22.1.19

l'olocausto \ shoah non fu solo in germania ma anche in italia . oltre fossoli \ san saba il campo di Bolzano

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Campo di transito di Bolzano

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Il campo di transito di Bolzano (in tedescoPolizei- und Durchgangslager Bozen, anche Dulag Bozen) fu un campo di concentramento nazista che fu attivo a Bolzano dall'estate del 1944 alla fine del secondo conflitto mondiale. Prima di questa data era già in essere dal 1942 un lager per prigionieri di guerra alleati.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Vista del campo di transito di Bolzano
Bolzano, dopo l'8 settembre, era divenuta capoluogo della zona d'operazioni delle Prealpi, e si trovava dunque sotto il controllo dell'esercito tedesco.
Entrò in funzione nell'estate del 1944[1], in vecchi capannoni del genio militare italiano[2], e nei circa dieci mesi di attività passarono tra le sue mura tra 9.000 e 9.500 persone. Per decenni si è ritenuto che il numero dei prigionieri fosse superiore, perché la matricola più alta assegnata nel campo fu l'11.115, ed era noto che molti prigionieri - a cominciare dai circa 400 ebrei - non vennero immatricolati[3]. In realtà a Bolzano la numerazione non partì da 1, ma circa da 2979[4], proseguendo da dove si era giunti a Fossoli. Tuttavia Mike Bongiorno, che fu tra i detenuti, ricevette il numero di matricola 2264[5]. I deportati provenivano prevalentemente dall'Italia centrale e settentrionale (circa il 20% fu arrestato a Milano, il 10% nella provincia di Belluno che con Trento e Bolzano era stata annessa alla Germania dopo l'8 settembre 1943 con la creazione della zona d'operazione delle Prealpi). Si trattava principalmente di oppositori politici, ma non mancarono deportati ebrei, zingari (Rom e Sinti) e Testimoni di Geova[6][7].
Una parte dei deportati - circa 3.500 persone, uomini, donne e anche diversi bambini - fu trasferita nei campi di sterminio del Reich (ad esempio MauthausenFlossenbürgDachauRavensbrückAuschwitz); una parte fu invece utilizzata in loco, come lavoratori schiavi, sia nei laboratori interni al campo, che nelle aziende della vicina zona industriale ed alla IMI, che aveva trovato rifugio all'interno della galleria del Virgolo per sfuggire ai bombardamenti alleati, ma anche come raccoglitori di mele[2].
Durante la storia del campo, 23 italiani che furono catturati e lì internati, furono successivamente trucidati nell'eccidio della caserma Mignone, il 12 settembre 1944. In totale sono documentate come certe circa 48 uccisioni nel campo, anche se ne sono state ipotizzate fino a 300[8].
Man mano che gli alleati avanzavano, i deportati furono liberati a scaglioni tra il 29 aprile ed il 3 maggio 1945, quando il lager fu definitivamente dismesso. Le SS ebbero cura di distruggere per intero la documentazione relativa al campo prima di ritirarsi[9].

Il campo[modifica | modifica wikitesto]

I blocchi erano contrassegnati da una lettera. Nel blocco A, vi erano i lavoratori fissi, trattati leggermente meglio degli altri prigionieri perché necessari al funzionamento del campo; nei blocchi D ed E erano rinchiusi i prigionieri politici considerati più pericolosi, separati dagli altri deportati; nel blocco F donne e bambini[9]. I deportati ebrei di sesso maschile venivano invece stipati nel blocco L[10]. Era presente anche un blocco celle - la prigione del campo - con 50 posti angusti. Le celle furono luogo di tortura e di morte per decine di prigionieri.
Amministrativamente il campo era gestito dalle SS di Verona. Comandante della Gestapo e del servizio di sicurezza tedesco in Italia era il Brigadeführer (Generale di brigata) delle SS Wilhelm Harster[2], a capo del campo vi erano invece il tenente Karl Titho ed il maresciallo Haage, che guidavano una guarnigione composta da militari tedeschi, sudtirolesi ed ucraini[9] i quali si resero responsabili di esecuzioni sommarie, torture e violenze di ogni genere[11].

I sottocampi[modifica | modifica wikitesto]

Il campo di Bolzano fu l'unico, tra quelli italiani, ad avere dei campi di lavoro dipendenti. Interrotti dai bombardamenti alleati i collegamenti ferroviari e stradali del Brennero, e quindi impedite le deportazioni verso i grandi lager del Reich, i nazisti crearono dei sottocampi nella regione per sfruttare il lavoro dei prigionieri. I principali si trovavano nel comune di Merano, in località Certosa nel comune di Senales, a Sarentino, a Moso in Passiria ed a Vipiteno. Altri erano a Dobbiaco e Colle Isarco. In realtà, la definizione di sottocampi è piuttosto impropria: si trattava o di baracche (Sarentino) o di caserme dell'esercito (Merano e Vipiteno) o della Guardia di Finanza (Certosa)[10].

Il campo satellite di Certosa[modifica | modifica wikitesto]

Ospitava circa 50 deportati, deputati al trasporto merci dalla stazione di Senales in paese; in un primo momento furono rinchiusi in baracche in paese, poi nella caserma della Guardia di Finanza[12]. Fu smantellato all'inizio del 1945.

Il campo satellite di Merano[modifica | modifica wikitesto]

Era il quarto campo satellite per numero di deportati (dopo Sarentino, Vipiteno, Moso[13]), oltre un centinaio, che trovavano posto nella caserma Bosin, nei pressi dell'ippodromo cittadino. Anche in questo campo, compito principale dei deportati era quello di trasportare materiale dalla stazione.[14]
Il CLN meranese fu molto attivo nel supporto a questi deportati[13], e si segnalò in modo particolare un sacerdote, don Primo Michelotti.[14]

Il campo satellite di Sarentino[modifica | modifica wikitesto]

Fu di gran lunga il più grande fra i campi satellite. Oltre 500[13] furono i deportati nelle sei baracche costruite all'imbocco della val Sarentina. Compito dei deportati, oltre a lavori di falegnameria,[15] era qui soprattutto quello di allargare la strada: la val Sarentina, che corre parallela alla val d'Isarco avrebbe potuto costituire una via di ritirata alternativa.[13]
L'origine del campo è dovuta ad una serie di falliti trasferimenti a Mauthausen nel febbraio 1945. La linea del Brennero era stata danneggiata, ed i deportati nel Lager di Bolzano erano diventati troppo numerosi. Le SS decisero dunque di trasferirne una parte all'imboccatura della valle, per poterli utilizzare nel cantiere stradale.[16]

Sistema di codifica dei contrassegni dei prigionieri[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Simboli dei campi di concentramento nazisti.
Nel Campo di transito di Bolzano vigeva un utilizzo dei simboli identificativi degli internati differente rispetto a quello comune a molti lager:[17][18]
  • un triangolo rosso contrassegnava gli oppositori politici;
  • un triangolo rosa contrassegnava i rastrellati;
  • un triangolo giallo contrassegnava gli ebrei;
  • un triangolo bianco o verde contrassegnava gli ostaggi.

La resistenza[modifica | modifica wikitesto]

Era presente un'organizzazione di resistenza con ramificazioni interne ed esterne al campo. In realtà si può parlare di tre forme distinte e parallele di resistenza[19]: una politica, organizzata dal Comitato di Liberazione Nazionale (prima dall'emanazione locale di quello milanese, fino al dicembre 1944, poi - quando si strutturò - da quello bolzanino) e dalle brigate partigiane; una organizzata dal clero (molti furono i sacerdoti arrestati e deportati per aver fornito aiuto agli internati nel Lager); una spontanea, fatta di semplici cittadini che portavano aiuto autonomamente, magari a parenti internati. L'attività coinvolse decine di persone che riuscivano a far giungere notizie dei deportati al di fuori delle mura, e viceversa.[9]
Per tutta la vita del campo funzionò un comitato clandestino di resistenza interno - coordinato da Ada Buffulini[20] e che vedeva fra gli animatori anche Laura Conti ed Armando Sacchetta[21] - che lavorò in costante contatto con un comitato clandestino operante nella città di Bolzano e che fu diretto fino al 19 dicembre 1944, data del suo arresto, da Ferdinando Visco Gilardi ("Giacomo") e quindi, fino alla liberazione, da Franca Turra ("Anita").[20] Grazie a questa rete furono fatti pervenire ai prigionieri del lager centinaia di pacchi con generi di prima necessità, viveri e vestiario, e si mantenne attiva e operante una rete clandestina di corrispondenza che consentì a centinaia di famiglie di avere notizie dirette dai prigionieri: quelle lettere sono in moltissimi casi l'ultimo segno di vita di deportati uccisi nei lager nazisti.
La rete interna organizzò e realizzò con successo decine di fughe dal campo: ne sono documentate una cinquantina.[19]

I processi[modifica | modifica wikitesto]

Nel novembre 2000 il tribunale militare di Verona ha condannato all'ergastolo Michael Seifert, pena confermata poi in appello (2002) ed in cassazione (2003).[22] Questi, nato in Ucraina, fu da giovanissimo una SS al campo di Bolzano, noto col soprannome di Misha. Si era reso protagonista, insieme ad un'altra SS ucraina, Otto Stein[23], di una lunga serie di atrocità nei confronti dei deportati. Vittime preferite, secondo quanto stabilito dai giudici, coloro che occupavano il blocco celle.
Si tratta di uno di quei casi giudiziari, come ad esempio quello per l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, rimasti sepolti per decenni in quello che è stato soprannominato l'"armadio della vergogna", riportato alla luce solo nel 1994. Tra i prigionieri di Seifert e Stein vi fu anche un giovanissimo Mike Bongiorno.[24]
Seifert, che dopo la guerra si era rifugiato in Canada, a Vancouver, dovette rispondere di 15 capi di accusa, tra cui 18 omicidi.[25] Fu rintracciato e fotografato da un cronista del Vancouver Sun, su indicazione dell'ANED,[26] pochi giorni prima dell'inizio del processo.
La sua vicenda, attraverso le carte processuali, è stata ricostruita dagli storici Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo nel libro "Mischa". L'aguzzino del Lager di Bolzano.[27] Il 17 gennaio 2008 la Corte Suprema del Canada,[28] dove risiedeva dal 1951, ha respinto la domanda per il permesso di appello dell'ottantatreenne criminale contro la sua estradizione in Italia, dove dovrà scontare l'ergastolo.[29] Seifert è giunto in Italia il 16 febbraio 2008.[30]
Otto Stein risulta ancora ricercato dalla giustizia italiana.[22]
Alcuni anni prima, nel 1999, finirono sotto processo anche i comandanti del campo, Titho e Haage: il primo fu assolto per insufficienza di prove, contro il secondo, ritenuto dai giudici il vero padrone dei campi, non si poté procedere perché deceduto.[31]

Il campo oggi[modifica | modifica wikitesto]

Il monumento di via Pacinotti
La Pietra d'inciampo, posata nel gennaio del 2015 in memoria di Wilhelm Alexander Loew-Cadonna (1873-1944)
Nel luogo che ospitava il campo di Bolzano oggi sorge un complesso di case popolari realizzato negli anni '60. Del campo rimangono poche tracce, praticamente solo il muro di recinzione. All'entrata principale si notano illustrazioni che ricordano il tragico luogo. Nel 2005 il comune ha bandito un concorso per una serie di quattro installazioni artistiche a ricordo dei deportati. Le opere vincitrici, della scultrice bolzanina Christine Tschager, si trovano nei pressi dell'ex-Lager, in via Pacinotti (lungo i binari che attraversavano la zona industriale di Bolzano e su cui passavano i treni da e per il campo) ed in via Claudia Augusta (non lontano dalla galleria del Virgolo, luogo di lavoro coatto dove era stata trasferita la fabbrica IMI).[32]
Già nel 1985 il comune aveva fatto erigere un monumento (opera di Claudio Trevi) ed una stele in memoria delle vittime del campo, ma non nell'area del campo stesso: sorge infatti sul sagrato della chiesa di San Pio X, poco distante da dove si trovava l'ingresso del lager, ma sull'altro lato della via Resia.[33]
Nel 2012, infine, è stato inaugurato, in occasione della Giornata della Memoria internazionale dedicata all'Olocausto, in via Resia 80 il Passaggio della Memoria (Passage der Erinnerung), facendo della via d'accesso al campo un luogo di memoria con tabelle esplicative in più lingue che narrano le vicissitudine legate alla storia del campo.[34]
Dal 2015, una delle Pietre d'inciampo a Bolzano ricorda la vittima ebraica Wilhelm Alexander Loew-Cadonna, internato e maltrattato nel Lager di Bolzano prima della sua deportazione a Auschwitz.[35]

21.1.19

Il piccolo Martino ce l'ha fatta: a Davì la figurina di Belotti Il bimbo, tifoso della Fiorentina, aveva deciso di rintracciare un piccolo cuore granata che aveva visto in lacrime in tv


Leggo ora    sulla pagina  facebook  del quotidiano    l'unione  sarda   il lieto  fine di  una  vicenda  di cui   avevo  parlato  in un post precedente  ( non riporto  l'url  perchè  voglio proprio che  andiate  a cercarllo  ,  mica  devo ogno volta  fdarvi la pappa  pronta  :-)  ) 


Il piccolo Martino ce l'ha fatta: a Davì la figurina di Belotti
Il bimbo, tifoso della Fiorentina, aveva deciso di rintracciare un piccolo cuore granata che aveva visto  in lacrime in tv


                              La letterina di Martino (foto da Facebook)





Alla fine Martino ce l'ha fatta.
Il baby tifoso della Fiorentina aveva commosso l'Italia con la sua letterina in cui prometteva la figurina di Belotti al piccolo coetano granata, a lui sconosciuto, che aveva visto in lacrime in tv.
Lui, con somma fiducia, aveva consegnato il semplice quanto gentile pensiero, sintetizzato in poche righe, alla mamma, pregandola di rintracciare il piccolo.
E lei, aveva pensato di inoltrarla agli unici canali che in qualche modo avrebbero potuto aiutarla: giornali e tv.
Subito si è aperta una vera e propria "caccia" al piccolo cuore granata, che è stato in breve tempo scovato: si chiama Davì, e i due bimbi hanno potuto incontrarsi ieri negli studi di Sky Sport.
Martino ha consegnato la preziosa figurina di Belotti a Davì, che è arrivato da Volpiano, in provincia di Torino, con il fratellino Mattia e il papà.
I due, che si erano incontrati prima ai giardinetti per due calci insieme al pallone, hanno subito legato e insieme, dagli studi di Sky, si sono goduti la sfida di campionato Roma-Torino.
Poi, a fine giornata, una magnifica sorpresa per entrambi: due figurine formato maxi dei due calciatori idoli dei piccoli, il "gallo" Belotti e Federico Chiesa.




Martino, il bimbo di 6 anni tifoso della Fiorentina, è riuscito nel suo intento. Davì, il bambino tifoso del Torino immortalato dalle telecamere mentre piangeva per la sconfitta dei granata contro i viola in Coppa Italia, quella lettera l’ha letta. E l’ha apprezzata molto. 


Soddisfazione del padre  di David   che    sempre  a   il torosiamonoi   :  <<   In un momento in cui il calcio è sempre più spesso violenza,questo bimbo fiorentino ha dato un bell'esempio”. >>
 >>


bufera nella trasmissione alla lavagna del 19\1\2019 per WLADIMIR LUXURIA

la puntata ha creati mote polemiche , alcune anche accese e iene d'odio come  esempio  questo commento   a quest  articolo     de https://www.ilmessaggero.it/


mamma70

2019-01-21 14:55:27

Gay o trans non si nasce ma ci si diventa e schifosi sono i genitori che hanno dato il consenso a far partecipare i loro figli ad una trasmissione del genere. Ma evidentemente sono di una ben definita corrente politica




o quest'altre  due  presa su facebook 
A Casa tua fai ciò che vuoi ma a scuola si dovrebbe imparare altro.


Salvatore Zizi
Non mi piace che un trans o mezzo uomo e mezza donna faccia lezione ha dei ragazzi ... è meglio che le sue idee se le tenga per se...
Vedendo sollecitato     dalle polemiche   e   da  interventi  carichi   come quelli  riportati sopra    che   non capiscono o  non vogliono  capire   che il mondo  è  cambiato e  sta  cabiando  ogni  giorno di  più  .,  e  dalla   disinformazione  e di  tracotanza   e  supponenza (  come  questo   riportato sotto   )




 nell'essere   nel  giusto   che considera   le  diversità     sessuali  come   una devianza  ,  una  malattia  ,  un esibizione  quando  ,  a mio avviso  ,   in questo caso  non esiste .   

Infatti 
Secondo quanto  dichiara   Cristina  Porcino    in  una mia intervista rilasciata in occasione dell’uscita dell'ottimo  libro “Altro e altrove” (  #ilfilosofoimpertinente #altroealtrove #chihapauradelgender #gender )


Ecco quindi che concordo   con Luxuria    quando  ha    dichiarato   sempre  al messaggero (  vedere  url  citato nelle  righe precedenti  )  , 

che  «Non ho fatto alcuna lezione su come si diventa trans perché anzi ho cercato di spiegare che si nasce gay o trans. Ho parlato soprattutto di bullismo. Ma queste polemiche dimostrano che i bambini sono molto più avanti di certi adulti». Quindi trasmissioni  come questa ,  parlo anche per  esperienza  personale  , dimostra  come  i  bambini sono tutt'altro che ingenui. Anzi. Sono particolarmente arguti e spigliati ( a  volte  anche   troppo ) e, soprattutto, senza peli sulla lingua  .
Infatti 
 i bambini capiscono più degli adulti
Non  capisco   e mi  fanno  🗯🌩🌪💥💨😡🤬🤬🤬 le  dichiarazioni  di quelli che  ben  pensano  ( citazione  musicale ) -- vedere anche   video  sopra --    e dichiarazioni della Lega a tal proposito. A parlare è Paolo Tiramani, capogruppo della Lega in Vigilanza Rai: «Queste "lezioni" sono inaccettabili. Soprattutto se avvengono nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda su Rai 3, dove erano protagonisti giovani alunni che ascoltavano lezioni da una "mancata soubrette" la cui vita personale dovrebbe restare tale»
ho trovato il programma molto bello e non così osceno come dite.. Credo che le lezioni sull'educazione sessuale   e  sulla   sua  diversità  sia  una cosa giusta.  Concordo  con 

Gianluca CannasDeplano Quindi dovremo tornare indietro di 50 anni? Quando tutto era tabù? Ma che discorsi sono? Ci preoccupiamo di queste cose!! Poi lasciamo i nostri figli a smanettare su internet con i cellulari senza preoccuparci di cosa guardano per stare tranquilli.. È ci scandalizzamo se si parla di cose che esistono da millenni... Menti chiuse come una cassaforte.. Poi tempo per capire... Non ho parole





20.1.19

il tatuaggio oggi ? intervista mancata al il primo tutuare italiano G.Fercioni

Ho sempre  avuto una passione   per  i tatuaggi   perchè   i corpi parlano da sé perché un corpo tatuato racconta  (  o almeno  dovrebbe   ) raccontare  la sua storia di qual  crppo  e  di quella   persona  non il
 Agnata di de  Andre  time in jazz 2017 
suo essere e apparire come  avviene  oggi  . inoltre essi  fanno parte  d'una identità   di un popolo   come dimostra  il lavoro .

  di   Adam Koziol è un fotografo polacco di 26 anni .


Ed  il percorso     di  Svicolo".un pioniere del Tatuaggio Undergound romano: Fonda la Aothr tattoo Studio



Sia quello , vedere sotto , quello di G.Fercioni
Ma per  paura  ed  allergie  alla pellle  ho paura  a farmelo . Purtroppo   esso    da  segno di ribellione  ed  identitario, il tatuaggio è diventato fenomeno di massa  snaturandosi  . Una moda promossa da calciatori e showgirl  ed  altri   pseudo vip  subito raccolta dal resto del mondo. Con tutti gli effetti collaterali della situazione come fa  notare  questo  intreressanbte  articolo  di linkiesta.it  .
Ma meno male che c'è ancora chi lo pratica con una certa etica e con passione come Gian Maurizio Fercioni ed per questo che viene mal visto : << Va in pensione sei vecchio non usi le nuove tecniche molto più sicure e precise cosi finalmente lasci posto ai giovani che già con tutte ste regole e nei capoluoghi non è come una volta che tatuatorre  do cazzo te capitava e come capitava e nessuno ti diceva nulla oggi diventare tatuatore costa attorno ai 6 mila euro. senza contare lo studio che, se non sei amico di qualcuno tipo te, ti dovrai aprire da solo. >> ( commento al primo video video riportato sotto )



Gian Maurizio Fercioni classe 1946 è il Maestro del tatuaggio tradizionale in Italia ma definirlo
semplicemente tatuatore è riduttivo... Infatti Nella sua vita Mr. Fercioni è stato marinaio, pugile, avventuriero e oggi si divide tra il suo studio tattoo in Brera e le collaborazioni, come scenografo, con diversi teatri milanesi e non solo,è   il primo    anzi  il  prionere  del tutuaggio in Italia .
 estratto dal secondi video 
 Infatti egli è  ,  secondo  questo articolo    di Nicolai Lilin pubblicato per Riders  Aprile 2011 ,un tatuatore vero nel senso più profondo del termine, ha contribuito alla trasformazione del tatuaggio da una dimensione quasi esoterica, destinata a pochi, alla sua dimensione attuale, moderna e aperta a tutti. Ma nel passaggio al carattere più consumistico della società moderna, non ha dimenticato i vecchi valori dei tatuatori di una volta, restando un realizzatore dei sogni, dei desideri che le persone esprimono sulla propria pelle attraverso lui.Ecco quindo  che    ed incuriosito  da    questa  intervista     rilascita  a www.vice.com/it   già  proposta  in un mio precedente   post    Ed   e  volendo approfondire  alcune  cose ivi espresse ho  provato  a mandarli  una email  ,    senza  ottenere risposta ,   per poterlo intervistare   

1)  il  tatuaggio oggi è solo  moda  opure  esiste  , a parte voi  , qualcun 'altro\a  che   lo faccia   con una certa  etica  ovvero  raccontare  la sua storia di qual  crppo  e  di quella   persona  non il suo essere e apparire come  avviene  oggi  ?
2)    tatuaggi  che  pratica   volentieri  e  che  pratica  malvolentieri ?
3)    gli  è  ma  capitato   che   gli venisse richiesto  , e come  ha reagito     di  tatuare i genitali  
4)   visto  che  lei   è una persona di cultura    ed  ha  imparato ed  approfondito  il  tatuaggio sul campo  rispetto ad altri   che lo fanno solo  in rete  o  in modo  standard  ed  accademico    definisce  da cretini tatuarsi mani  e  collo    tanto  da  non tatuarli  
 5)    come  mai  , assi per  minorenni  , ubriachi , tossici  ,  ecc  che non sanno   sopratutto  i minori ,  ciò  che  fanno  ,   come mai   ha scelto di non tatuare   simboli politici  ?
6) tatuaggio  con  macchinetta elettrica ad aghi o tatuaggio a mano   ?
7 ) hai  mai fatto dei  tatuaggi   medici  cioè 
Il tatuaggio (o dermopigmentazione) con finalità medica ha lo scopo di ripristinare l'aspetto di una cute sana in caso di condizioni patologiche della cute oppure viene utilizzato come complemento agli interventi di chirurgia ricostruttiva..
8)  ha  mia  fatto ricorso al   cover up  tattoo  ?
9) tatuaggio temporaneo \ henna tattoo  o definitivo
10 ) nero o  colori  ?  

Da Trieste a Buenos Aires nel ‘48 per far conoscere la tragedia delle foibe «Una storia da riscoprire»



da
https://bergamo.corriere.it/notizie/cronaca/19_gennaio_19/


Da Trieste a Buenos Aires nel ‘48 per far conoscere la tragedia delle foibe «Una storia da riscoprire»
Parlano i discendenti bergamaschi di Rodolfo De Gasperi, capitano della marina che portò a termine il viaggio. «Partirono tra l’indifferenza angloamericana e il sarcasmo della radio jugoslava». 5 mesi di viaggio: accolti da Peron
di Francesco Ruffinoni


Soccorritori tra le foibe nel 1945
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Da Trieste fino a Buenos Aires, attraversando l’Atlantico: fu la spedizione del comandante Rodolfo De Gasperi, che, nel 1948, con nove compagni e due piccole barche (l’«Italia» e la «Trieste»), partì dal Molo Audace alla volta del Sud America, per portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la tragedia delle foibe e il dramma che stavano vivendo gli italiani della Venezia Giulia. Una spedizione che, allora, fu pressoché taciuta dalla stampa nazionale, anche dopo la pubblicazione, ad opera della giornalista Rina Cioni, del libro «Italiani sul mare» (Edizioni Abete, 1951), e che, oggi, i discendenti bergamaschi di Rodolfo De Gasperi vorrebbero far conoscere.


Rodolfo De Gasperi

«L’idea della spedizione venne a Glauco Gaber — racconta Alberto Cammarota, pronipote del comandante De Gasperi —. Triestino e irredentista, aveva preso parte ai primi ritrovamenti delle salme degli “infoibati”. Da qui, la volontà di far conoscere al mondo l’eccidio titino. Serviva, però, un marinaio esperto, che venne individuato nella figura di mio zio». Nato a Gradisca d’Isonzo, Rodolfo De Gasperi era passato per i gradi della marina mercantile, servendola, come Capitano di lungo corso, durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1943, dichiarato inabile alla navigazione causa ferite di guerra, lasciò la Marina e ottenne una Cattedra presso l’Istituto nautico di Trieste. Fino alla chiamata di Gaber.






«Gaber fece leva sullo spirito patriottico di mio zio – spiega Cammarota –. Una volta che accettò, lo nominò comandante della missione. Si provvide, poi, al completamento dell’equipaggio e al reperimento delle imbarcazioni: due scialuppe del tipo lancia di salvataggio di 7 metri di lunghezza per 2 di larghezza, con una profondità di scafo di appena 90 centimetri e una radio come unico contatto con la terraferma: tutto quel che si potevano permettere. Partirono la notte del 16 dicembre, tra l’indifferenza delle autorità anglo-americane e il sarcasmo della radio jugoslava». Il litorale adriatico, i porti della Puglia e della Sicilia e, infine, l’oceano.


Un viaggio però pieno di complicazioni. A Gibilterra, per problemi tecnici, l’equipaggio della «Trieste» decide di tornare in Italia. Rimangono in quattro con una barca. Il 9 settembre 1949, dopo esser scampati a cicloni e fortunali, i marinai entrano nel porto di Fortaleza. È la prima di una serie di tappe che li porterà fino in Uruguay, in un crescendo di entusiasmo da parte delle comunità italiane sudamericane. Il 24 maggio 1950, giungono a Buenos Aires, dove vengono accolti dal presidente Perón. Ritorneranno in patria con un volo Alitalia. «Il tabù delle foibe venne sdoganato solo nel 2004 — afferma Cammarota —, ma l’impresa di mio zio rimane nella Storia. Il suo non fu unicamente atto di eroismo, ma testimonianza di patriottismo e impegno civile. E ciò, in un’epoca satura di “Schettini”, non può che diventare esempio di speranza».
19 gennaio 2019 | 11:30

Il regalo del fotografo Salgado ai ragazzi di Binario 49, una mostra con le sue foto inediteBinario49 ha condiviso una foto. 2 h · Già è tutto vero ! La realtà, se si vuole, è un sogno meraviglioso.


L'immagine può contenere: 1 persona, nuvola, cielo e spazio all'aperto
Inizialmente ero  incredulo ,  credevo  fosse  una   bufala  \ fake news    perchè  è rarissimo (   ed  questo  è uno dei rarissimi casi  )    in  cui  fotografi  professionisti   e  altamente  quotati  come  Salgado       regali    ad  un locale  appena  aperto   un anteprima  nazionale  di una  mostra    , per  lo   più  con foto inedite  . Ma   poi  leggendo   un post        trovato  sulla pagina    facebook  del locale in questione  Scopro   che  ciò'  È tutto vero. 

Ecco    quindi   La storia dei ragazzi di provincia che convincono @sebastiaosalgadoofficial a portare una sua mostra, inedita in Italia, in via Turri a Reggio Emilia è reale. È in arrivo una nuova esposizione a Binario49 e Spazio Gerra, organizzata da Casa D’Altri con il nostro Team e con il contributo del @comunedireggioemilia



Ora    va bene ed è  comprensibile    che   Repubblica (    trovate  sotto   un mio  tentativo   di  riportane  una  foto     con l mio cellulare  )   non pende più  sold pubblici e  si basa  sugli abbonamennti dei  lettori  ,  ma  almeno  gli articoli  più  importanti  potrebbe  metterli   o  free     oppure   far  pagare lo  quell'articolo e non costringerti  ad  abbonarti  all'intero  giornale  

L'immagine può contenere: 3 persone, persone che sorridono, testo

  Un post  che  sarebbe rimasto  incompleto  ,   visto  che  gogle  riportava   solo  l'articolo  a  pagamento  di repubblica  ,  ma  per  fortuna ho  avuto l'intuizione  di   cercare  su  fb     (  di vui  trovate  la  foto  a  centro )    la  pagina  del  locale che  mi  ha permesso di trovare





questo articolo  di  https://www.reggiosera.it/2019/01/



Il regalo di Salgado ai ragazzi di Binario 49, una mostra con le sue foto inedite

Sarà inaugurata il 9 febbraio nel locale di via Turri e nello spazio Gerra: cento scatti mai visti dei suoi viaggi in quel continente. Il grande fotografo: "Chi lavora controcorrente deve essere aiutato"
REGGIO EMILIA – Una mostra in prima nazionale, il 9 febbraio, a Binario 49, del grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado, inedita per l’Italia. Si chiamerà Africa (nella foto un’immagine della mostra “Africa” (Etiopia 1985). Foto Sebastião Salgado / Amazonas Images) ed è stata regalata dall’artista che si è innamorato del progetto dei tre giovani reggiani, Claudio Melioli, Alessandro Patroncini e Khadija Lamami, che hanno scommesso sull’apertura di un caffè letterario in via Turri, nel cuore del quartiere più multetnico e problematico della nostra città.
Non è un caso che Salgado abbia scelto questi ragazzi. Proprio una riproduzione gigantesca della affollatissima stazione di Bombay, presa da una foto scattata da Salgado, è appesa al muro di Binario 49, a ricordare che, in fondo, tutti questi posti sono uguali: luoghi di scambio, brulicanti di umanità. E Claudio Melioli, ricercatore astrofisico e ceramista, ha lavorato per dieci anni in Brasile come operatore sociale e come astronomo.
Claudio ha pensato che le cose impossibili sono, forse, le uniche che si possono realizzare e, tramite suoi amici brasiliani, ha iniziato a cercare Salgado fino a che, una domenica mattina, il grande fotografo lo ha chiamato e gli ha detto: “Sono Salgado, so che mi state cercando. Cosa posso fare per voi?”. Dopo la conversazione telefonica ha deciso di regalare una mostra a Binario 49. Si chiamerà Africa: cento foto originali, il riassunto di trent’anni di viaggi in quel continente. La mostra è talmente grande che non starà tutta a Binario 49, ma verrà suddivisa fra via Turri e lo Spazio Gerra.
Binario
Salgado proverà a venire per l’inaugurazione se ce la farà, dato che ha subito un’operazione per un tendine rotto durante i suoi sopralluoghi nella foresta amazzonica. Ci sarà sicuramente il figlio Juliano, autore delle sequenze di quello che, assieme a Wim Wenders, è diventato il film “Il Sale della tera”.
Ha detto il grande fotografo in un’intervista a Repubblica: “E’ il mio regalo a questi amici mai visti. Quello che sta succedendo ai nostri due Paesi è molto simile. Qui la vittoria di Bolsonaro è una minaccia per gli indios, i neri, la povera gente. Da voi crescono la paura e l’ostilità verso i migranti. Chi lavora controcorrente deve essere aiutato”.




Letteratura. La poesia indaga l'abisso della Shoah


Alessandro Zaccuri sabato 19 gennaio 2019


Giovanni Tesio raccoglie un’ottantina di poesie dedicate al dramma dello sterminio ebraico

                        Il campo di concentramento di Birkenau (Ansa)

Una donna ha i capelli d’oro, l’altra ha capelli di cenere: le parole non possono raccontare quello che c’è in mezzo, non riescono a popolare il vuoto che separa Margarete, perduta all’amore per Faust, da Sulamith, la sposa del Cantico dei Cantici. Le parole possono però testimoniare, anche con il silenzio e con la reticenza, specialmente con il pudore. Sono versi famosissimi, questi di Paul Celan in Fuga di morte, e non stupisce ritrovarli nell’antologia di «voci poetiche sulla Shoah» allestita da Giovanni Tesio per Interlinea con il titolo Nell'abisso del lager (pagine 292, euro 18,00).
Un libro che in un certo senso esisteva già, ma in forma invisibile, disperso in altri libri e in altre antologie. Solo adesso viene finalmente in superficie grazie al lavoro attento e appassionato di Tesio, italianista e poeta a sua volta, oltre che narratore con il recente Gli zoccoli nell’erba pesante (Lindau). A parte l’inedito di Gianni D’Elia riprodotto in questa pagina, i testi di Nell’abisso del lager erano già disponibili per il lettore italiano, talvolta in sedi non immediatamente accessibili. Mancava però un inquadramento complessivo che permettesse di ricostruire la storia di questo che non è affatto un genere letterario: semmai un avvenimento che attraversa la letteratura del Novecento e la trasforma per sempre, travolgendo anche chi dall'esperienza storica dei campi nazisti non è stato toccato di persona. È la distinzione, fondamentale nella struttura del volume così come Tesio l’ha concepito, tra le «voci dal lager» e le «voci del lager» (il corsivo è mio), tra quelli che a Buchenwald o a Birkenau ci sono stati veramente e quelli che, pur senza esservi stati imprigionati, hanno ugualmente bevuto il «latte nero dell’alba», per citare ancora una volta Celan. Il punto di partenza è una pietra d’inciampo, e non potrebbe essere altrimenti.
Che dopo Auschwitz fare poesia andasse considerato un atto di barbarie era, com’è noto, la posizione di Theodor Adorno, alla quale Primo Levi contrapponeva la necessità di permettere che la poesia sopravvivesse all’“ora incerta” dello sterminio e dell’orrore. Lui stesso, Levi, era diventato scrittore (e poeta) proprio ad Auschwitz, rispondendo a un’urgenza tutt’altro che letteraria. «Se ne scrivono ancora» è l’incipit di una celebre poesia di Vittorio Sereni, I versi, nella quale si ammette che «No, non è più felice l’esercizio».
Ancora più perentorio è il francese Mathieu Bénézet, nato nel 1946, fuori dai limiti cronologici della Shoah. In Quel che dice Euridice dimostra come la convinzione che la poesia non sia più « possibile » si fonda su un equivoco, dato che «non esiste poesia possibile» (questa volta i corsivi sono dell’autore): «Non dimenticare sempre la poesia / conobbe / l’Inferno», ripete Euridice, che qui diventa figura di ogni vittima e di ogni sopravvissuto. Sono, questi che abbiamo citato, solo alcuni dei poeti presenti in Nell’abisso del lager. Tesio ne accoglie un’ottantina, non senza qualche rinuncia, considerato che l’ombra della Shoah si proietta a lungo e in contesti spesso imprevisti.
Non mancano, anche in ambito italiano, le occasioni per riconsiderare la consistenza di un canone che rimane mobile e contraddittorio, drammatico per definizione. Una sola, per esempio, è l’occorrenza del dialetto ( Donne di Ravensbrück del piemontese Carlo Regis), mentre colpisce il ricorso a soluzione auliche come «Deh taci» da parte di Bruno Lodi, autore di un autobiografico Voce del “Lager” andato in stampa già nel 1946. Da parte sua, Quinto Osano – i cui «ricordi e pensieri di un ex deportato» usciranno solo all’inizio degli anni Novanta – fa tesoro della lezione di Palazzeschi adoperando come ritornello un verso onomatopeico, «Tu tum, tu tum, tu tum, tu tum», che rimanda al rumore del treno diretto a Mauthausen.
Testimoni anche loro, in ogni caso, al pari di poeti più grandi e riconosciuti, da Giorgio Caproni a Pier Paolo Pasolini, da Franco Fortini ad Antonella Anedda, da Mariangela Gualtieri a Mario Luzi, fino all’indimenticabile «preghiera trafitta dall’elevazione» intonata da Elsa Morante: «Per il dolore delle corsie malate / e di tutte le mura carcerarie / e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani, / e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi / e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi / e i sussulti della concezione /e il sapore dolciastro del seme e delle morti, /per il corpo innumerevole del dolore /loro e mio...». Non meno vasto e accidentato è il paesaggio che si apre al di fuori dei confini italiani. Nell’abisso del lager dà spazio a Nelly Sachs e a Else Lasker-Schüler, a Jean Cayrol e a Yves Bonnefoy, a Hilde Domin e alla Sylvia Plath di Lady Lazarus,dalla «pelle / splendente come un paralume nazista», ma a fianco di questa costellazione già nota e si avvistano autori non ancora abbastanza apprezzati, come l’israeliano Dan Pagis, al quale si deve il fulminanteScritto a matita in un vagone piombato: «Qui in questo convoglio / Io sono Eva / Con Abele mio figlio / Se vedete il mio figlio maggiore / Caino figlio d’Adamo / Ditegli che io».
La poesia non racconta, appunto. La parola non può dire. Ma dopo Auschwitz è necessaria più che mai, come la «farfalla di Buchenwald» cantata da Zoka Velichova, visione che «si libra spensierata nell’abisso». «I miei ricordi sono solo cenere – aggiunge la poetessa – sull’ali iridescenti della polvere».

Figura del Macello

Come il diretto che risfiora il mare
Ripreme il passo la terra contro sé
Ma non può fare a meno d’inquadrare
Il tufo giallo che insegue chi non è
O chi se c’è di là non riappare
Dai carri piombati nel fosco rullare
Rugginoso a zaffate d’un treno bestiame
Ecco rifrana il Fosso Seiore e traspare
E sa di musi nebbiosi incollati alle rare
Sbarre ai cigolanti cerchi ai rinchiusi
Mugli in vapori d’un macellar secolare
Che già bastò puerili castelli a spazzare
E dunque non è vero che il bello è sempre
Nelle care cose che ci calmano
La cattedrale di foglie di un albero
O le squame di luce del mare largo
Se un lento treno merci a agosto esausto
Basta a evocare il più infame olocausto?
(1991) (2016)

Gianni D’Elia

17.1.19

Ma basta parlare di Cesare Battisti non sapete parlare d'altro

Ma soprattutto smettetela con discorsi da ignoranti e faziosi . Quando non sapete nulla di terrorismo,me degli anni di piombo per piacere tacete.
Se non conoscete la differenza tra eversione rossa ed eversione nera, abbiate il pudore di non emettere sentenze storiche.
I rossi attaccavano  simboli dello stato ed quelli che consideravano oppressori con gambizzazioni (quando andava bene ) o omicidi
I neri uccidevano tutti  nonnsolo con le armiama anche con lelbombe suistreni e nelle piazze perché erano stragisti.
E poi imparate l'italiano e soffermatevi sul significato delle parole.
Comprendere un fenomeno storico ha un significato diverso da Giustificare

16.1.19

finalmente una bella ed istruttiva pubblicità Il meglio di un uomo'' in chiave #MeToo: lo spot Gillette che ha fatto arrabbiare i ''maschi

Il meglio di un uomo'' in chiave #MeToo: lo spot Gillette che ha fatto arrabbiare i ''maschi''


Il nuovo spot di Gillette, che sposa la campagna di #MeToo e denuncia il bullismo sessista degli uomini, ha scatenato le ire di gran parte dei consumatori che si sono sentiti "criminalizzati". Nella pubblicità, dal titolo "il meglio che un uomo può essere" che sostituisce l'ormai celebre slogan "il meglio di un uomo", l'azienda americana della Procter and Gamble, specializzata in rasoi e prodotti per la cura del corpo, esorta gli uomini a cambiare comportamento e a essere più rispettosi delle donne, criticando la "mascolinità tossica". Il video, che dura poco meno di due minuti, si apre con riferimenti alle molestie sessuali e agli abusi denunciati da #MeToo, e si chiude con elementi positivi, come un uomo che impedisce all'amico di molestare una ragazza per strada. La scelta è stata considerata coraggiosa da diverse persone, ma a molti uomini, principale clientela dell'azienda, non è piaciuta. In tanti hanno invocato il boicottaggio. Sulla polemica è intervenuto anche il direttore del marchio Gillette per il Nord America, Pankaj Bhalla, in alcuni casi tirato direttamente in causa. "La discussione è importante e in quanto società che incoraggia gli uomini a essere al meglio, ci sentiamo in dovere di parlarne e agire", ha spiegato Bhalla."Abbiamo guardato realisticamente a ciò che sta accadendo oggi e miriamo a ispirare il cambiamento", ha aggiunto. Nel giro di 48 ore il video su YouTube ha totalizzato quasi 5 milioni di visualizzazioni. Tuttavia i like sono poco più di 100 mila a fronte degli oltre 380 mila 'non mi piace'.



Io da  ex   maschilista    sto con la  Gilette  perché  alcuni  di noi    dovrebbero  riflettere ( come  ha  fatto   ed  in parte  sta  facendo il sottoscritto  )    sui loro atteggiamenti   compulsivi  e  sessisti . Ma   allo stesso  tempo  ,  anche  se   è una pubblicità coraggiosa  ,  ed  intelligente  ,  afferm  che   generalizza  un po'  , Oh, certo, noi ragazzi ( la  maggior  parte  almeno  )   ci siamo anche menati con gli amichetti o da  soli  perché, sì, «siamo maschi». Qualcuno ha pure rincorso una ragazza in strada, rapito dal suo profumo o  dalla  sue  curve  . Non per questo siamo diventati tutti stupratori o  sessisti  . Non per questo abbiamo bisogno di essere rieducati. Ma  da  li  al boicottaggio  .  Soprattutto  dobbiamo capire  che  <<  “La discussione è importante, e in quanto società che incoraggia gli uomini a essere al meglio ci sentiamo in dovere di parlarne e agire”, ha dichiarato Pankaj Bhalla, direttore del marchio per il Nord America. Come già avvenuto nella storia della pubblicità siamo di fronte alla funzione educativa della comunicazione pubblicitaria delle grandi aziende globali: non accade spesso, ma accade. Essa talvolta precede e invita al cambiamento rispetto alla realtà e al sentire diffuso: è stato, per esempio, il caso della famiglia gay ritratta da Ikea o della campagna per i giochi intelligenti della GoldieBlox per le future ingegnere, che nell'ultima versione usa la notissima We are the champions per incoraggiare le bambine a pensarsi meno come principesse e più come scienziate. >>

gillette spotGILLETTE SPOT
<< Vuoi vedere che   >> ---  come fa  notare sempre la  giornalista Monica Lanfranco  su il www.ilfattoquotidiano.it -- ci toccherà comprare le lamette per sostenere la campagna anti machista, proprio noi femministe che notoriamente non ci depiliamo nemmeno le ascelle?

un bambino cosi sarà un ottimo adulto domani Fiorentina batte Toro, la lettera del piccolo tifoso viola al coetaneo granata che piangeva in tv: "Ti regalo una figurina di Belotti"

  da  repubblica  online  16 gennaio 2019


Fiorentina batte Toro, la lettera del piccolo tifoso viola al coetaneo granata che piangeva in tv: "Ti regalo una figurina di Belotti"




Il bambino, di Firenze, l'ha consegnata a sua madre incaricandola di trovare il destinatario: "Mi è dispiaciuto vederti in lacrime, si vince e si perde"

                               di CARLOTTA ROCCI

"Mi dispiace che la tua squadra abbia perso e mi è dispiaciuto vederti piangere. Anche se sono di Firenze, sono stato a Torino ed è una gran bella città. Ti vorrei dire che si vince e si perde e vorrei regalarti una figurina di Belotti. Ciao, Martino". Martino è un bambino di 6 anni che vive a Firenze e che domenica pomeriggio era davanti alla televisione con il nonno e il papà a guardare una delle sue squadre del cuore. Quando all'ottantasettesimo minuto i viola hanno segnato, prima rete di una vittoria colta con una doppietta di Federico Chiesa, lui si è alzato dal divano e ha esultato.Ma, dopo i replay del gol, sullo schermo Martino ha visto le immagini della tifoseria granata e lo ha colpito un bambino granata in lacrime sullo schermo. A lui è indirizzata la letterina che questa mattina, prima di andare a scuola, ha scritto su un foglio a quadretti e ha consegnato alla mamma. "Fagliela avere", le ha detto con la fede incrollabile che i bambini hanno nei loro genitori. Silvia, la madre, ci ha pensato su e ha deciso che, senza un indirizzo, la cosa migliore era affidare la lettera del figlio ai siti e ai giornali che a Torino potevano intercettare quel bambino.
"Domenica, dopo la partita, non mi aveva detto niente - spiega la mamma - ma questa mattina si è svegliato e mi ha detto che voleva raccontare una cosa brutta che era successa, e mi ha spiegato di quel piccolo tifoso". In un mondo dove le curve rischiano di restare chiuse per le violenze negli stati, la spontaneità e il cuore di Martino lasciano il segno: "Quel bambino non deve piangere, perché succede di vincere e di perdere, e poi il Toro è più forte, ma questa volta è andata così", ha ribadito alla mamma dimostrandosi più adulto di tanti adulti. Ora Silvia e Martino cercano quel bimbo in lacrime per consegnargli la figurina promessa.

salvare o non salvare le cabine telefoniche ?

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leggendo questo articolo di repubblica d'oggi ( vedi sopra ) sono tornato indietro nel tempo quando ad iniziare dal 1959 nacquero i gettoni usati fino al 31 dicembre 2001 )quando potevano ancora essere cambiati nei negozi 187 al valore di 9 gettoni = 1 scheda telefonica, anche se non venivano più coniati già dal 1980 Il valore del gettone era nel 1959 di 30 lire, nel 1964, di 45 lire, corrispondenti allora all'importo di 3 scatti telefonici, poi dal 1972 di 50 lire, dal 1980 di 100 lire e dal 1984 di 200 lire, venendo adeguato alla variazione del costo e della durata dello scatto telefonico. Il gettone era inoltre sovente utilizzato come moneta, pur non avendo alcun valore ufficiale di conio statale.

Infatti Con l'avvento dei telefoni funzionanti a monete e la diffusione degli apparecchi utilizzabili con schede telefoniche quali mezzo di pagamento per le conversazioni in punti pubblici, il gettone telefonico è andato fuori produzione.


Quindi sono  una  cosa  storica  e  poi ci  sono  anche    se  purtroppo    sono  sempre  meno  lo stesso  Agcom ... << pur riconoscendo che le postazioni telefoniche pubbliche svolgono un ruolo di importanza marginale e non possono essere ricomprese nel servizio universale, propone nuovi e più moderni utilizzi per le storiche cabine telefoniche da anni in corso di dismissione. ....  continua  qui   >>



                                                     

quanti    ricordi nelle  cabine  
Nessuna descrizione della foto disponibile.
foto mia    una  vecchia  cabina  ormai  tolta  nel mio  paese                                                                       
  


 Visto  che  , come credo molti\e  di voi ,  sono legati nel bne  e nel  male   a  tali cabine  compresi quelli che  le  vogliono  eliminare ( leggere  qui su https://www.tomshw.it/  i commenti  )     si dovrebbero trovare  soluzioni    per   salvarne  qualcuna  . Ad  esempio  
  • Alcune postazioni di telefonia pubblica potrebbero essere utilizzate dal fornitore del servizio universale per offrire alla popolazione residente nelle aree ad esse adiacenti un servizio di accesso a Internet alternativo o complementare a quello disponibile su rete fissa. "Il tutto con effetti positivi in termini di contribuzione all’assolvimento degli obblighi di servizio universale che deriveranno a seguito dell’adozione del codice europeo delle comunicazioni elettroniche e che vede il servizio universale circoscritto “ai servizi disponibili di accesso funzionale a Internet e di comunicazione vocale”"
    Un altro possibile impiego potrebbe essere quello di trasformare i PTP in punti di accesso Wi-Fi o fisici per i servizi a banda larga e ultra-larga. Soprattutto nelle zone in digital divide o comunque maggiormente arretrate sotto il profilo infrastrutturale potrebbe essere una temporanea risposta alle esigenze dei cittadini. Soprattutto se si considera la programmatica svolta digitale che ci aspetta nel campo dei servizi della pubblica amministrazione. Ad esempio l’obbligo di fatturazione elettronica sta mettendo in difficoltà alcuni imprenditori residenti in zone difficili, dove anche la telefonia mobile stenta nella connettività.
  •  farne  una cosa  del genere https://www.inlinkuk.com/ senza tenere allo stesso tempo la cabina di metallo? BT le ripaga con la pubblicità` che vende sui display.
  •  come hanno fatto in  svizzera  Farne delle librerie .  Metti due mensole con dei libri che la gente può leggere.Solo che in Italia vandalizzerebbero tutto tempo meno di un mese...24 ore forse...
  • degli h24 con wifi  per poter  mandare  sms  , wtzap  ,  conettersi  a  internet  , ecc   con prepagate  o   pochi euro qual'ora il cell   si scaricasse  
  •   cessi  pubblici    \  vespasiani  

l'italia non è un paese per musicisti il caso di Francesco Raspaolo Musicista genovese multato sul treno per il violoncello "ingombrante"

  In attesa  di una risposta positiva  o perchè no  anche  negativa     al mio messaggio  in  bottiglia   lanciato ieri   sull'etere    e  in rete vi racconto   vi spiego  cosa   intendo per  storie  pendolari  .  Ecco una   storia   tra  il  comico    ed  il tragico    non si  sa  se    seguire    il motto  finale  di  un classico   della  canzone  italiana    di  ho visto  un re  - Enzo Jannacci, Cochi e Renato


sempre allegri bisogna stare

che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam,
e sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale

diventan tristi se noi piangiam!    


dal quotidiano  la    repubblica     ma  poiché il cartaceo    è pagamento  su internet  la  riporto  da  quest'altro sio http://www.lavocedigenova.it/2019/01/16/

"Non è un paese per musicisti". Lo sfogo del giovane orchestrale per la sanzione ricevuta sull'Intercity per la banale presenza del suo strumento




                                            il protagonista

L’Italia, parafrasando, “non è un paese per musicisti”. Soprattutto se suonano strumenti, per così dire, ingombranti, come il violoncello, e devono fare un viaggio in treno.
E’ successo, infatti, che il genovese Francesco Raspaolo, di ritorno da Portogruaro per la masterclass annuale di violoncello della "Accademia Santa Cecilia", sia stato multato sull’Intercity 687 delle 21.10 sulla tratta Milano Centrale-Genova Piazza Principe.
È lo stesso Francesco a raccontare in un post su Facebook l’accaduto: “Il controllore, nel giro di controllo biglietti tra Milano e Pavia, ha contestato la presenza del mio strumento per la eccessiva lunghezza di quest'ultimo, e per la sua pericolosità nel portabagagli superiore. Dopo avermi allontanato dal posto nel quale ero seduto – continua - e dopo aver fatto foto al mio strumento, senza interessarsi minimamente del contenuto della mia “navicella di guerre stellari”, così è stata etichettata dal suo collega, sono stato multato di 50 euro con la minaccia di farmi scendere alla stazione di Pavia e con il rischio di dover passare la notte lì, dichiarando che fosse una sua gentile concessione il lasciarmi ultimare il viaggio”.
Qual è la morale di questa vicenda all’italiana - per la quale verrebbe da dire: siamo tutti un po’ “suonati”?
“Sembrerebbe quindi che per i violoncellisti, ma anche per i contrabbassisti e per molti altri strumentisti – conclude Francesco - il viaggio in treno sia una soluzione impraticabile, a meno che non si viaggi esclusivamente su treni regionali, dove pare ne sia consentito il trasporto. Poi mi divertirò a verificare in quanti giorni si possa raggiungere Portogruaro da Genova, solo con i treni regionali... e sempre che ci siano combinazioni fruibili. In Italia ci saranno diverse migliaia di violoncellisti tra professionisti, neo diplomati, studenti, amatori, e molti di questi, come il sottoscritto, usa il treno abitualmente... mi auguro proprio che il mio caso rimanga l'unico, nel “paese della musica”.
Intanto ha presentato un reclamo a Trenitalia.


Infatti   ,  come  dice  lui stesso  sulla  sua  bacheca  Facebook    in  un post in cui  racconta  l'accaduto  

 [....] 
Sembrerebbe quindi che per i violoncellisti, ma anche per i contrabbassisti e per molti altri strumentisti, il viaggio in treno sia una soluzione impraticabile, a meno che non si viaggi esclusivamente su treni regionali, dove pare ne sia consentito il trasporto. Poi mi divertirò a verificare in quanti giorni si possa raggiungere Portogruaro da Genova, solo con i treni regionali... e sempre che ci siano combinazioni fruibili.In Italia ci saranno diverse migliaia di violoncellisti tra professionisti, neo diplomati, studenti, amatori, e molti di questi, come il sottoscritto, usa il treno abitualmente... mi auguro proprio che il mio caso rimanga l'unico, nel “paese della musica”.
La  legge  
Premesso che secondo me , da quel poco che capisco di leggi e codicilli ha ragione . Ma come sono scrite le nome e le leggi in italia potrebbe aver ragione anche il controllore in quanto lo strumento di sicuro ha ingombri significativi.Ma : << Che poi desse noia messo lassù mi scappa da ridere... ma la norma permette la valutazione soggettiva >> ( commento di Claudio Pirani )
Mi chiedo  ,  come  si  chiede  lo  stesso protagonista  sulla  sua bacheca  ripondendo ai commenti  
Francesco Raspaolo La questione è che non deve recare disturbo, e non deve danneggiare la vettura. Quelli che vanno a sciare in treno che devono fare?
Pur avendo viaggiato una vita , escludendo aerei e navi , solo in torpedone .... ehm .... pullman non riesco a comprendere come Trenitalia si rifiuti di considerare che i bagagli abituali non sono sempre una borsetta ! Esempio clamoroso i nuovi regionali dove non si può nemmeno mettere una valigia di dimensioni ridotte sul portapacchi, ridicolizzando i musicisti che devono così occupare numerosi posti a sedere tra le occhiate feroci di altri passeggeri (o obbligandoci a stare in piedi qualora il treno fosse pieno magari su tratte di più di un’ora... Il che va ad aggiungersi ad altri disservizi fra cui quello di non riuscire nemmeno a far pagare il biglietto a chi ne è privo come dimostra quest articolo    dell'eco  di bergamo

15.1.19

adesso tocca a noi ricordare visto che stanno sparendo i testimoni .Torino, addio alla partigiana Marisa Scala, ex deportata nel lager di Bolzano


Torino, addio alla partigiana Marisa Scala, ex deportata nel lager di Bolzano Aveva 99 anni, aveva partecipato alla Resistenza nelle file di Giustizia e Libertà

  repubblica   online
15 gennaio 201






E' morta a Torino all'età di 99 anni la partigiana Marisa Scala (il cui vero nome era Teresa ma che era nota a tutti come Marisa), ex deportata nel campo delle SS di Bolzano. Nata a Verona nel novembre del 1919, figlia di un impiegato di banca che aveva perso il lavoro per la scelta di non iscriversi al partito fascista, Marisa Scala si era trasferita a Torino nel 1939 e, durante la guerra, si era avvicinata a personaggi di Giustizia e Libertà come il cugino Luigi Scala, condannato dal tribunale speciale, e come Ada Gobetti. Divenuta partigiana durante la guerra di liberazione, era stata catturata tre volte dai tedeschi e rinchiusa nella famigerata caserma di via Asti con il dirigente Fiat Aurelio Peccei (di quei momenti, aveva raccontato in un'intervista, continuava a sentire le urla dei torturati), per poi essere deportata a Bolzano e liberata solo alla fine della guerra.
Del suo trasferimento nel campo altoatesino aveva raccontato lo storico e partigiano Bruno Vasari nel suo libro "Il presente del passato", descrivendo Marisa Scala come l'unica donna ammanettata nel mezzo diretto a Bolzano: "Nell'autobus dell'azienda tranviaria di Milano in una serena notte autunnale, dal carcere di San Vittore veniamo trasportati verso l'ignoto che sarà il campo di smistamento di Bolzano. Unica donna, Marisa S., additando il cielo cristallino fittamente stellato, dice: 'Di questo non potranno privarci'". Da questo episodio trae il titolo "Volevano portarci via le stelle", il documentario che il regista Max Chicco aveva dedicato alla vita della partigiana ora scomparsa.
Così la ricorda l'Anpi Alto Adige Südtirol: "La sua testimonianza, fu decisiva per la condanna di Michael Seifert, aguzzino del campo di Bolzano. Seppe resistere anche alle aggressioni dell'avvocato filonazista di Seifert che cercò con ogni mezzo di minarne la credibilità. La sua forza, il suo coraggio e la sua coerenza di combattente per la libertà sono state, sono e saranno preziose per noi e per le nuove generazioni e vivranno nel nostro impegno per attuare i valori della Costituzione conquistata dalla Resistenza".