8.8.15

La vera storia dell'inno Faccetta nera

Visto   che  noi italiani siamo pronti a ricordare solo le cose che ci piacciono come la prima guerra mondiale , ma dimentichiamo le cose che non ci piacciono come questa


da  Il Tulipano - Il Web Magazine Indipendente scritto dal Popolo

Esce il primo numers della rivista La difesa della razza. Diretta dall’intellettuale fascista Telesio Interlandi, viene stampata sino al giugno 1943. Nata per rilanciare, con maggiore aggressività e incisività’ i temi dell’ antisemitismo, la rivista e’ messa in vendita al prezzo di una lira e supera, sin dai primi numeri le 150.000 copie, anche grazie ad una forte campagna di promozione. Tra i membri del comitato di redazione, compare Guido Landra, uno dei “ redattori” del Manifesto della razza, e, tra i redattori, il futuro leader del movimento sociale italiano, Giorgio Almirante.


di cui il 5 agosto era il 77 ° anno .    Ora  l'anticipo delle leggi razziali avvenute   nel  1938  . è  del


19 aprile 1937: In Italia la prima legge razziale
By     19 aprile 2015  
Leggi RazzialiIn Italia viene approvata la prima legge di tutela della razza dal governo fascista. Con il regio decreto legge 880/37 si vieta l’acquisto di una concubina e il matrimonio con le donne di colore delle colonie. A questa legge razziale ne seguirono altre, che avevano come scopo lo stabilire la superiorità della razza italiana, ma soprattutto la sua appartenenza al gruppo di quelle ariane. Come premessa a quest’ideologia, molti scienziati cercarono di fornire una base scientifica come giustificazione alla diversità razziale.
- See more at: http://www.italnews.info/ del 19\4\2015

 è  la  stessa     faccetta nera     subi    in questo  clima  una  profonda  trasformazione   per  giustificare    tale legislazione  


Il Ministero della Cultura Popolare, insoddisfatto e fremente per la stesura del testo, a causa dell'ammiccamento a rapporti interrazziali visto che definiva "romana" una ragazza etiope e per il senso troppo spiritoso di alcune parole, la censurò (sebbene le leggi razziali non fossero in vigore), perché in evidente contrasto con i pregiudizi razziali che, ancora negli anni '30 e fino agli anni '60, erano presenti nelle opinioni comuni di uomini e governi. In relazione anche al momento storico, delicato e drammatico, il Ministero pretese, tempestivamente, di modificare il testo per ben altre due volte, alterando notevolmente il senso e il significato della canzone, che venne così trasformata in un più rassicurante, per il regime, inno di conquista e di sottomissione degli abissini, notevolmente meno tollerante e scherzoso dell'originale. Infine, vennero eliminate pure tutte le parole e le inflessioni dialettali.
Ecco, di seguito, le due versioni del celebre ritornello:
Romanesco
Facetta Nera
Bell'abbissina
Aspetta e spera
Che già l'ora s'avvicina!
Quando staremo
Vicino a te
Noi te daremo
Un'altra legge e un altro Re!
Italiano
Faccetta nera,
Bell'abissina
Aspetta e spera
Che già l'ora si avvicina!
quando saremo
Insieme a te
noi ti daremo
Un'altra legge e un altro Re.



Ecco   come dicevo  dal     titolo 

La vera storia di Faccetta nera




Cartolina umoristica della guerra d’Etiopia, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito
Cartolina umoristica della guerra d’Etiopia, 1930 circa. 
“Durante una trasmissione in tv a cui ho partecipato, è successo un fatterello”. Così comincia un post su Facebook che Maryan Ismail, attivista politica italosomala, ha pubblicato pochi giorni fa. Il fatterello ha come scenario uno studio televisivo. Maryan, che fa politica attiva a Milano da molti anni, ha deciso di contrastare il razzismo parlando in ogni spazio pubblico, tv compresa. Naturalmente non parla solo di immigrazione, ogni causa importante la trova sulle barricate: dalla lotta contro il fondamentalismo (ha perso recentemente suo fratello in un attentato di Al Shabaab a Mogadiscio) fino alle questioni riguardanti la vivibilità urbana. “Però ho la pelle nera”, dice Maryan sottolineando che la lotta contro le discriminazioni è una delle voci importanti della sua missione politica. E spesso per attaccarla gli interlocutori, soprattutto in tv, usano proprio la sua pelle.
“Un tipo di una certa età molto sguaiato”, scrive nel suo post Maryan “e in preda a un evidente travaso di bile, stava cercando di mettere insieme due parole sull’immigrazione e sui costi correlati. Preso in contropiede dalla mia reazione, ha cominciato a cantarmi in faccia Faccetta nera”.
L’episodio ha avuto come teatro gli studi del programma “Forte e Chiaro” su Telelombardia ed è andato in diretta televisiva. “Inutile descrivere quello che è successo”, prosegue Maryan. “Mi limito semplicemente a constatare con infinita amarezza che un altro limite è stato superato: si è arrivati allo sberleffo razzista spiattellato in faccia, senza ragione e senza pudore”.
Quando ho saputo la notizia il mio primo sentimento è stata l’indignazione unita alla solidarietà. Poi però mi sono detta che questo episodio non è solo etichettabile come razzismo. Lo è, ma è anche molto di più. Ci dice qualcosa di profondo e grave sulla società in cui viviamo. Ma cosa?
Benito Mussolini odiava Faccetta nera, aveva addirittura tentato di farla bandire
Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui non ci si salva. Sono in tanti ad averla come suoneria del cellulare (ricordate Lele Mora inVideocracy?) e a considerare la canzone come la quintessenza più pura del fascismo. Ma anche chi non si professa apertamente fascista è sedotto da questa marcetta. Basta canticchiarla un po’ per vedere le braccia agitarsi a ritmo battente. Emblematica è la scena contenuta nel docufilm di Dagmawi Ymer Va’ pensiero, dove un gruppo di mamme canta la nota canzonetta a Mohamed Ba, mediatore culturale e attore senegalese. Ba ha appena lavorato in classe, proprio sugli stereotipi, con i figli di queste signore. Quando le sente cantare quasi non ci crede. È sconcertato e triste. Tenta di spiegare che Faccetta nera è una canzone del ventennio, ma le signore non ascoltano, perse nel ritmo indiavolato dello zumpapà. Quella canzone gli piace, provano quasi un gusto trasgressivo nel cantarla e continuano imperterrite, incuranti di ferire i sentimenti di Ba.
Ma chi la canta sa cosa significa? Sa da dove viene quella canzone? Com’è nata? Capisce tutti i riferimenti?



Al mercato, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito
Al mercato, 1930 circa. 
Personalmente considero Faccetta nera un paradosso italiano. Ogni anno, quasi sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che spesso ci lascia indifferenti. Il video della canzone è disponibile in rete in varie versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi la canta non sa la sua storia. Si sprecano infatti i vari “Orgoglioso di essere fascista” e “Viva il Duce”. Ma queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani. Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso questa canzone che detestava.
I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, scrivevano, “andiamo a liberarli”
Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano familiari a grandi e piccini. Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale postunitaria, tuttavia negli anni trenta del secolo scorso si assiste a un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali satirici come Il travaso delle idee al Corriere della sera sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”.
La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da quello a cui abbiamo assistito nel ventesimo secolo e a cui assistiamo ancora oggi. Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, sfruttare le loro terre.
Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di “unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa). E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale.
Per i colonizzatori l’Africa era una terra vergine e disponibile e questa disponibilità si traduceva nel possesso fisico delle donne del posto
D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella penisola. Il mito della Venere nera è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua amante del Corno d’Africa: “Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale”. Una terra disponibile, quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne del posto, attraverso il concubinaggio, i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri.
Basta farsi un giro su internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo.
Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice: “La legge nostra è schiavitù d’amore”.Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca come Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi: anche lei, come faccetta nera, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di un uomo la può redimere dalla sua condizione.



Armamenti, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito
Armamenti, 1930 circa. 
Faccetta Nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma. Lì una giovane nera viene portata sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con nome d’arte francese, avvolta da un tricolore, la libera a colpi di spada. La canzone da quel momento in poi decolla. La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei successi del Ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia. Ma il testo iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un paese africano contro l’imperialismo europeo. Saltò anche un’intera strofa che definiva faccetta nera “sorella a noi” e “bella italiana”. Una nera, per il regime, non poteva essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per perfida ironia della storia, latitano pure oggi.
Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla sparire e in un goffo tentativo si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da focolare domestico, sottomessa e virginale:
Faccetta bianca quando ti lasciai
quel giorno al molo, là presso il vapore
e insieme ai legionari m’imbarcai,
l’occhio tuo nero mi svelò che il core
s’era commosso al par del core mio,
mentre la mano mi diceva l’addio!
Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.
Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello. L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione.
Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare.
E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola.
Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada affrontato perché non si ripeta. Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata analisi diFaccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capo espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un grande passo in avanti riuscirne a parlarne con serenità. Un passo in avanti per questa Italia che raramente affronta se stessa.

6.8.15

il Giappone e sui è rotto le scatole di celebrare Hiroshima e Nagasaki e sta cambiando la sua politica pacifista


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http://www.lastampa.it/2015/08/06/errore/hiroshima-latomica-che-annient-le-certezze-del-giappone-Cdd4pYFstNSJiFLahMbElO/pagina.html

Poichè ho




  non solo davanti  alle immagini e  alle testimonianze  di tale  evento  ma    davanti a  tali  sfruttamento   (L anche se  con un fondo benefico  )   a scopi commerciali dell'evento




LA POLEMICA
Una bottiglia di grappa per ricordare Hiroshima

Fa discutere l'idea di Bottega per i settant'anni dell'atomica: iniziativa lodevole o marketing di pessimo gusto? L’idea dell'azienda trevigiana divide gli esperti del settoredi Fabio Poloni
06 agosto 2015




Sandro Bottega, titolare dell'azienda, con Hasako Hirano e Akiko Sano

Una bottiglia di grappa per ricordare la tragedia atomica di Hiroshima: iniziativa lodevole o marketing di pessimo gusto? L’idea della trevigianaBottega divide, fa discutere. Il più drastico - nel suo stile - è il fotografo e pubblicitario Oliviero Toscani: «Siamo alla frutta. È la disperazione del marketing». Ma l’azienda spiega: già in passato sono state create «bottiglie a tema per ricordare eventi che hanno segnato la storia dell’uomo e per esorcizzare il rischio che si verifichino nuovamente».

 continua su  http://tribunatreviso.gelocal.it/treviso/cronaca/2015/08/06/news/aziende-la-polemica-1.11893650?ref=hftttrer-1

e  quindi  non riuscendo  a   trovarne per descrivere questo triste evento che è ancora più attuale che mai   quan come afferma . Lucio Garofalo in http://www.linterferenza.info/attpol/70-anni-fa-hiroshima-e-nagasaki/ e Franco cardini ( riporto qui sotto l'intero articolo in quanto non riesco a ricavare l'url dell'articolo ma solo la pagina generale ) sul suo  sito http://www.francocardini.net/index.html



Minima cardiniana, 87
Domenica 2 agosto, XVIII domenica del Tempo Ordinario
HIROSHIMA E NAGASAKI, 6 AGOSTO 1945. IL GIORNO DELLA VERGOGNA
6 agosto 1945. Settant’anni fa. Sembrano mille anni, oppure sembra ieri. Una catastrofe, un’ecatombe nel cuore di tenebra del pur terribile e sanguinoso Novecento. L’orrore e i soliti esorcismi verbali non bastano. “Come fu possibile, in pieno XX secolo?”. “Un salto nel buio, un balzo all’indietro nel più cupo medioevo?”.Piantiamola. Hiroshima e Nagasaki sono cose nostre, ci appartengono: rappresentano appieno il Novecento con tutto il suo progresso scientifico, tutta la sua straordinaria tecnologia, tutta la sua spietata scintillante Volontà di Potenza. Gli alibi per quell’orribile esperimento dal vivo – primo fra tutti il più miserabile, la scusa umanitaria (“abbreviare il conflitto”; “salvare migliaia di vite umane”) – non sono ormai più credibili, pur ammesso e non concesso che mai lo siano stati.La guerra era finita. Tra il 7 e l’8 maggio i rappresentanti supremi di quel che restava del Terzo Reich e delle forze armate tedesche avevano firmato la resa incondizionata, a Reims in presenza del generale Eisenhower e a Berlino in quella del maresciallo Zukov. Quanto al fronte estremo-orientale, dopo la conquista di Filippine e Birmania, il 19 febbraio le truppe statunitensi erano sbarcate in territorio giapponese, sulla spiaggia di Iwojima; l’aeronautica americana aveva da quasi due anni conquistato la superiorità aerea sui cieli nipponici e bombardava incessantemente città e installazioni industriali ormai in ginocchio.Dal maggio, da quando cioè l’Impero del Sol Levante era rimasto solo a fronteggiare gli Alleati vincitori, le trattative per la sua resa erano già state avviate. Il 17 luglio si era riunita a Postdam la conferenza dei vincitori: erano presenti Winston Churchill, Harry Truman e Jozip Stalin. Il 26 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ai quali si era unita la Cina di Chiang Kai-shek, avevano indirizzato al governo giapponese un ultimatum esigendo la resa incondizionata e l’abdicazione dell’imperatore Hirohito. Ad esso non si era associato Stalin in quanto l’URSS non era in guerra contro il Giappone. Dal momento che da parte del governo nipponico non era giunta risposta, quello statunitense aveva preso la decisione di concludere con uno spettacolare esperimento dal vivo il “progetto Manhattan”, al quale si stava lavorando dal 1942 (vale a dire da pochi mesi dopo l’ingresso degli USA in guerra).Le debolissime ragioni con le quali Truman giustificò la sue decisione s’incentrarono tutte sulla necessità – vista l’ostinazione giapponese – di abbreviare il conflitto, il che significava soprattutto, per l’opinione pubblica americana, risparmiare la vita di molti soldati statunitensi: la guerra nel Pacifico e l’operazione Downfall, che avrebbe dovuto seguire lo sbarco di Iwojima, erano costati troppe perdite (il che, in democrazia, significa sconfitta certa nelle elezioni future). Più serie altre ragioni: era necessario giustificare i costi esorbitanti del “progetto Manhattan” dando una prova inoppugnabile della sua atroce efficacia; e al tempo stesso lanciare un implicito ma chiaro avvertimento alla potenza antagonista degli anni a venire, l’Unione Sovietica. In realtà, la principale e meno confessabile delle ragioni – quella che in effetti mai fu addotta – fu la volontà di provare quale fosse l’effettiva potenza dell’ordigno: a tale scopo fu accuratamente scelto l’obiettivo, la città di Hiroshima che fino ad allora non aveva subìto alcun attacco aereo. In questo modo, su un centro demico lasciato intenzionalmente intatto, si poté verificare la portata distruttiva della bomba.L’ordigno nucleare, amabilmente battezzato Little Boy, fu sganciato sulla città di Hiroshima alle 8,15 da una superfortezza volante B-29 al comando della quale era Paul Tibbets, che aveva battezzato il suo aereo con il nome “benaugurante” di sua madre, Enola Gay. La “tempesta di fuoco” immediatamente si sprigionò su una città che poteva allora ospitare dai 250.000 ai 350.000 abitanti. L’8 successivo - mentre con l’accordo di Londra le potenze alleate sottoscrivevano gli statuti del Tribunale Militare che avrebbe a conflitto finito dovuto giudicare sui crimini di guerra - Truman rinnovò l’ultimatum al governo nipponico, accompagnandolo con un proclama nel quale avvertiva il popolo giapponese che il suo paese era in possesso di un’arma di potenza inaudita, capace di cancellare le isole del Sol Levante dalla faccia della terra. Senza dare al governo imperiale il tempo di reagire, nella mattinata del 9 agosto la bomba Fat Man fu sganciata su Nagasaki. Ma poche ore prima, verso l’una di notte, Stalin aveva a sua volta dichiarato guerra al Giappone e occupato la Manciuria. Era l’America la vera destinataria di quella mossa: sotto quel punto di vista, Hiroshima non era servita a nulla. Ma le due esplosioni cadevano obiettivamente sotto le sanzioni dell’articolo 6B degli statuti di fresco siglati dalle potenze vittoriose. Un bell’autogoal.Non conosciamo il numero esatto delle vittime: per Hiroshima si è parlato di 90.000-140.000 morti, per Nagasaki tra i 60.000 e gli 80.000. Ma decine di migliaia furono i feriti; e tra quei lesionati molti morirono dopo, atrocemente, per le conseguenze della “peste nucleare”. Conseguenze che continuano a mietere la morte tra i discendenti di quegli sventurati.Hiroshima e Nagasaki non furono soltanto un orribile e premeditato crimine di guerra per il quale non c’è stata alcuna Norimberga. Esse furono anche il preludio di una serie di nuovi crimini e di nuove distruzioni. Nonostante la ripetuta esorcizzazione dell’uso delle armi cosiddette “non convenzionali” (che peraltro, com’è noto, continuano ad essere prodotte), come l’”Agent Orange” in Vietnam o gli ordigni a uranio impoverito nei Balcani e in Iraq e il fosforo bianco a Falluja, ancora in Iraq, hanno continuato ad essere usati non solo contro i militari – com’era accaduto per l’iprite durante la prima guerra mondiale – ma anche contro le popolazioni civili. I Funghi Atomici del 1945 hanno aperto un’era che non si è ancora conclusa: ed è inutile sperare ingenuamente che sia sufficiente che gli ordigni di morte non cadano in mano di governi “non democratici”. A scatenare l’inferno del ’45 fu la prima democrazia del mondo. E i pentimenti postumi – quello di Oppenheimer in prima linea – non servono. Settant’anni dopo quell’orrore, gli arsenali nucleari di troppi paesi traboccano di ordigni ben più potenti di Little Boy e di Fat Man.
Franco Cardini
Ma  soprattutto  perchè il Giappone dopo 70 anni sta  cambiando la sua costituzione pacifista   e  vuole ritornare al nucleare  

ho  usato  link  esterni  . Non so    che altro aggiungere  perchè  una  parola  è poco e   due sono troppe  

La donna che canta Regia di Denis Villeneuve




per  chi volesse  approffondire  il contesto storico e  culturale    del film   o  storie  di quelle  zone  

Premessa  prima di continuare  la  leggere  la recensione  ed  eventualmente  a vedere  oltre  il trailer  il film    in questione 

Sappiate  che  non è un film di cassetta, nè un film divertente"; non è un film di svago, sconsigliato quindi se si è dell'umore per una serata di cabaret o si cerca un film per distrarsi \ rilassarsi .Infatti  secondo  
Una visione di un altro Edipo re?Quanto è complessa la storia della vita. Induce molte rivisitazioni di realtà che ci sembrano e forse ci portiamo dentro.; l'odio ,l'amore, l'anaffettività, la sensibilità al sentire degli altri.

Detto  questo  la  la recensione ha inizio  


IL film   corre per due ore, senza arresti di intensità e di emozione, nel va e vieni tra le storia di oggi e quella sovrapposta di decenni fa, al 1970 al '90;certo, è una storia difficilissima, per la sua crudeltà e per la credibilità di questa crudeltà che abbiamo sentito , da lontano, ripetersi più volte dopo la guerra civile in Libano;sembra quasi di essere in un documentario, ci si dimentica che le scene di devastazione sono ricostruite;non c'è nessuna "perfezione di funzioni matematiche", ci sono sofferenza, sentimenti umani, persone, e c'è questa inesorabile disponibilità al male e all'inumanità che hanno gli esseri umani quando si sentono minacciati;certo, l'espediente finale è probabilmente ridondante, aggiunge uno stravolgimento - sono d'accordo, paradossale - a una quantità di male già grandissima, e porta la tragedia ordinaria al livello della tragedia teatrale, alla "tragedia greca"; se ne poteva fare a meno, rende l'esito meno cedibile, ma era nel testo teatrale di partenza, c'è rimasto, e non rende banale il cumulo di sofferenza accumulato fino a quel punto;il regista descrive fatti crudeli con un tocco umanissimo, il rispetto per l'umanità violata si esprime attraverso l'assenza di qualsiasi dettaglio insistito e truculento;non c'è bisogno di effetti speciali; per normale rispetto e civltà non si partecipa a un funerale insistendo su dettagli truculenti; semmai i dettagli truculenti si espongono per
scherno in una carnevalata, lontani dalla morte; e questo fa il regista, ha rispetto umano e civile educazione per la tanta gente di cui descrive la tragedia; attori bravi, personaggi interessanti e veri, film intensissimo, più di una volta dà un groppo in gola e lascia senza fiato; non passa senza conseguenze;Un film tristissimo . un nodo alla gola .Non credeo che i film orientali fossero cosi intensi . Infatti La donna che canta (Incendies) è un film del 2010 diretto da Denis Villeneuve e tratto dall'opera teatrale Incendies di Wajdi Mouawad. Ha ricevuto la nomination come miglior film straniero ai premi Oscar 2011.Ottime le fotografie . .Ottimo l'uso del racconti a due fasi ( quella delal figlia nel presente che dopo aver appreso daltestamento dela madre va alla ricerca del padre e del fratello ) , quello della madre ( che vive le vicende che poteranno a raccontare al notaio lasua storia ed a lascuare ai figli le sue volontà e di come trovare il fratello ed il padre ) . La donna che canta è un film costruito come una formula e la prima inquadratura è la sua equazione: la prima immagine mostra infatti una finestra affacciata su una piantagione di ulivi, passando poi lentamente verso l'interno di una stanza dove un ragazzino rasato da dei miliziani palestinesi guarda verso di noi. 
Dentro quello sguardo in macchina pieno di rabbia e innocenza si situa l'avvio e la soluzione dell'intricata epopea di due gemelli canadesi alla ricerca della verità sulle loro radici. Le indagini scorrono parallele al percorso travagliato che porta la madre cristiana a diventare una dissidente politica, subire reiterate violenze e poi fuggire in Quebec. Villeneuve mette in scena due personaggi dall'identica incognita (l'enigma sui parenti dei due gemelli) e ne segue, passaggio dopo passaggio, la soluzione del problema e la rivelazione dell'enigma, aprendo uno sguardo storico sul sanguinoso percorso di costruzione di un'identità palestinese. Le indagini di Jeanne e la vita della "madre coraggio" Niwal rappresentano infatti dimostrazione e corollario dello stesso enunciato: due percorsi che non solo arrivano alla medesima verità, ma anche a raccontare, in sostanza, la stessa storia due volte. Ma la ridondanza non fa paura a Villeneuve. Sa che la matematica crea solo certezze e perciò evita ogni di lasciare ogni possibile dubbio, costruendo la tensione ricorrendo a una logica talmente ferrea da pensare di poter rendere credibili anche le espressioni numeriche più paradossali (1+1=1). Infatti è un teorema Di pregio perché richiama l'attenzione su un territorio e su una storia con un tono da tragedia greca. Ma ha ragione Becattini, è un teorema, pieno di contraddizioni e di appigli che non stanno insieme: l'età dei personaggi, la finta ignoranza dei fatti e dell'esito della ricerca messa in scena da parte del notaio, pene "leggere" che non hanno alcuna credibilità nel contesto in cui la vita valeva ben poco (sia quella della madre che quella del figlio), conversione alla schiera del nemico non plausibile... Nell'insieme è tutto troppo tirato. Era decisamente più credibile Edipo re.
Le ambizioni di La donna che canta sono quindi molto alte: cercare di raccontare un pezzo della sanguinosa storia recente della Palestina attraverso una drammaturgia di ampio respiro, tragica e complessa come un romanzo d'appendice. Ma le vicende della storia e della politica contemporanea, così ispide e indecifrabili, non si adattano bene alla liscia perfezione delle funzioni matematiche.>> da http://www.mymovies.it/film/2010/ladonnachecanta/ 
Concordo inoltre  con  con  questa recensione pubblicata  su  www.filmtv.it/ esso è la << commovente storia di due giovani verso l'epicentro dell'odio, dell'amore duraturo e delle guerre senza fine.un'immagine straziante e implacabile della sofferenza: esemplare, in questo senso, la figura della protagonista Nawal, che, come ogni vittima della barbarie più atroce, finisce per nutrirsi dello stesso odio da cui è stata divorata. Quell'odio, quella rabbia per i tormenti e le sofferenze subite e nate dall'intolleranza e dal fanatismo (politico, etnico, religioso), che hanno scolpito sul suo volto di donna i segni di un dolore troppo grande per trasfigurarsi immediatamente in perdono, ma che non le hanno impedito di lasciare ai suoi figli quegli insegnamenti per spezzare quella disumana catena. >> . ) ripetuto diecimila volte come un mantra, resta dentro le orecchie per una mezz’ora buona dopo l’uscita dalla sala, e vien da chiedersi se si sia visto un drammaticissimo film o piuttosto non ci si sia risvegliati da un brutto sogno. Magari (perché no? I nostri tempi son quel che sono…) collettivo o d'aver visto " dal vivo " tali eventi . Uno dei film straniero non hollywoodiano o di cassetta più belli che ho visto .  chi se  ne  frega    se  

Giuseppe ScanoGiuseppe Scano
adesso con e lacrime agli occhi per la visione del film visto in streaming vado a coricarmi notte a tutti\e . vecchi e nuovi . in particolare a ***** la protagonista del post https://goo.gl/RKF7YzPiace a 1 persona1 commento
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Piace a Francesca Pedroni.Roberto Facchini Miii stai invecchiando....
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5.8.15

Franco Cardini inquadra il clima italiano : Non parliamo di razzismo è ostilità nei confronti del diverso . la normale diffidenza verso “l’altro” è diventata xenofobia

Leggo su www.lastampa.it/2015/07/19/italia/cronache/ questa interessante intervista all'ottimo studioso Franco Cardini





LAPRESSE Gli scontri di venerdì tra manifestanti e polizia dopo l’arrivo di alcuni profughi a Casale San Nicola



MATTIA FELTRI
ROMA



Professor Franco Cardini, che sta succedendo fra italiani e immigrati?

«Parafrasando un noto detto, anche stupido e banale, quando il gioco diventa serio bisogna che le persone serie si mettano a parlare. Vorrei essere serio perché la situazione è molto grave e non ci si deve parlare addosso».



È una situazione grave, ma è razzismo?


«No, non è razzismo e chi lo sostiene cambia le carte in tavola. Intanto la parola razza è ormai compromessa, nonostante sia stata usata in tutto l’800, che è un secolo di impronta scientifica. E infatti il razzismo è una teoria basata su presupposti scientifici, e non significa che siano presupposti veri».



Bene, non siamo neonazisti.


«Ma non bisogna pensare soltanto agli scienziati del Terzo Reich: basta pensare a Voltaire che era un feroce antisemita, o a Lutero che scrisse libri violentissimi contro gli ebrei. In definitiva il razzismo è una teoria o una prassi che non soltanto individua differenze razziali, ma postula gerarchie per cui ci sono razze superiori, razze inferiori, razze nocive. Nel mondo attuale di tutto questo non c’è più nulla - tranne qualche nazistello residuale - perché il 1945 è stato un vaccino efficacissimo. Vedete, tutti provano tenerezza per il bimbo straniero adottato, ma se ti arrivano fuori casa trenta immigrati la faccenda cambia».



Dunque è soltanto paura?

«L’idea per cui il diverso è pericoloso è fisiologicamente e non patologicamente connaturata alla natura umana. Il diverso è chi arriva da lontano e non dimentichiamo che in latino hospes e hostis, cioè ospite e nemico, hanno la stessa radice. E infatti nei testi antichi, dall’Iliade alla Bibbia, ci sono precetti che proteggono l’hospes, il quale però è tenuto a un’etichetta rigorosissima, a cominciare dal fatto che non può intrattenersi troppo a lungo. L’ospitalità è ben circoscritta nei termini di qualità e di tempo».



Cioè, l’ostilità prevale sull’ospitalità?

«Quando il fenomeno del diverso smette di essere affascinante e di suscitare curiosità, ma diventa massiccio e quindi minaccioso, a prevalere è il pregiudizio, e l’africano torna a essere negraccio schifoso».



Ecco, noi da bambini ci commuovevamo con «Radici», la storia dello schiavismo americano e pensavamo che non saremmo mai stati così.

«Certamente, è facile essere comprensivi quando i problemi riguardano gli altri. Allora non costa niente essere per i più deboli, anzi, ci fa sentire meravigliosamente buoni. Da bambini pensavamo anche che al Colosseo avremmo sfidato l’imperatore e i leoni per salvare i poveri cristiani. Che stupidaggine! Al contrario, ci saremmo divertiti un mondo a vederli sbranare dai leoni, e questo aiuta a capire che anche i brutti e i cattivi hanno le loro ragioni: se si conoscesse bene il trattato di Versailles alla fine della Grande Guerra, scopriremmo che Hitler non aveva ragione, ma non avevano tutte le ragioni neanche gli altri».



Ma quando vede gli scontri di piazza, lei che cosa prova?

«Penso che questa gente vada accolta, ma anche che vadano capite le dinamiche che si sono scatenate di modo da trovare un equilibrio - pure socio-economico, di distribuzione della ricchezza - e sarà un equilibrio che costerà qualcosa a tutti. Un conto è ospitare il diverso, altro conto ospitare qualsiasi tipo di prepotenza, sebbene spesso siano prepotenze involontarie».



Che cosa intende con «capire le dinamiche»?

«Abbiamo un vizio etico-politico che deriva dall'inesperienza - perché non siamo mai stati un vero Paese coloniale - e abbiamo tenuto un atteggiamento di apertura acritica derivato dal senso di colpa per quanto successo nella Seconda guerra mondiale. Quando di immigrati ne sono arrivati tanti, cioè quando la bilancia ha debordato dall’altra parte, la normale e sana diffidenza per il diverso si è trasformata in una xenofobia di ritorno che è la bombola d’ossigeno di Matteo Salvini, ma anche di gruppi di estrema destra. Anche perché a sinistra si predica uno sterile umanesimo. Quindi siamo vittima di un pregiudizio che, e questo è grave, si scontra col pregiudizio che per esempio hanno di noi gli islamici. E attenzione: si deve avere rispetto del pregiudizio come si ha rispetto della malattia».



Professore, è pessimista.

«Penso che dovremmo seguire il modello tedesco dell’integrazione (l’accettazione della cultura diversa, ndr), e si è visto come i rapporti una volta pessimi coi turchi siano oggi eccellenti, e non quello francese dell’assimilazione (l’adesione alla cultura del Paese ospitante, ndr). Diciamo che sono pessimista sulla tattica, ma ottimista sulla strategia: conosco la storia delle invasioni e quella delle immigrazioni, e in genere finiscono bene».






Incuriosito gli ho scritto all'email del suo sito ( http://www.francocardini.net/contatti.html ) chiedendogli d'approfondire alcune questioni da lui sollevate ed ecco che ne è uscita un altra intervista


Date: Sat, 25 Jul 2015 18:25:15 +0200
Subject: approfondimento dell'intervista sulla stampa del 19\7\2015
From: redbeppe@gmail.com
To: fc40@outlook.it


Salve
ho letto con interesse la sua intervista sulla stampa del 19\7\20115 e vorrei approfondire alcune cose .



1) quando lei dice : << ( ... ) Quindi siamo vittima di un pregiudizio che, e questo è grave, si scontra col pregiudizio che per esempio hanno di noi gli islamici. E attenzione: si deve avere rispetto del pregiudizio come si ha rispetto della malattia». >> cosa intende ? e come fare ad avere rispetto di un pregiudizio ? i pregiudizi non sono da cancellare ?
2) quando le dice : << «Penso che dovremmo seguire il modello tedesco dell’integrazione (l’accettazione della cultura diversa, ndr), e si è visto come i rapporti una volta pessimi coi turchi siano oggi eccellenti, e non quello francese dell’assimilazione (l’adesione alla cultura del Paese ospitante, ndr). >> non c'è il rischio che cosi s'arrivi ad un pensiero unico \ dominante e si uccidano le diversità ? non sarebbe meglio come ( mi scuso se mi permetto di auto citarmi ) suggerisce questa vicenda http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2015/07/battesimo-bat-mitzvah-o-hijab-in-testa.html applicare il sincretismo culturale . èstato applicato come lei saprà durante i secoli vedere il caso del'andalusia dopo la reconquista 





AVEVO DIMENTICATOI D'AGGIUNGERE COSA INTENDE PER prepotenze involontarie


Date: Sat, 25 Jul 2015 18:25:15 +0200
Subject: Re: approfondimento dell'intervista sulla stampa del 19\7\2015
From: redbeppe@gmail.com
To: fc40@outlook.it





1. Il pregiudizio, o quello che noi riteniamo tale, è frutto di un modo di ragionare e di vivere che magari noi non conosciamo a fondo; e, anche se avessimo la prova certa che si tratta di qualcosa di completamente errato, dovremmo comunque rispettare chi ne è il portatore come rispettiamo colui che è portatore di una menomazione, di una malattia, di una forma d'ignoranza, di una qualunque forme d'inferiorità; chi pensa di poter cancellare i pregiudizi altrui, se non è Dio, si espone a commettere un errore e una soperchieria; al massimo si può cercare di correggerli, ma rimettendosi in discussione, quindi accettanto che possano essere gli altri a svelare i pregiudizi dei quali siamo invece noi ad essere vittime; 2. l'integrazione è appunto l'accoglienza del diverso e la convivenza con esso; il sincretismo è la creazione artificiale di una forma unica risultato dell'incontro di due forme diverse ma che non è riuscito a giungere a una sintesi; è semmai ciò che porta al pensiero unico (in Andalusia dopo la Reconquista si sono semplicemente obbligati a convertirsi o ad andarsene marranos e moriscos).  3) La prepotenza involontaria è quella che riposa su intenzioni soggettivamente buone ma che si risolve comunque in una coartazione della volontà altrui, magari messa in atto nell'intenzione di giovargli (tipo: "lo faccio per il suo bene", frase del resto spesso ipocrita. Saluti. FC



la mia terza email


mi scuso se ritorno ancora sull'argomento , ma dalla risposta al quesito :<< quando le dice : << «Penso che dovremmo seguire il modello tedesco dell’integrazione (l’accettazione della cultura diversa, ndr), e si è visto come i rapporti una volta pessimi coi turchi siano oggi eccellenti, e non quello francese dell’assimilazione (l’adesione alla cultura del Paese ospitante, ndr). >> non c'è il rischio che cosi s'arrivi ad un pensiero unico \ dominante e si uccidano le diversità ? >> non ho capito se lei ha , visto le sue prese di posizioni contro le guerre in Iraq e in Afganistan , cambiato idea e si è schierato per un pensiero unico che annulla le diversità culturali

Pensiero dominante è un conto, e nella storia la cosa si è affermata più volte, eliminazione delle diversità un altro. Comunque, sono spiacente ma non posso sostenere discussioni o dibattiti privati. La mia giornata è solo di 24 ore. Saluti. FC




Secondo me   F.C    ha  ragione  :  1) sul termine  razzismo   ma  visti i commenti   beceri allle  news  in cui  si parla  della situazione degli immigrati in italia  (  vedere  i comenti  ogni qualche  volta  succede  qualche  disgrazia  in mare  o  qualche  sbarco  ,   ecc  )   io parlerei di  neo razzismo    che mescola   populismo  odio per il diverso  ,  , demagogia  ,  xenofobia  . 2)  sulle  altre  cose  espresse  nell'intervista , perchè  bisogna   chiedersi come mai la gente  aderisce  in massa   alla propaganda   populista  \  malpancista  delle  bufale  sugli immigrati e non solo ., 3)  ed  sul pregiudizio  perchè    come tutte le cose per poterle  rimuovere  \  lasciare che avvvenga  cosi



Mentre mi sembra   più vago (  forse  ha ragione   gli rotto le scatole   con i mie  dubbi  )   sul  pensiero dominante   \  o



Il relativismo culturale Teoria formulata, a partire dal particolarismo culturale di Franz Boas, dall'antropologo statunitense Melville Jean Herskovits (1895 - 1963) secondo il quale, considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. In seguito il concetto di relativismo culturale diviene imprescindibile in campo antropologico, grazie anche all'attività divulgativa dell'allieva di Boas, Margaret Mead, la cui opera più celebre, L’adolescente in una società primitiva. (precedente di qualche anno alla formulazione esplicita del relativismo culturale), può essere considerata paradigmatica dell'utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale (in quel caso americana).
Da questa teoria sono derivate numerose tesi che raccomandano il rispetto delle diverse culture e dei valori in esse professati. Tali idee sostengono ad esempio l'opportunità di un riesame degli atteggiamenti nei confronti dei paesi del Terzo Mondo, richiedendo maggior cautela negli interventi e criticando la tendenza coloniale e post-coloniale ad imporre anche un sistema culturale mediante l'intervento umanitario, gli aiuti per lo sviluppo economico e/o la cooperazione internazionale (vedi inculturazione). Spesso critiche di questo tipo sono state rivolte alle organizzazioni che fornivano aiuti umanitari condizionati all'adozione di determinati comportamenti, come ad esempio la propaganda religiosa delle missioni cristiane.
Il relativismo culturale infatti porta avanti la convinzione per cui ogni cultura ha una valenza incommensurabile rispetto alle altre, ed ha quindi valore di per sé stessa e non per una sua valenza teorica o pratica. Secondo il relativismo culturale i vari gruppi etnici dispongono quindi di diverse culture e tutte hanno valenza in quanto tali. Il ruolo dell'antropologo viene di conseguenza ristretto all'analisi e alla conoscenza profonda di tali espressioni culturali da un punto di vista emico, mentre ogni valutazione di valore viene messa al bando come espressione di etnocentrismo, ovvero del punto di vista opposto rispetto al relativismo. Posizioni simili ha espresso Claude Levi-Strauss.
da   https://it.wikipedia.org/wiki/Relativismo




4.8.15

SASSARI Tiralatte rotti in ospedale, le neomamme minacciano la colletta Piccola vertenza a lieto fine nella clinica Ostetrica dell’Aou Compare la raccolta di firme in bacheca e l’azienda accelera i tempi burocratici per risolvere il problema

.SASSARI
Tiralatte rotti in ospedale, le neomamme minacciano la colletta

Piccola vertenza a lieto fine nella clinica Ostetrica dell’Aou Compare la raccolta di firme in bacheca e l’azienda accelera i tempi burocratici per risolvere il problema
Da la nuova sardegna  del  3\8\2015




Neonati in una foto d'archivio

SASSARI. Stufa di aspettare ore l’arrivo del tiralatte, una neo mamma ha deciso di risolvere il problema da sé. Ha preso carta e penna e ha affisso un foglio sulla bacheca del reparto di Neonatologia delle Cliniche di San Pietro.
È partita così una raccolta di fondi per comprare velocemente un apparecchio. Infatti ai pupi non interessano molto le lungaggini burocratiche del settore acquisti dell’Azienda ospedaliera universitaria: quando hanno fame non sentono ragioni, protestano e lo fanno a gran voce. Sono assolutamente impazienti, e odiano le attese.
I tiralatte, soprattutto per le mamme che nei primi giorni hanno difficoltà di allattamento, sono uno strumento indispensabile. In neonatologia generalmente ce ne sono quattro disponibili, ma è accaduto che due si siano improvvisamente rotti. Così, visto il numero elevato di ricoveri, e considerato che i tempi di utilizzo in genere sono di un’ora per sessione, due soli apparecchi si sono rivelati del tutto insufficienti.
Le mamme hanno subito protestato, e i responsabili del reparto si sono rivolti con urgenza ai vertici dell’azienda. Ma lo shopping per una clinica è un’operazione un tantino più complicata dall’andare direttamente in negozio e acquistare l’articolo.
Ci sono tempi burocratici che non sono compatibili con l’orologio biologicocolta fai da te. Per fortuna però l’Aou, vista la situazione di emergenza, è corsa velocemente ai ripari e nell’arco di qualche giorno è riuscita a sostituire i tiralatte fuori uso. Alla fine non c’è stato bisogno che la colletta delle mamme andasse avanti.

Il bar nella cabina telefonica: ecco il coffee box più piccolo di Birmingham






Molto small, molto british. Parliamo del Jake's Coffee Box, il caffè più piccolo di Birmingham allestito in una delle tipiche cabine telefoniche rosse. "Volevo creare qualcosa di diverso rispetto ai soliti bar – ha spiegato il gestore Jake Hollier .All'inizio i passanti mi guardavano con sorpresa, ma, secondo me, l'idea di usare una delle cabine rosse per un mini-locale non è male. In fondo sono la nostra icona”. Oltre al caffè, il piccolo bar vende anche paste, salsicce e altri snack. Da consumare rigorosamente in piedi, of course.

3.8.15

Bestemmia ( Alì e Shira sono stati barbaramente uccisi ) © Daniela Tuscano

Lui 18 mesi, lei 16 anni. La vita li aveva destinati a due fronti opposti sul medesimo lembo di terra, chiamatela Israele, Palestina o entrambi. Io ho sempre amato poco le rigide distinzioni, in questo momento poi non le sopporto.
Alì era un bimbo dolce e bellissimo, palestinese di Nablus.
Dal volto altrettanto bello dell’israeliana Shira l’infanzia stava dileguando, ma ancora resisteva, rosea e paciosa, soprattutto raggiante. Di quella completezza donata solo ai giovanissimi.
 
Chi l’ha assassinata invidiava quella felicità, ripete adesso la mamma. Se Alì fosse o no felice, lo ignoriamo. Lo ignorava pure lui, alla sua età l’interrogativo non si pone. Semplicemente si vive, la felicità è una cosa, le braccia materne, l’esitante austerità del padre, gli scintillii della piccola casa. I bambini piccoli non vedono bene, toccano, respirano. Sono “animali graziosi e benigni”. E per questo, a volte, il loro sguardo si vena d’una gravità inaspettata, misterica. Quasi percepissero il peso del mondo circostante.
Non c’è più Alì, l’hanno arso vivo mentre dormiva, gettando una bottiglia molotov nella sua cameretta. Volevano sterminare lui e la sua famiglia – e ci sono quasi riusciti – solo perché palestinesi. Non importava come si chiamassero, né cosa facessero. Uno valeva l’altro. Non dovevano esistere. E sui muri della casetta devastata hanno tracciato scritte deliranti: “vendetta” e “viva il Messia”. Gli emissari del “Messia” hanno bruciato un bambino.
Shira invece sfilava al Gay Pride di Gerusalemme. Felice, come sostiene la madre. Gaia. Si trovava lì per solidarietà coi suoi amici. L’hanno colpita i fendenti di Yishai Schlissel.( foto  a  destra  )   Lo chiamano estremista ultraortodosso, non nuovo a simili attentati, eppure libero di circolare… e d’uccidere. L’informazione ormai sofisticatissima ci ha restituito quegli attimi atroci in tempo reale,
la sagoma nera e ottusamente sgangherata di Schlissel pronta a ghermire la folla col suo coltellaccio da macellaio. 
Sì, è nero, quell’”ultraortodosso”. Nero come le bandiere di Isis/Daesh, suoi corrispettivi islamisti. E invece eccolo lì, tra i poliziotti che lo portano via, con alle spalle una bandiera ben diversa, un arcobaleno per lui intollerabile e folle. Yishai Schlissel, o l’ascetismo senza cuore. La superbia ossuta e, perciò, priva d’anima; quell’uomo è orrendo perché non più umano, forse pre-umano. Lo stadio obliquo dell’evoluzione.
I volti degli sterminatori di Alì rimangono, purtroppo, sconosciuti. Ma siamo certi somiglino molto a Schlissel. Possono essere giovani o anziani, uomini o donne. Belli o ripugnanti. Restano mostruosamente uguali, per quella stessa superbia, per la bestemmia di credersi iddii e dover punire e annientare chi trasgredisce la Legge (Alì, lo ripetiamo, l’ha trasgredita il giorno stesso che è venuto al mondo).
Il governo israeliano ha assicurato punizioni severe. Personalmente gli credo, ma non basta. Non più. Non intendo addentrarmi in analisi politiche, ma gli Schlissel e chi ha ridotto Alì in cenere sono il logico risultato d’un clima diffuso, d’un odio proclamato, insegnato, persino vantato da partiti vicinissimi a Netanyahu e di cui fanno ora le spese gli stessi israeliani. Il premier ha sostenuto di voler difendere le tradizioni democratiche d’Israele dai crimini degli “ultraortodossi”, ma una democrazia, per essere reale e matura, non può ignorare i pur problematici vicini e ostinarsi a negare il diritto a esistere del popolo palestinese. Alì non è stato certamente il primo bambino a perire in modo così tremendo, ma la notizia del suo martirio ha avuto un’eco mai ottenuta in precedenza e scosso l’opinione pubblica mondiale. Tralascio la desueta e ipocrita frase “almeno il suo sacrificio è servito a qualcosa”. Primo, perché Alì non intendeva sacrificarsi neppur lontanamente; secondo, perché i sacrifici non servono mai; “misericordia voglio e non sacrifici”, ammonisce la Bibbia.
Già, la Bibbia. Il Libro. La Legge poc’anzi ricordata. Se Alì ha perso la vita a causa d’un abominevole connubio tra politica, fanatismo religioso e razzismo, Shira è stata eliminata perché manifestava con gli omosessuali, anzi coi “sodomiti”, e i sodomiti, nella Bibbia (ma pure nel Corano e in altre confessioni), sono condannati.
La religione giustifica il gesto di Schlissel? No, naturalmente. Gliene ha offerto però il pretesto? Per molti, altrettanto naturalmente, sì. Per quei molti, con la religione occorrerebbe solo farla finita; dimenticando che, quanto agli omosessuali, il trattamento loro riservato da regimi atei, di nome e/o di fatto – Urss, Cuba, Nord Corea, per tacere, in passato, della Germania nazista… - non si è rivelato né più tollerante, né più misericordioso. Ed eccoci tornati al vocabolo originario, misericordia. Qualsiasi religione, se autentica, se incontaminata dal fondamentalismo e dal millenarismo, non mortifica l’umano; il suo messaggio è sollievo per tutti; Asia Bibi, dal suo calvario infinito, ci sta dimostrando, ed è solo l’ultimo caso, il potere liberante della religione. Non schiavitù, non odio e ignoranza, non condanna, non invidia dell’altrui felicità.
Sono consapevole dell’estrema povertà delle mie parole. Soluzioni, non ne possiedo. Le apologie, oltre che inopportune, in simili casi divengono strumentali. Non difendiamo idee, per quanto nobili. Ma persone. E per questo urge una serissima riflessione certamente degli studiosi (politologi, storici di ogni latitudine, sesso ecc.), ma anche e soprattutto dei credenti. Il dilagare della peste fondamentalista esige, da parte nostra, un rinnovato linguaggio ed esegesi dei testi, uno slancio più deciso verso il dialogo ecumenico e un ascolto sempre più partecipe di quell’”altro”, di quell’ospite, uomo e donna, che in realtà è il nostro specchio. Perché i muri, li abbiamo in primo luogo dentro, e v’imprigioniamo tutto, anche Dio, il quale invece è somma libertà e detesta formule preconfezionate. Perché i muri vanno sì abbattuti, ma non bruciati, e le persone non si riducono a cortei. Dietro quei cortei si odono voci, storie. Dietro quei muri si snodano vite semplici e irripetibili. 

L’assassinio di Alì e Shira ha, quindi, un solo colpevole: non Dio, ma la superbia umana. Colei che riduce la religione a una nota, sempre la stessa, monotona, assillante, e la spaccia per Verità irrefragabile; colei che vuole il mondo nero, perché teme i colori; e non prende il largo, perché negligente. Colei che cerca pretesti alla sua insipienza. 

                                                       © Daniela Tuscano

1.8.15

aiutare o no aiutare gli altri ? si aiutare ma fino ad un certo unto

A volte tendiamo la mano verso una persona che ha bisogno, anche quando la persona stessa non ce lo chiede... A volte lo stesso aiuto viene denigrato e attaccato... Mai aiutare chi non vuole essere aiutato... questo video lo spiega chiaramente..



da  https://www.facebook.com/DanielePennaFanPage/

LE ANIME BELLE ESISTONO E RESISTONO ... Lei si chiama Chiara Trevisan, ha 46 anni e di mestiere legge libri agli sconosciuti.

  da   Mauro Domenico Bufi    21 dicembre alle ore 11:05   il suo carretto carico di libri, frasi, parole, storie. In testa un buffo cappell...