Tziu Bobore, il treno e la zappa vita felice del frenatore filosofo
SASSARI. Ha attraversato l’ultimo secolo del millennio scorso anche lungo i sentieri spinosi di tre anni di “richiamo” in guerra e ora - lucidissimo e per certi versi perfino gagliardo nonostante le novantasette primavere - naviga disilluso nelle acque torbide degli anni Duemila. Porta un nome illustre della grande patria barbaricina: si chiama Salvatore Satta. Ma non è un nuorese di città come il romanziere famoso de “Il giorno del giudizio”, essendo venuto alla luce e allevato sotto lo stesso cielo di un altro narratore sempreverde, l’indimenticabile Salvatore Cambosu di Orotelli, autore di un racconto incantato che resiste alle rughe del tempo, “Miele amaro”.
La sua filosofia di vita è delle più semplici e può essere riferita a tre punti-cardine. Primo: i fatti valgono più delle parole, che debbono essere poche e hanno diritto al massimo rispetto. Secondo: la terra c’era già prima che noi arrivassimo e ci sarà anche quando noi non l’abiteremo più, è la nostra eterna madre e deve essere amata e coltivata con onore. Terzo: le persone si giudicano dalle azioni. Tutte, grandi e piccole. E se le azioni non corrispondono alle parole significa che quella persona non è un vero uomo.
“Sono a Sassari dal 1932. Ero venuto qui perché avevo presentato la domanda per fare il custode al museo Sanna”, il racconto di Salvatore Satta parte da lontano. “Poi, ma questo avviene anche oggi, avevano preso un altro. Subito dopo, nello stesso anno, ero stato assunto alle Ferrovie dello Stato come cantoniere attraverso un concorso di prove manuali e cultura generale. Avevo ventuno anni, abitavo in corso Margherita”.
È vero che in quel periodo a Sassari era facile trovare casa? “È falso. Costavano molto anche gli affitti”, precisa tziu Bobore. “Io avevo uno stipendio di trecento lire e ne pagavo 95 di affitto. Un maresciallo dei carabinieri prendeva duecento lire. Ma anche se i soldi erano pochi non ci si indebitava”. Con orgoglio, Salvatore Satta puntualizza: “Io e mia moglie non abbiamo mai comprato a libretto. E mai firmato cambiali: non so neppure che cosa siano esattamente”.
Già, la moglie: Antonia Ladu di Oniferi, il grande amore della sua vita: “Orfano ero io, orfana lei. Le ho dato il primo bacio qui, tra gli ulivi di Sant’Orsola, e l’ho sposata nel 1933, quando avevo ventidue anni”. Nel 1934 nasce Silvio, nel 1936 Maria, nel 1938 Giovanna. Una famiglia senza problemi economici. Ma nel 1940 tutto cambia anche per il ferroviere Salvatore Satta di Orotelli.
“Mi hanno richiamato e spedito in Francia, nonostante avessi già tre figli. In Francia c’erano tre divisioni italiane. Ogni giorno cambiavamo zona, ci spostavamo di cinquanta-sessanta chilometri. Neppure il tempo di montare le tende e dovevamo ripartire”. Fame, anche? “No. Il rancio, anche se povero, c’era sempre. Ma mia moglie si è dovuta impegnare per non far mancare nulla ai bambini, coltivando questi piccoli orti nei pressi della cantoniera, di proprietà delle Ferrovie”.
Di ritorno dalla Francia, Satta pensava di aver finito di girovagare. “Invece nel 1941 mi è caduta in testa un’altra tegola, più pesante della prima”, racconta tziu Bobore. “Mi hanno convocato per dirmi che dovevo ripartire. In men che non si dica mi hanno rimesso la divisa, ordinandomi di andare a Orosei. A piedi, naturalmente. Ho fatto tutta quella strada con il cavallo di San Francesco, come dicevamo noi a Orotelli. Da Orosei sono andato a Siniscola. Da lì facevamo spesso delle puntate a San Teodoro per dare una mano d’aiuto ai finanzieri”.
Ma qual era la ragione vera della vostra presenza in Baronia? “C’è da ridere, a ripensarci”, risponde Satta. “Dovevamo sorvegliare le coste, si riteneva che gli alleati sarebbero sbarcati in Sardegna. Ma non eravamo attrezzati per impedire nessuno sbarco: a parte i fucili mitragliatori, non avevamo praticamente nulla. Ogni tanto vedevamo emergere dall’acqua salata un sottomarino inglese, però la situazione era di quiete. Nel 1943 i fascisti fecero arrestare l’avvocato nuorese Salvatore Mannironi - che sarebbe poi diventato parlamentare della Dc, più volte sottosegretario e ministro nel 1970 - con l’accusa di essere una spia degli inglesi”. Perché? “Un clandestino, sbarcato a Siniscola, si era diretto nelle campagne di Nuoro fermandosi in un terreno di Mannironi, a Marreri”.
Finita la guerra, tziu Bobore ritorna alla sua cantoniera. Nel 1943 gli era nato un altro bambino, Antonello, sei anni più tardi sarebbe nata Graziella. E Salvatore era stato promosso. “Da cantoniere ero diventato frenatore. Qualifica superiore, appartenevo al personale viaggiante. In genere facevo servizio da Macomer a Golfo Aranci, il treno era sempre zeppo di viaggiatori. Nelle giornate di riposo, lei non rida, zappavo la terra. Avevamo le chiavi della tenuta dei marchesi di Sant’Orsola, a due passi dalla cantoniera. Brava gente, i marchesi. Io zappavo dalla mattina alla sera soprattutto dopo il 1971, quando sono andato in pensione. Avevo sessant’anni ma mi sentivo come un leone. La zappa mi ha sempre fatto bene”.
Tra i suoi amici di allora tziu Bobore ricorda soprattutto il parroco di San Paolo, don Origo, che andava spesso a trovarlo. “Nonostante noi non fossimo praticanti devoti, siamo diventati amici. Io venivo da una famiglia in cui comandava mia nonna che nell’imminenza della Pasqua mi diceva: vai a confessarti ma stai attento e chiudi la bocca, che non ti entri nemmeno acqua. Comunioni? L’ultima l’ho fatta il giorno del mio matrimonio. Mia moglie andava in chiesa ma non era una bigotta”. Però con don Origo l’amicizia era possibile. Come mai? “Passava dalla cantoniera per accorciare il tragitto verso la chiesa e si fermava da noi. Era un uomo sincero, diceva spesso: il mio è un mestiere come un altro. E noi distinguevamo, anche tra i sacerdoti: c’erano e ci sono i buoni e i cattivi. Quelli che non indossano più l’abito talare non li sopporto proprio. Il Papa ha fatto un errore assurdo quando ha dato ai preti la libertà di vestire come meglio credono”.
Ma i suoi ricordi più tenaci sono tuttora quelli dell’infanzia lontana, nel microcosmo di Orotelli. “C’era un medico, il dottor Cusinu, che rispondeva sempre immediatamente anche alle chiamate notturne e non faceva pagare un soldo ai poveri, gli altri pagavano in natura al tempo del raccolto. E c’erano i padroni delle terre, persone comprensive: ricordo in particolare Antonio Senes. Bobore Cambosu, invece, era povero di beni materiali ma ricchissimo di altri valori, quelli che non si possono comprare con i soldi. Figlio di gente buona e onesta, non c’era nulla da dire contro di loro. Bobore era una persona speciale”. Come l’ingegnere Maurizio Zanfarino, a Sassari. “L’uomo più importante delle Ferrovie”, secondo tziu Bobore Satta. “Capo compartimento e uomo di cultura con tutti i requisiti, zio di Cossiga ma questo c’entra poco, aveva proposto di fare una galleria che dalla Scala di Giocca avrebbe dovuto sbucare nell’emiciclo Garibaldi”. L’umanità contemporanea in genere non lo entusiasma, fatte salve le eccezioni: “Si è rovesciato tutto, il mondo è capovolto”. E lui, Bobore Satta nato nella terra dell’oro, oggi contempla metalli più vili, protetto dalla corazza del tempo che fu.
Infattti sempre secondo il giornale esso ha << Nei ricordi il paese natale ha ancora «il colore del grano maturo»
L’amara scoperta che a Orotelli non si fa più il pane in casa
Dalla Barbagia a Sassari negli anni ’30 assunto dalle Ferrovie dello Stato nella cantoniera di Sant’Orsola
SASSARI. Proprio all’ingresso della cantoniera ferroviaria di Sant’Orsola dove Salvatore Satta vive con la figlia Maria c’è un giovane agrifoglio, l’albero più bello fra tutte le piante della famiglia delle querce. In questo autunno piovoso e turbolento l’agrifoglio rosseggia di bacche tra il verde intenso delle fronde. Quasi un simbolo di resistenza alle intemperie della stagione. Come lui, tziu Bobore, a quelle della vita. “Che cosa mi ha conservato in forze? Senz’altro la zappa».
“Mi ha fatto compagnia per tutti questi anni, fin dalla più tenera età. Per me zappa vuol dire vita e buona salute”, riafferma con il conforto del senno di poi.
Nel calendario della sua infanzia a Orotelli, gli svaghi non erano previsti.
“Quando non zappavo la terra facevo altri lavori pesanti. Ero in quinta elementare, si costruiva la strada per Ottana”, ricorda Salvatore Satta.
“Con altri miei coetanei trasportavo fascine di lentischio e ceste di pietre per la massicciata. Ogni cesta ci veniva pagata venti centesimi. A volte il pagamento era fatto in natura, generi alimentari”.
Oggi le zappe si ammantano di ruggine anche nel suo paese natale. “Ho sentito dire che a Orotelli non si fa più il pane in casa: lo comprano nei negozi”, rivela. “Per me è una notizia triste e inattesa. Ai miei tempi da noi veniva gente dagli altri paesi, a comprare il nostro pane rinomato”.
Orotelli, terra dell’oro, “il colore del grano maturo e delle spighe gonfie di chicchi dorati”, come era solito dire Cicitu Màsala al suo amico Bobore Cambosu. Oggi quella terra è incolta e risplende soltanto del colore delle pietre.
Salvatore Satta ripensa a sua moglie, classe 1907, morta due anni fa quasi centenaria. “Antonia aveva quattro anni più di me ed era bella di tutte le maniere, anche lei amava lavorare la terra”, ricorda. “E vinceva quasi sempre i concorsi delle Ferrovie dello Stato per i migliori giardini intorno alle case cantoniere: ha guadagnato la bellezza di cinque medaglie d’oro”.
Il pensiero della signora Antonia lo rende malinconico.
“Da quando mamma è scomparsa, babbo è diventato ancora più taciturno”, spiega il figlio maggiore Silvio, classe 1934, che vive a Cagliari.
Del resto, come si fa a dimenticare più di settant’anni di vita in comune? Un amico cambia discorso con una domanda: com’erano i rapporti tra ragazzi e ragazze di Orotelli alla fine degli anni Venti? “Si basavano sull’amicizia e il rispetto”, risponde pronto il vegliardo. “Le donne lavoravano per conto loro, non ci davano molta confidenza”.
Gli chiedono di Barack Obama, primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti d’America: “Ho la fondata speranza - si sbilancia tziu Bobore - che ci sarà un miglioramento, e non soltanto in America”.
Ha scritto Victor Hugo: “C’è una bellezza ineffabile nella vecchiaia felice”.