Lorenzo con la mamma
Un foglio bianco con una lista di sogni, come "essere più fiero di me stesso", ma anche di cose da fare. Come "offrire la colazione a papà": fatto. O come "viaggiare". Questo obiettivo, però, non è mai stato raggiunto. Perché Lorenzo, che aveva steso l'elenco meno di un mese fa, è morto consumato a 20 anni dall'anoressia.
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Lorenzo con la madre Francesca Lazzari |
" Ci aveva stupito quel gesto, lo avevamo interpretato come un segno di speranza: in quell'elenco vedevamo la sua voglia di combattere ancora. Neanche un mese dopo è morto", ricordano Fabio Seminatore e Francesca Lazzari, papà e mamma di Lorenzo, lo studente del "Majorana" di Moncalieri morto due settimane fa. "Di anoressia si può morire e i genitori dei ragazzi che ne soffrono lo devono sapere. Bisogna parlarne e affrontare il fenomeno. A partire dalla legge: non si può dimettere una persona nelle condizioni di nostro figlio solo perché maggiorenne. È una vergogna nazionale" . Sono durissimi: "Non ci sono abbastanza strutture pubbliche, non c'è un sistema che sappia dirti a chi rivolgerti - segnalano - È necessario mettere mano alla normativa, perché c'è un vuoto".
Dal giorno della morte continuano ad ascoltare le canzoni di Oncethekllr, il nome d'arte del loro Lorenzo, e rileggono continuamente le parole delle ultime, pubblicate a fine gennaio: "Forse ho dato troppo e tutto troppo presto", cantava.
L'incubo è cominciato al primo anno del liceo scientifico Gobetti di Torino. Aveva iniziato a mangiare sempre meno, poi la diagnosi della depressione: " Era esigente, doveva cercare di fare tutto al meglio, dal calcio alla scuola. Studiava tanto perché voleva essere bravo ma forse nessuno glielo ha mai detto " , ragiona la mamma. Lorenzo si è trasferito al Majorana di Moncalieri. Grazie alla disponibilità del preside Gianni Oliva e del corpo docente ha conseguito il diploma non perdendo nessun anno, neanche quando era ricoverato nella piccola struttura aostana " Residenza Dahu". "Furono splendidi, gli inviavano il materiale e per le interrogazioni li accompagnavamo fino a Brusson, anche sotto la neve. Lì era seguito da specialisti sempre ed era impegnato tutto il giorno - raccontano Fabio e Francesca - Quando terminò l'anno in struttura era felice, aveva ripreso 20 chili: tornò a scuola, si fidanzò e sembrava volesse riprendersi quel tempo perduto".
Poi l'ansia del diploma: Lorenzo aveva iniziato a mangiare meno. Non dormiva. All'Università frequentò due giornate di lezioni a Filosofia, un'altra a Scienze della Comunicazione, ma niente: "Forse non riusciva ad accettare l'idea di ritrovarsi a essere un numero. Lui voleva aiutare gli altri, era quello il suo futuro e lo faceva nel suo piccolo".
Ha iniziato a perdere di nuovo peso: "Perché non mangi?", gli domandavano. Una volta rispose in questo modo: "Perché so che prima o poi così muoio". Poi sono seguiti i ricoveri all'ospedale Molinette: il primo a maggio, in psichiatria, poi di nuovo a dicembre. "Ma quando vedevano che il livello di potassio rientrava lui firmava e tornava a casa. Ci aveva vietato di parlare con i medici" , raccontano i genitori. E spiegano: " Abbiamo supplicato che gli facessero il Tso. Ci aveva confidato che era arrivato a vomitare anche 20 volte al giorno, ma era come se non fosse lui a farlo. Era uno spettatore, era la malattia ad agire per lui. E ci rassicurava che stava bene, che insieme ce l'avremmo fatta, senza ricovero". Il 3 febbraio l'ultima telefonata al 112, ma non c'era più nulla da fare.
"È necessario parlarne, soprattutto nelle scuole, dove possono manifestarsi i primi segnali, e bisogna aiutare le famiglie che vivono situazioni simili. Noi abbiamo fatto di tutto, ci siamo detti che a costo di mangiare pane e cipolla avremmo provato ogni strada, abbiamo scelto esperti e strutture private, pagando di tasca nostra. Ma quando i figli sono maggiorenni, i genitori non possono fare nulla " , dicono la mamma e il papà di Lorenzo. E proseguono: "C'è carenza di conoscenza reale della malattia, mancano strutture adeguate e personale che sappia gestire questi pazienti, che sono in grado di fare di tutto pur di tornarsene a casa". Nelle loro menti risuona spesso quell'ultima frase pronunciata dal figlio: "Tranquilli, sono magro ma sono in forza".
Il secondo
Torino -
Un male dentro l’ha consumato per sei
anni. Fino a morire, due settimane fa, di anoressia a 20 anni, lasciando
ai genitori un macigno sul cuore: «Lorenzo, cosa potevamo fare di più
per aiutarti?». Francesca Lazzari e Fabio Seminatore raccontano di
averle provate tutte. E cercano adesso di trasformare l’agonia vissuta
accanto al loro figlio maggiore, in un’esperienza che sia di aiuto per
chi sta vivendo lo stesso dramma: «Il sistema non funziona, le famiglie
vengono lasciate sole, si tagliano i fondi e non ci sono abbastanza
strutture adeguate».
La morte di un figlio è inaccettabile per una madre. Sente che non avete fatto abbastanza?
«Sono
sincera: stiamo soffrendo il peso del fallimento. Anche oggi sono
tornata al cimitero e gli ho chiesto “Lollo cosa potevo fare per
aiutarti e averti ancora con me? Ma quella malattia è un mostro
dell’anima. Noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo per aiutarlo,
anche perché a livello economico potevamo permettercelo: l’abbiamo
affidato a strutture private e fatto seguire da super esperti. Ma il
problema è diventato insormontabile quando ha compiuto 18 anni e poteva
firmare le dimissioni».
Quando vi siete accorti della malattia di Lorenzo?
«In
prima liceo. Aveva iniziato a mangiare meno. Sembrava un disagio legato
alla scuola in cui non si trovava bene. Al secondo anno l’abbiamo
iscritto al Majorana di Moncalieri dove è stato accolto e supportato in
ogni modo. Ma a un certo punto non usciva più di casa, restava chiuso in
camera tutto il giorno».
Cosa avete fatto?
«Ci
siamo allarmati quando alla neuropsichiatra che era riuscita ad
“agganciarlo” e a farlo aprire ha dato una risposta terribile. “Perché
non mangi?”, lui ha ammesso: “Perché so che così muoio”».
Come avete reagito?
«L’abbiamo
portato in una struttura specializzata a Brusson, in Valle d’Aosta.
C’erano pochi posti, ma qualcuno era dedicato ai privati. Per i primi
tre mesi non abbiamo potuto avere alcun contatto con lui: è stato molto
doloroso. Ma in quella struttura era rinato, facevano laboratori di
teatro, cucina e aveva un’equipe specializzata che lo seguiva».
Come ha fatto con la scuola?
«Il
preside Gianni Oliva e gli insegnanti sono stati meravigliosi: gli
mandavano compiti e appunti. Io portavo le docenti da lui anche sotto la
neve. Lorenzo non ha perso l’anno: è stato molto importante per lui che
era così esigente con sé».
Come era il suo carattere?
«Lui
aveva tanto, ma voleva essere apprezzato per ciò che era. Aiutava gli
altri ed era un perfezionista. Questa è una caratteristica comune
nell’anoressia sia femminile che maschile».
L’anoressia maschile è meno conosciuta. Ci sono differenze?
«A
Brusson c’era solo un altro ragazzo. Tuttavia non ci sono differenze:
si tratta di anime ipersensibili, esigenti con se stesse e che si fanno
carico dei problemi degli altri. Non è solo cercare la magrezza per
essere come le soubrette. Non si sentono compresi perché non sanno
spiegare quello che hanno dentro. Eppure c’era chi pensava: “Ma come
Lorenzo? Hai 20 anni, mangia di più, esci e divertiti”. Ma lui si
sentiva “un vaso crepato”, come ha scritto in una canzone. Eppure era
così amato, anche dalla sua fidanzata».
Cosa non ha funzionato?
«A
dicembre mi ha detto: “Mamma aiutami, non sto in piedi”. L’ho portato
di nuovo al pronto soccorso. Mio figlio era alto un metro e 90, ai
medici ha detto di pesare 60 chili, ma non sarà stato più di 50 e non
l’hanno nemmeno pesato. Aveva il potassio a 2, e 33 battiti. L’hanno
portato in terapia intensiva e mi hanno detto che sarebbe potuto morire
per uno scalino. Ma poi quando i valori sono tornati a posto, lui ha
firmato le dimissioni e deciso che i medici non parlassero con noi. È
stata una condanna a morte: eppure siamo in Italia. Chiediamo più
risorse e aiuti. Da me lui non tornerà più, ma noi ci batteremo perché
altre famiglie non siano lasciate sole».
l'altra storia tratta da :
1)
https://www.lettera43.it/daniel-bullo-educatore/ 2)
https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/
È quella di
Daniel Zaccaro, 27 anni che da bullo che aveva commesso il primo reato poco più che adolescente, finendo anche in carcere prima al Beccaria, poi a San Vittore, ha aveva ottenuto l’affidamento in prova presso la comunità Kayròs di don Claudio Burgio. E ieri, come riporta il Corriere della Sera, si è laureato all’Università Cattolica, in Scienze della formazione, e vuole diventare educatore.
Daniel ha già cominciato a darsi da fare e a lavorare con un ragazzo difficile, proprio come era lui da giovanissimo, nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro. Ad applaudirlo il giorno della laurea c’era anche la pm del tribunale per i minorenni che l’ha processato e fatto condannare in tutti i processi in cui era imputato. «È una grande vittoria di tutti noi, questa», ha detto il magistrato nella cronaca riportata dal quotidiano, dandogli una carezza sulla corona d’alloro: «Daniel racconta agli adolescenti come è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi. Ma io glielo dico sempre, a costo di sembrare pedante: attento a non farti sedurre dal lato oscuro della forza», ha scherzato il pm. Presente alla discussione anche Fiorella, docente in pensione che a San Vittore gli ha fatto studiare il suo primo libro di scuola: l’Inferno di Dante. Hanno voluto essere accanto a Daniele lo stesso don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria insieme a don Gino Rigoldi, storicamente impegnato nel recupero di giovani difficili. «La brutalità è indice di povertà di pensiero» – ha raccontato Daniele -. «È l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. I violenti hanno profondissimi problemi di linguaggio. Quando non sai chiamare il dolore e la rabbia con il loro nome, ti scateni così, come un animale. Io l’ho capito, e lo voglio spiegare al maggior numero di ragazzi possibile».
Una storia di riscatto e di cambiamento . Infatti il corriere della sera
Daniel, da bullo a educatore: la pm che lo portò al processo va alla sua laurea
Oggi ha 27 anni e ha completato il corso di studi in Scienze della formazione. Ad applaudirlo all’Università Cattolica c’era anche la Pm del Tribunale per i minorenni che all’epoca rappresentò la pubblica accusa in tutte le udienze
di Elisabetta Andreis
Daniel Zaccaro alla sua laurea in Scienze della Formazione
Rapine, violenza, furiosi pestaggi. Questa è la storia di un ragazzo che è profondamente cambiato. Da adolescente pareva refrattario non solo a qualunque regola, ma anche a qualunque affetto. Una vita allo sbando a Quarto Oggiaro, nonostante due genitori presenti che ce la mettevano tutta. Il carcere, tra il Beccaria e San Vittore, poi — dal 2015 –—l’affidamento in prova presso la comunità Kayròs di don Claudio Burgio. Daniel Zaccaro adesso ha 27 anni, è diventato grande. Ieri si è laureato brillantemente all’università Cattolica, in Scienze della formazione. Vuole diventare educatore, ha già iniziato a lavorare con un ragazzo difficile, proprio come era lui. Ad applaudirlo alla laurea, tra le persone importanti della sua vita, c’era anche la Pm del Tribunale per i minorenni che l’ha fatto condannare in tutte le udienze in cui era imputato.
Negli occhi di quella Pm — severissima e dalla grande umanità — si leggevano orgoglio e soddisfazione. L’ha mandato in galera per il suo bene «prima», ora lo accompagna nelle scuole, per parlare con i bulli e raccontare la sua storia personale. «È una grande vittoria di tutti noi, questa», diceva dandogli una carezza sulla corona d’alloro: «Daniel racconta agli adolescenti come è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi. Ma io glielo dico sempre, a costo di sembrare pedante: attento a non farti sedurre dal lato oscuro della forza». Gli vuole bene, come gliene vuole Fiorella, docente in pensione che a San Vittore gli ha fatto studiare il suo primo libro di scuola, l’Inferno di Dante. Lo applaudiva anche lei, ieri, di fianco a don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria insieme a don Gino Rigoldi ed eccezionale nell’agganciare certi ragazzi. «Dietro questo bellissimo traguardo, oltre alla bravura di Daniel, ci sono tante persone e molte istituzioni civili ed ecclesiali che insieme hanno saputo collaborare in questi anni. È la storia di un lavoro di squadra — si schermisce don Claudio —. Questa è la città che mi piace e che ispira il mio impegno educativo quotidiano. Ora toccherà a Daniel raccogliere questo impegno e trasmetterlo ad altri giovani con tutta l’esperienza e la competenza maturati in questo percorso».
Quando Daniel ha commesso il primo reato, era «per fare la vita bella, facile, ed essere stimato dal quartiere». Eppure i suoi genitori gli avevano insegnato il valore del lavoro e del rispetto. In carcere continuava a prendere punizioni per cattiva disciplina. Oggi, maturo e attento, si guarda indietro. Ragiona sulla violenza che a volte, specie in gruppo, prende il sopravvento. «La brutalità è indice di povertà di pensiero — dice —. È l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. I violenti hanno profondissimi problemi di linguaggio. Quando non sai chiamare il dolore e la rabbia con il loro nome ti scateni così, come un animale. Io l’ho capito, e lo voglio spiegare al maggior numero di ragazzi possibile».