitiva     visto  che      dopo  la  settimana  del  giorno del ricordo   ricevo    e  cestino  email   alcune  anche peggiori di  queste     due cose  

La  prima  
non sto negando   ne  tanto meno   giustificandolo o smiuendo  il genocidio    giuliano  -  dalmata  perché farlo  sarebbe  da  imbelli   e  da  disonesti , ma  soprattutto perché   non si  tratta  : 1) di  fatti  incerti  .,  2) di   episodi aneddotici   o leggende  diventate  storia  . E poi  , alla  faccia  di chi accoglie    la  definizione  classica    di genocidio  cioè    cioè  quella  di Raphael Lemkin, ideatore del termine "genocidio" , io  applico i  nuovi  parametri di definizione di tale  termine   esposti qui :    https://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio#Dibattito_sul_genocidio
Infatti    in  quelle  zone  oltre  ai  crimini    di Tito   ci  fu  anche , seguendo  le nuove  definizioni  di genocidio    , anche la "bonifica etnica" \  italianizzazione     fascista    (  trovate  sotto   fra   la  sitografia     elementi  per   approfondire  )     il  cosiddetto fascismo di confine  e  quella  applicata    con campi  di deportazione  e  criminale   nei   confronti   degli   slavi     durante  il  secondo  conflitto mondiale .
Ovviamente  senza  metterli sullo  stesso piano   perchè   anche  se  tali massacri  \  genocidi hanno la  base     comune    il nazionalismo    sono  diversi ,  anche se    uno   conseguenza  dell'altro ,  gli eventi  ed  i contesto che   gli    ha  generati \  causati  . 
Quindi se proprio dobbiamo ricordare ( è per questo che ho fatto sia quel post provocatorio e quel post in cui si parla delle violenze fasciste ) ricordiamo tutto per evitare che 1) cada , come avvenne dagli anni 60 in poi fino all'istituzione del giorno del ricordo , l'oblio ufficiale  sui tali fatti ; 2)  <<  [...] Nonostante la ricerca scientifica abbia, fin dagli anni novanta del XX secolo, sufficientemente chiarito gli avvenimenti[45][46], la conoscenza dei fatti nella pubblica opinione permane distorta e oggetto di confuse polemiche politiche, che ingigantiscono o sminuiscono i fatti ed   sminuendone   o ingigantendo  il numero delle  vittime   e  degli esuli [  corsivo mio  ] a seconda della convenienza ideologica[47][48] >>  ( da https://it.wikipedia.org/wiki/Questione_adriatica  ) .

La  seconda  
Non sono d'accordo che   chi ha  scelto di rimanere   in quei territori   durante  il  regime  fascista  cosi   come di fuggire     sia durante   la  guerra    cioè    all'8 di  settembre     sia   dopo  la  guerra venga  considerato    necessariamente   appartenente  all'ideologia  fascista  . Infatti  è pressoché impossibile   distinguere   chi  vi  aderii  perchè  : 1)     ne  condivideva  e  sosteneva  il pensiero  \  l'ideologia  .,  2)  per paura   di repressione   ed  emarginazione .,  3)  opportunismo    ed  carrierismo  .,  4)  indifferenza      cioè basta    che sia .   Cosi  come  se  scapparono dal governo di Tito  e dal  suo regime   lo fecero    solo ed  esclusivamente ,   ed qui  bisognerebbe  provare  a  fare  qualche  domanda   agli esuli , come dicono  siti   giornali   e  programmi televisivi   che  ci  propinano   ogni 10  febbraio  , per la  repressione  e  l'imposizione  di quello  che  da movimento  di liberazione  diventerà una  dittatura imponendo il  sradicamento identitario   della popolazione  italiana  . 

per     chi  volesse   approfondire  ecco  alcuni dei  siti     da me  consultati   e consigliati



violenza burocratica di Giulia Acerba



Io credo che in questo Paese di merda ci sia una forma di violenza non riconosciuta: la violenza

Illustrazione di 
Anna Godeassi 

burocratica.
Dopo la morte dei miei genitori, a distanza di più di sei mesi, mi trovo ancora a dover compilare scartoffie in cui dico chi sono io, chi è mio fratello, chi erano mia mamma e mio babbo e quando sono morti.
Senti l’impiegata che si occupa delle successioni: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Senti la banca, prendi appuntamento: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Senti il call center di acqua/luce/gas, chiedi bene i passaggi: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Senti l’amica che ti fa il favore di controllare la posta cartacea e trova delle raccomandate, ma per ritirarle ci vuole la delega: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Senti assicurazione auto: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Senti l’amica di famiglia che ti ricorda che comunque va fatta la dichiarazione dei redditi anche se sono morti: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Senti tuo zio che ha bisogno di una tua firma in quanto erede e allora senti il notaio prendi appuntamento: stampa, compila, firma, scannerizza, invia.
Una quantità di tempo, e di soldi, incredibile.
Io non mi aspettavo che il mondo mi mettesse un tappeto rosso lungo il cammino perché, poverina, le son morti i genitori, ma che mi lasciasse un po’ più in pace a capire
chi sono io
chi è mio fratello
chi era mia mamma
chi era mio babbo
quando sono morti
e come faremo senza di loro
ecco, questo sì, lo avrei apprezzato.

Le cose che nessuno guarda Sono quelle che da sempre racconta con le sue immagini il fotografo Michele Pellegrino . Tony vaccaro Il soldato fotografo che amava la vita

    questi articoli  mi   spingonno  a  riprendere    in mano  la  macchina   fotografica  ed  ricominciare   con  le    regole  che  ho  dimenticato   .  E   che  una  foto  vale  più di mille  parole  ,
  dal sito di mario  calabresi      due  storie  


La  prima   

Sono quelle che da sempre racconta con le sue immagini Michele Pellegrino. Che prima di diventare fotografo ha conosciuto la miseria e la fatica. Nella settimana dei suoi 89 anni sono andato a trovarlo e farmi raccontare una vita piena di curiosità e di rispetto per la terra e le persone
Prima mi fa sapere che non ci potremo vedere perché deve fare il pane per la settimana, poi cambia idea – “Pazienza, lo farò lunedì” – così di sabato mattina mi presento alla sua porta. Nevica leggermente, mi apre ma è indaffarato, sta aggiustando la stufa. Lavoro assolutamente necessario visto che il termometro è sotto lo zero. Ci tenevo a venire a trovarlo questa settimana perché è quella in cui compie 89 anni. Volevo farmi raccontare come si diventa il fotografo della fatica, del silenzio e delle nuvole.

© Michele Pellegrino


Michele Pellegrino è nato il primo febbraio del 1934 a Chiusa di Pesio, sotto le montagne, dove il Piemonte confina con la Francia e la Liguria, e non se ne è mai andato. La casa in cui vive se l’è costruita tutta da solo, nei fine settimana, usando come pali di sostegno gli alberi del bosco di suo padre. Non è stato fermo un solo giorno nella sua vita: «Ho ancora tanti lavori in testa, almeno cinquanta, ma mi devo sbrigare perché mercoledì compio 89 anni». Sul tavolo c’è il suo ultimo libro, si intitola “Prima che il tempo finisca”. «Il mio tempo sta finendo ma anche quello dei paesaggi che ho conosciuto. Mi ricordo che andavo in montagna e c’era tanta di quella neve che ci si perdeva dentro, oggi è pochissima e d’estate è una pietraia che frana. Non riconosco più il mondo con cui sono cresciuto».
© Michele Pellegrino


Mi siedo ad ascoltarlo, saranno due ore e mezza indimenticabili. Quest’uomo, che non avevo mai incontrato prima, ha così tanta passione che potrebbe accendere con la sua energia le luci di tutto il paese. Sembra non essere mai stanco, non gli manca mai una parola, un nome, un’idea. Il passato è presente e tutto è vivo: «Sono un ignorante totale. Un analfabeta. Mi sono fermato alla terza elementare, era il 1943, tempo di guerra. Ogni volta che si sentivano gli spari della lotta partigiana la maestra ci mandava tutti a casa. Ricordo di aver visto passare davanti a casa un corteo di persone disperate che sfollavano con i carri e i materassi: erano quelli che scappavano dal paese di Boves bruciato dai nazisti. Ricordo i fascisti che trascinavano due ragazzi di vent’anni, andavano verso il cimitero, sono stato per alcuni minuti immobile ad aspettare poi ho sentito i colpi. Della guerra ricordo quasi tutto. Avevamo un orto e i tedeschi ci avevano piazzato una mitragliatrice per sparare sui soldati inglesi che venivano paracadutati sulle colline. Non potendo più andare a scuola mia madre mi ha mandato “da servitore” a lavorare nei pascoli e nelle cascine. Avevo solo nove anni. In cambio di un’estate di lavoro la mia famiglia veniva ricompensata con un sacco di patate o mezzo di castagne. Il primo lavoro fu in una vecchia grangia dei monaci certosini, dovevo seguire gli animali al pascolo. Dormivo su una branda nella stalla, c’erano vacche, conigli e dei porcellini d’India che raspavano il terreno e dissotterravano le ossa dei frati sepolti nei secoli. Ero terrorizzato».
© Michele Pellegrino


«Era una vita durissima e la cifra di quel mondo contadino erano la grettezza e l’avarizia. Alla fine della guerra venni mandato da un uomo che solcava il campo con il bue e con un gigantesco aratro di legno. Una fatica bestiale e bestemmie che fioccavano da tutte le parti. A mezzogiorno, per pranzo, mi diede un pezzo di pane e una scala, senza dire una parola. Ero perplesso, la appoggiai per terra e cominciai a mangiare il pane. Alla sera mi disse soltanto: “Perché non l’hai usata? Ti serviva per prendere le ciliegie”. Mi faceva dormire sull’essiccatoio dove seccava le castagne per conservarle. Sentivo i topi che correvano senza sosta. Sono scappato dopo quattro notti. Mia madre era infuriata che avessi abbandonato un lavoro e allora mi mandò da uno che recuperava i chiodi per riusarli, il mio compito era quello di drizzarli. A tredici anni trovai un posto nella filanda, curavo i bozzoli, il primo passo della produzione della seta».
Il racconto di Michele Pellegrino è un flusso inarrestabile, provo a interromperlo per chiedergli quando è diventato fotografo ma mi fa segno con la mano di aspettare, prima devo capire la vita e il mondo in cui si è formato: «Mia nonna era rimasta vedova per colpa dell’influenza spagnola, il suo secondo marito suonava la fisarmonica, ogni anno partiva dopo la raccolta delle castagne e andava a piedi in Francia, seguendo l’alta via del sale, per guadagnarsi da vivere come suonatore. Tornava in primavera per occuparsi della campagna. In paese c’era un altro che viveva suonando la fisarmonica, ma era meno bravo e molto geloso, e una sera di nebbia lo aspettò fuori dal camposanto, aveva in testa un lenzuolo e in mano una candela. Quando lo vide arrivare cominciò a dire: “Tu stai per morire e ti puoi salvare solo se smetti di suonare”. Il marito di mia nonna scappò di corsa e si impressionò talmente tanto che non ha mai più toccato lo strumento».
                               Un momento dell’incontro con Michele Pellegrino


Dopo le mucche, i chiodi e i bozzoli lo mandarono in un laboratorio di ceramica: «Facevo un lavoro pesantissimo e pericoloso: dovevo trasportare dei sacchi di terra da cinquanta chili e portarli su un banco vicino al camino. C’era un caldo insopportabile, ma io volevo comprarmi la bicicletta e facevo anche gli straordinari. Ricordo il giorno che sono andato al negozio, dopo averla scelta sono corso a casa a prendere i soldi. Ma la scatola con i miei risparmi era vuota, li aveva usati mia madre. Allora mio padre, per consolarmi, mi fece degli sci di legno, salivo fino a 2000 metri con delle pelli di foca fatte con i pezzi di tela, andavo fortissimo. Avevo bisogno di una giacca a vento, allora andai dalla 
Michelina che faceva le giacche con la stoffa dei paracadute inglesi recuperati dopo la guerra».
La maggiore età per Michele è quella in cui diventa muratore e quando ha vent’anni, siamo nel 1954, viene mandato a Sanremo per lavorare nel cantiere di una villa. Dormiva in una baracca di legno nel giardino e la sera, prima di coricarsi, suonava la tromba o l’armonica a bocca. Nella casa accanto viveva una ragazza di 17 anni, Margherita, figlia della custode, che prese ad affacciarsi per ascoltare quelle serenate improvvisate. Si sposarono quattro anni dopo, alla fine del suo servizio militare negli Alpini. Viaggio di nozze in Valle d’Aosta. Sono ancora insieme. «Quell’armonica del nostro amore e sempre con noi, la teniamo in camera da letto», lo interrompe Margherita.
Lei lo ascolta con amore, sorride e lo prende un po’ in giro. Ad un certo punto, mentre lui sta raccontando un incidente in montagna in cui è sopravvissuto per miracolo, lei passa e chiede: «Siamo già nel crepaccio?».
© Michele Pellegrino
Durante il viaggio di nozze prende in mano la sua prima macchina fotografica, gliel’ha prestata un amico, ma non ha idea di come usarla. Così la apre per cambiare il rullino e brucia tutto: «Si è salvata soltanto una foto e nemmeno memorabile». Ma servirà un incidente per incontrare la folgorazione che ha cambiato la sua vita.
«Vado a Cervinia a fare un corso di sci, sono al Plateau Rosa, ci sono venti gradi sottozero, cado da fermo e mi fratturo malamente tibia e perone. Vengo operato e mi ingessano per cento giorni. Una noia mortale, così inizio a leggere tutto quello che trovo. Mio fratello mi porta un libro di cinema e vengo folgorato dalle fotografie».
In quel momento lavorava con successo come piastrellista ma si compra una macchina fotografica tedesca e comincia a scattare appena può. Prende coraggio e manda alcuni suoi scatti di paesaggio alla rivista “Fotografare”. Dopo due mesi, gli rispondono che glieli comprano. Pensa che sia un miracolo. È la scintilla, ha passato i trent’anni e decide di licenziarsi e cominciare una nuova vita. Apre un suo studio, si mantiene fotografando matrimoni, ma ha in testa una sola cosa: raccontare storie. Deve però trovare un proprio stile, aveva copiato troppe cose ed era confuso, poi incontra il libro che lo illumina e gli indica la strada: “Un paese” dell’americano Paul Strand con testi dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini. Un reportage tra gli abitanti di Luzzara, piccola comunità contadina sulla sponda romagnola del Po.
                                              © Michele Pellegrino


Nel 1972 pubblica il suo primo libro “Genti di provincia”, ma non è contento, vuole essere più focalizzato e radicale, vuole raccontare quello che ha vissuto e che vede ogni giorno. Con il secondo libro trova la sua cifra, si chiama “Profondo nord” e parla dello spopolamento della montagna. Sarà un grande successo: «Entravo nelle baite e ascoltavo, e poi scattavo. Non ho mai chiesto a nessuno di mettersi in posa e non ho mai usato il flash per una questione di rispetto. Ci voleva la mano ferma ma non mi è mai mancata». Una delle foto che ama di più e che tiene sopra la sua poltrona in salotto l’ha fatta nel 1975 in Val Varaita: si vede un vecchio uomo che si sta facendo la barba accanto al letto sfatto. C’è l’atmosfera di un mondo che sta scomparendo e che Michele Pellegrino coglie nel suo tramonto. «La fatica come compagna di vita, io la fatica l’ho provata, ero uno di loro».
È convinto che la fotografia debba far vedere le cose che in genere nessuno guarda, deve spostare lo sguardo. E poi deve raccontare. «Una bella foto la può fare chiunque ma la differenza è mettere un po’ di foto insieme che raccontino una storia, che illuminino una vicenda umana. Ho lavorato più di otto anni per fare le clausure, suore, frati, eremiti, un lavoro unico e difficilissimo. Un’esperienza totale. Ho conosciuto di tutto e ho perso la fede».
                        Il mare in Liguria vicino Bergeggi (© Michele Pellegrino)


Ad un certo punto, vent’anni fa, il suo sguardo scende dalle montagne e nei suoi libri comincia ad apparire anche il mare: «Ho imparato a nuotare a settant’anni, prima avevo il terrore dell’acqua. Quando l’ho superato ho cominciato a fotografare il mare». Lo ascolto da più di due ore, adesso mi sta parlando di futuro, gli chiedo quale sia il libro che ha amato di più e mi sorprende: «Come emozione è sempre l’ultimo che ho fatto. Durante il Covid ho fotografato le nuvole attraverso le finestre della casa, scattando dai quattro punti cardinali. Un racconto solo di nuvole. Ci sono forme che durano un secondo o due, ho costruito una storia piena di fascino e nel momento più difficile ho alzato lo sguardo verso l’alto. Questo mi parla di futuro».



la seconda




Mentre si avvicinavano le cento primavere cresceva la sua incredulità. Passavano gli anni e i nostri incontri avevano un non detto finale, una sorta d’imbarazzo mal celato: quando ci vedremo? «Non so se riuscirò a prendere l’aereo per l’Italia ma ti aspetto a New York dopo l’estate, il foliage dell’autunno non posso proprio perdermelo».Tony Vaccaro, fotoreporter statunitense che, dopo essersi arruolato nell’esercito con una macchina fotografica ben nascosta, scattò alcune tra le immagini divenute simbolo della Seconda guerra mondiale

Tony Vaccaro era nato il 20 dicembre 1922 a Greensburg in Pennsylvania, famiglia di origini molisane, legato alla sua terra come rifugio e luogo della serenità. Mi capitava di chiedergli del segreto della sua longevità, di quanto contava il passato di combattente, soldato e fotografo della 83ma divisione fanteria dell’esercito degli Stati Uniti. Non era facile avvolgere il nastro dei suoi ricordi, talvolta cambiava argomento per non cedere alle curiosità di chi, come me, era interessato allo sbarco in Normandia del giugno 1944, agli addestramenti, le attese, le storie di soldati rimasti senza nome nella lunga traversata verso Berlino. Aveva ventidue anni il 6 giugno 1944 quando si trovò sospeso tra il sud dell’Inghilterra e le coste della Normandia, le condizioni meteo proibitive, le imbarcazioni più grandi non riuscivano ad avvicinarsi alla costa. «Cominciava a fare buio. Eravamo in tanti. Si creò una fila, una specie di lunga attesa per scivolare fuori dalla pancia della nave. Poi finalmente il piede a terra, lo scarpone umido, bagnato, tanta paura di non potercela fare. Tutto sembrava bruciare. Dopo l’acqua, il fuoco. Ci stringiamo l’uno all’altro e andiamo avanti».Omaha Beach, Normandia, 1944. Tony Vaccaro © Getty ImagesPrigioniero tedesco disinnesca una mina. Omaha Beach, Normandia 1944. Tony Vaccaro © Getty Images

Preferiva parlare di cultura italiana, di letture e film, cercare ristoranti che avevano conquistato fama e clienti pubblicizzando la pasta o la pizza con farine originali. Per trovare i segni della presenza italiana «bisogna conoscere bene New York e la sua evoluzione, non ci sono più i quartieri e le aree definite, meglio curiosare fuori dai giri turistici e vedrai che le sorprese non mancano». E il suo segreto, così lo chiamava con un grande sorriso stampato sul volto, era la curiosità insaziabile. Camminava per chilometri salendo e scendendo dalla metropolitana newyorchese, sempre sul primo vagone, meno affollato e ben posizionato per guardare indietro la vasta umanità che popola le fermate. Faticavo a stargli dietro anche quando aveva superato i 90. «Non uso lo zoom tranne in casi di necessità. Meglio muoversi con le proprie gambe, cercare di essere vicini agli oggetti dei nostri desideri, alle immagini che si vogliono fotografare». Il moto quotidiano era diventato una sua routine, conosceva New York palmo a palmo, riusciva persino a trovare i segni delle assenze, dei cambiamenti nel tessuto della città spesso incomprensibili e nascosti.
Il “bacio della Liberazione”, la foto scattata da Tony Vaccaro a Saint-Briac-sur-Mer, in Francia, il giorno di Ferragosto del 1944. © Monroe Gallery
La foto scattata da Tony Vaccaro l’11 settembre del 2001 a New York. I passanti guardano la seconda torre che viene giù

La mattina del 9/11 segue le notizie, prende la macchina fotografica e cerca di fissare al di là dell’East River immagini di una sconvolgente mattinata. Guarda i volti dei passanti mentre la seconda torre viene giù, cerca conforto negli sguardi attoniti dei tanti newyorchesi che si chiedono cosa sia successo, perché tanta foga distruttrice? Si ferma in un parco al di là del fiume, le lacrime per una città in guerra lo portano indietro fino ai ricordi delle battaglie sul suolo del vecchio continente nella fase cruciale della Seconda guerra mondiale. Ne parla con timore, vorrebbe capire e leggere cosa scatena l’odio verso altri esseri umani dopo che tanta violenza ha attraversato il secolo scorso. Rimane fino alla fine un inguaribile ottimista, fiducioso nelle sorprese della vita. Aveva preso il Covid nella prima ondata, se la cava con un breve ricovero in ospedale dove fotografa e si fa fotografare. Fa in tempo a gioire per l’arrivo dei vaccini e mi chiede della situazione in Italia, «vedrai è solo questione di tempo, ce la faremo anche stavolta».

4.2.23

Neruda, la verità sulla sua morte bloccata dalla mancanza di Internet con i vecchi sistemi non sarebbe successo


a cura di redazione Cultura di repubblica.it 

  
Uno dei periti che devono consegnare la relazione finale sull'inchiesta per presunto avvelenamento del poeta cileno, si trova in una zona senza connessione. E quindi tocca ancora aspettare


La verità sulla morte di Pablo Neruda tarderà a uscire. La pubblicazione del rapporto con le conclusioni dell'inchiesta che deve chiarire se il poeta cileno, premio Nobel per la Letteratura, sia stato davvero avvelenato, è stata infatti sospesa per mancanza di connessione Internet. Uno dei periti, Romilio Espejo -tra l'altro proprio quello incaricato di consegnare via Internet le conclusioni del gruppo di esperti- non è riuscito a connettersi perchè si trova in una zona del Sud del Cile colpita da vasti incendi forestali che hanno interrotto le comunicazioni. Le conclusioni del tanto
atteso rapporto si conosceranno dunque probabilmente "la prossima settimana", ha fatto sapere Paola Plaza, la giudice cilena che sovrintende ai casi sui diritti umani. Hanno avuto problemi di connessione, ha spiegato Rodolfo Reyes, nipote dello scrittore, anche alcuni dei periti internazionali che hanno partecipato all'elaborazione del rapporto e che non si trovano in Cile. Tutto rimandato, dunque, almeno per ora. "E' imbarazzante e mi fa molto male, ma dobbiamo continuare ad aspettare. C'era molta aspettativa, tutti vogliono sapere la verità sulla morte di Pablo Neruda", ha aggiunto Reyes, incontrando la stampa al Palazzo dei Tribunali a Santiago. La verità sulla morte di Neruda arriva dopo 50 anni dalla sua morte e a 12 dall'inizio di un'inchiesta giudiziaria avviata per chiarire se sia morto per complicazioni del cancro alla prostata o perchè avvelenato, come sostiene da quasi cinquant'anni il suo autista, Manuel Araya.  Il panel di esperti -composto da scienziati provenienti da Canada, Danimarca e Stati Uniti, e riunitosi virtualmente e di persona a partire dal 24 gennaio- deve chiarire l'origine del batterio Clostridium botulinum trovato in un molare del poeta nel 2017. Neruda morì 12 giorni dopo il colpo di Stato dell'11 settembre 1973 che rovesciò il suo amico, il presidente Salvador Allende, e portò al potere una dittatura militare di destra. Morì poche ore prima di imbarcarsi su un aereo che lo avrebbe portato in esilio in Messico; e secondo i familiari, fu avvelenato dalla polizia segreta di Pinochet, la Dina. Il certificato di morte indica come causa del decesso il cancro metastatico e la cachessia; e la versione ufficiale è stata data per buona per anni fino a quando, nel 2011,  il Partito Comunista, di cui lo scrittore era senatore e iscritto, l'ha messa in discussione e presentato una denuncia.no della sua casa di Isla Negra, sulla costa cilena- fu allora riesumato e, sette mesi dopo, un gruppo internazionale di medici anatomapatologi ha certificato che non c'erano "agenti chimici rilevanti" che potessero essere collegati alla sua morte. Ma a quel tempo l'istituto forense cileno non disponeva della tecnologia per rilevare un avvelenamento che avrebbe potuto verificarsi 40 anni prima. E nel 2017, lo stesso gruppo di medici legali ha concluso che Neruda non era morto di cancro, come affermava il suo certificato di morte; e ha scoperto invece un frammento della tossina botulinica che può colpire il sistema nervoso e portare alla morte. La chiave adesso è capire se il campione di batterio trovato sia stato alterato in laboratorio e successivamente inoculato, il che dimostrerebbe l'intervento di terzi nella morte del poeta. Ma per avere una risposta bisognerà attendere ancora.

il 10 febbraio e la questione del confine orientale spiegata ad un adolescente

“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo” 
                    José Saramago

 Il  nipote  di un mio  amica di  12\13  anni    mi chiede 

    ---  mamma  mi  ha  consigliato  di chiedere  a te  che  sei  esperto  di  storia  cosa è  il giorno e ricordo ?  

 --   esperto  .non esageriamo  ,  sono un semplice  appassionato   .  Comunque  Il giorno   \  settimana  del    ricordo e quella giornata   che “ci dovrebbe    dare occasione per ripetere che non ci sarà mai giustificazione per l’odio, la discriminazione etnica, la presunzione di avere il diritto di sopraffare gli altri, la follia ideologica  dei nazionalismi  prima quello fascista    e  poi       quelo  comunista  . Così come è l’occasione per riaffermare che di fronte a tutti i crimini confermati dalla verità storica non possono trovare spazio forme di revisionismo, negazionismo o giustificazionismo , ed  uso  politico \  ideologico  , che hanno come unico risultato quello di offendere le vittime e colpire i sentimenti dei superstiti e dei discendenti.  che hanno trovato la morte nei lager  ( la risiera  di san Saba  ) nazi fascista  e  diversi    campi   di concentramento fascisti  dei  Balcani  \  ex  Jugoslavia  . >Il  più  noto  è  qiuelo  . Gonars (1942-1943)   e  nelle    Foibe  sia  quelle   tra  il  25 luglio e  l'8 settembre     sia  successivamente    1945  \1947  . Insomma   a quanti, perché inseguiti dalla violenza e per   in una scelta di libertà, hanno abbandonato la loro casa, la loro terra e ogni avere per affrontare la via dell’Esilio .comunque se  vuoi  approfondire  https://www.tag24.it/484428-foibe-cosa-sono-e-giorno-del-ricordo/

---- ma  come   stai  mettendo  sullo stesso piano  violenze   fasciste  e  violenze  comuniste    , lager    e  foibe    . 


---  Ma  quando  mai   .    Accomunare olocausto e foibe serve solo a sminuire l’unicità della Shoah e a tacere le responsabilità del fascismo”.  Qui    sto  contestualizzando   perché   purtroppo  il  confine orientale   è  stato teatro   di   questi tre  crimini  ideologici (  fascismo   , nazismo  ,  comunismo  )   che  uniti al nazionalismi    hanno reso particolare  ed  ancora doloroso  insieme  al  silenzio  quasi totale    dovuto  alla  voglia  di lasciarsi alle  spalle   gli orrori e e  brutture  dei quel  periodo   e  l'opportunismo  politico    della  guerra  fredda    cioè  dello  scontro  tra  i  due  blocchi   quello    Nato   ad  Ovest    e  quello  Russo  \  sovietico ad est   hanno  determinato    quella   dolorosa  ferita  . Quindi  il nostro paese deve ancora fare i conti su quello che è successo nel confine orientale .

---- Un po' sintetica come spiegazione .

-------  effettivamente . Ma non volevo annoiarti con la mia logorrea. Non ti preoccupare che ne sentirai parlare  visto che  tra poco inizierà la settimana del ricordo ( la giornata del #10febbraio )  e ne sentirai parlare in TV e sul web in maniera più o meno dettagliata  /a 360° gradi . Infatti negli ultimi anni sta venendo meno il refrain barbarie comunista e congiura del silenzio ( che certamente ci fu  visto tali eventi furono regalato solo su libri specialistici o auna determinato pensiero ideologico culturale o qualche spirito libero che affrontava il tabù di tali argomenti ) . Comunque sei vuoi approfondire l'argomento trovi sotto  dei siti
Mi scuso   se    sono    4    sui  5  dello stesso sito   ma   erano articoli    troppo   interessanti   . E se vuoi quando abbiamo un po' più di tempo  ne parleremo più a fondo  e  magari  ti  do  altri  siti  .



----- Ok grazie


Qualche  giorno  dopo lo  rincontro  e  mi dice  <<   Grazie  .  Dai link    che      mi  ha   suggerito   e  dai programmi    tv  ed  altri siti     che  ho  consultato   sulle  vicende  storiche del  periodo storico  riguardo alle  vicende   del  confine  orientale    ho  capito  \  mi sono  fatto un idea    fra  il 1918-1975      che  l'italia    , ,  non ha     da quando  è stata unita  ,  fatto i conti   con il proprio  passato   e  le  brutture  che ha   commesso  e  taciuto   in questo caso  e     che  le  violenze   e  gli eccidi  non furono  da una parte   solo  come   la propaganda   pro  10  febbraio  ci  ha  fatto credere   >> . 

Mi sono  sono   inumiditi      gli occhi  dalla   gioia     di vedere   un  seme  lanciato    germogliare