tratta da https://www.wired.it/scienza/spazio/2019/07/13/
È un’alba di Luna nuova quella del 16 luglio 1969, un mercoledì di mezza estate destinato a scrivere la storia. Rocco Petrone, che non ha quasi dormito, sta guardando quello spicchio luminoso nel cielo, consapevole che dove sono nati i suoi genitori, a migliaia di chilometri di distanza, in Basilicata, la Luna crescente è d’auspicio per le grandi imprese.
Quarantatré anni, ingegnere meccanico, un metro e novanta per 100 chili, Petrone è noto come “il computer con l’anima“, anche se per i suoi collaboratori più stretti rimane la “tigre di Cape Canaveral” (un documentario su di lui, Luna italiana, sarà trasmesso su History Channel il 18 luglio alle 22:40). Ed è proprio lì, a Cape Canaveral, che Petrone si dirige poche ore dopo. Quindi, qualche minuto prima delle 9:00, come fa sempre comincia nervosamente a gironzolare per la fire room numero 1, quella con le console di comando, dove centinaia di tecnici, ognuno incollato a uno schermo, ripetono da giorni le migliaia di verifiche contenute nella check listche proprio lui, la tigre, ha redatto personalmente. Fra 45 minuti gli toccherà, da direttore del lancio, dare il “Go” alla missione Apollo 11. Quella che, se tutto andrà bene, porterà per la prima volta l’uomo a calpestare un suolo extraterrestre.
Niente male per uno la cui storia è iniziata a Sasso di Castalda, paesino di 1100 abitanti abbarbicato sull’Appennino lucano, a pochi chilometri da Potenza.
Da lì, da Sasso, erano partiti mamma Teresa e papá Antonio subito dopo la grande guerra. Destinazione America, che come si canterà qualche anno più tardi, per 100 lire poteva regalare un sogno.Rocco Petrone a Cape Kennedy nel 1969 (foto: Nasa)
Il sogno aveva portato Teresa e Antonio fino ad Amsterdam. No, non la capitale olandese, ma un piccolo paese – di 30mila abitanti, comunque gigantesco rispetto a Sasso – a un paio d’ore da New York, nella contea di Montgomery; più precisamente, lì ad Amsterdam, Teresa e Antonio erano arrivati in una casetta all’incrocio fra Church Street e East Main Street, la strada che qualche anno dopo sarebbe diventata Petrone Street, proprio in onore al loro secondo genito: Rocco Anthony, arrivato dopo il fratello John, era nato il 31 marzo del 1926. L’avevano chiamato così: Rocco, come il santo protettore di Sasso di Castalda, e Anthony, come il padre, che in realtà non avrebbe mai conosciuto.
L’american dream di Antonio, infatti, si era infranto subito, in un incidente, fatale, al cantiere ferroviario dove aveva trovato lavoro. Teresa aveva 27 anni. Rocco sei mesi.
Il risultato? Una determinazione e una disposizione al sacrificio che Teresa trasmise ai figli. A Rocco in primis: studente modello di mattina, il pomeriggio vendeva il ghiaccio per raggranellare qualche dollaro. Un’attività che non gli aveva impedito, nel ’43, in un periodo in cui gli immigrati non erano visti di buon occhio, di distinguersi fra i migliori diplomati della Wilbur Lynch Highschool. A scuola Petrone si era fatto anche una certa fama grazie alla memoria prodigiosa – che gli permetteva di citare testi letti una volta sola e diversi giorni prima – e per l’abilità nei calcoli, per cui primeggiava in gare di velocità (arrivando senza carta e penna a fare moltiplicazioni e divisioni fino a quattro cifre).
Poi, sebbene fosse un antimilitarista convinto, l’ambizione, la stazza e la mancanza di soldi lo avevano obbligato per proseguire gli studi a iscriversi a West Point, “la fabbrica delle migliori intelligenze dell’esercito americano” (la stessa che in quegli anni ospitava Buzz Aldrin e Michael Collins). Anche lì Petrone si era fatto notare subito: fra i migliori dell’academic program, soprattutto in matematica e nuove tecnologie, primeggiava anche nel physical program, tanto da essere ammesso nella squadra universitaria di football (dove avrebbe condiviso gli spogliatoi con Doc Blanchard e Glenn Davis, premi Heismen Trophy, sportivi dell’anno per il “Time” e futuri amanti di Elizabeth Taylor).
Ci aveva messo poco, Petrone, a laurearsi ufficiale dell’esercito americano; era successo nell’autunno del ’46, a guerra (che detestava) appena conclusa. Spedito tre anni in Germania per garantire l’assistenza dei rifugiati in rientro, era finalmente andato a Sasso di Castalda per conoscere la nonna e quindi era rientrato negli Stati Uniti, per iscriversi senza troppe difficoltà al Mit. In quattro anni ne era uscito con una laurea in ingegneria meccanica e una passione per lo sviluppo e la sperimentazione di razzi e missili balistici.
Rocco Petrone e Wernher von Braun (foto: Nasa/MSFC)
Rocco Petrone e Wernher von Braun (foto: Nasa/MSFC)
Fu per queste predisposizioni che, nel settembre del 1952, entrò al Redstone Arsenal, in Alabama, come ufficiale assegnato al laboratorio per i lanci missilistici dell’esercito, dove un tedesco, Wernher von Braun, stava più o meno segretamente realizzando il sogno della sua vita: spedire un razzo oltre l’atmosfera terrestre.
Il primo incontro fra i due non era andato benissimo: schivi e di poche parole entrambi, per von Braun il cognome italiano del nuovo arrivato non era una grande premessa. Di suo, Petrone, forgiato dal rigore etico di West Point, non poteva ammirare uno col passato nebuloso dell’ex SS nazista.
A Petrone vennero comunque affidate la progettazione e la realizzazione delle rampe di lancio del nuovo Redstone, il figlio legittimo delle V2 tedesche. Fu per questo che, per la prima volta, arrivò a Cape Canaveral, ai tempi ancora in costruzione. Petrone adorò quel posto e il suo lavoro dal primo giorno. Quando, il 20 agosto 1953, un Redstone volò per la prima volta, lui era già stato nominato responsabile per tutte le operazioni di controllo e di lancio. Il ruolo lo rimise accanto a von Braun; sia letteralmente, nella blockhouse di fronte alla console di comando, che metaforicamente: come scrive Renato Cantore fra le pagine della biografia La tigre e la Luna, “l’ingegnere figlio di immigrati stava diventando un ingranaggio insostituibile nel sistema che per i successivi 20 anni avrebbe rappresentato l’asse portante della sfida tecnologica americana“. Dopo il primo incontro e nonostante il cognome italiano, anche per von Braun la cosa era diventata chiara.
Non fu quindi gradito a nessuno che il primo giugno del ’56 Petrone venisse nominato vicecapo dello staff per la logistica presso lo Stato maggiore dell’esercito, al Pentagono. Era stato chiamato a Washington per occuparsi dello schieramento sul territorio americano dei dodici principali sistemi missilistici destinati a rappresentare l’asse strategico della difesa nazionale. A trent’anni appena compiuti era uno dei massimi esperti in un campo in rapida espansione e in un mondo ossessionato, da una parte, dalla paura nucleare e, dall’altra, dalla corsa per la supremazia dello spazio. Ed è quasi certo che avrebbe suo malgrado fatto carriera politica se i sovietici, a sorpresa, non si fossero dimostrati molto più avanti degli americani nella gara oltre l’atmosfera.
Lo Sputnik e Jurij Gagarin al Museo della cosmonautica di Mosca (Foto: Afp/Getty Images)
Lo Sputnik e Jurij Gagarin al Museo della cosmonautica di Mosca (Foto: Afp/Getty Images)
Fallita la risposta statunitense, con il Vanguard progettato dalla Marina militare schiantatosi pochi secondi dopo il decollo, fu dato il via libera a qualsiasi progetto di von Braun. “E allora, tanto per cominciare – disse il genio tedesco – ridatemi Rocco Petrone“. A pochi mesi dal suo arrivo al Pentagono, Petrone ripartiva, questa volta verso una destinazione nota e che di lì a poco gli avrebbe valso il suo soprannome: la tigre tornava a Cape Canaveral e per rimanerci a lungo.
Quando arrivò in Florida, von Braun e il suo staff stavano già lavorando a un nuovo razzo, il Saturn, il cui primo lancio, programmato alla fine del 1961, sarebbe stato solo l’anticipo del progetto destinato a spedire Neil Armstronge compagni sulla Luna, a bordo di un mostro tecnologico di duemila e ottocento tonnellate. Eppure ai tempi nessuno – tranne forse von Braun – avrebbe immaginato di trasportare uomini oltre l’atmosfera. Servirono due fatti per avviare il progetto: il primo volo orbitale di Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961, e l’elezione a presidente di John Fitzgerald Kennedy, che contrariamente al suo scettico predecessore, Dwight Eisenhower, impose, a suon di miliardi di dollari, che i sovietici fossero battuti nella tappa finale della corsa cosmica: il primo piede a toccare il suolo lunare avrebbe dovuto essere americano.
Quando Kennedy tenne il famoso discorso al Congresso in cui prometteva che gli Stati Uniti avrebbero conquistato la Luna entro la fine del decennio, Jim Webb, appena eletto amministratore della Nasa, commentò: “La strada sarà lunga e accidentata, ma va costruita mattone per mattone, qui sulla Terra“. A chiunque fu subito chiaro chi fosse il primo a dover posare quei mattoni: toccava a lui, Rocco Petrone, cui erano state affidate la progettazione e la realizzazione delle rampe di lancio per tutto il programma spaziale.
Duro, rigoroso, mai spaventato dal compito, l’ormai tenente colonnello Petrone notte e giorno si concentrava, come una tigre, sull’obbiettivo di realizzare il moonport. Sarebbero serviti cinque anni per terminare il Complex 39, un’opera mastodontica. Fu a lui che spettò la decisione di costruire la nuova rampa a Merrit Island, proprio di fronte a Cape Canaveral, su un’area di 54mila ettari acquistata dal governo per 72 milioni di dollari. Fu sempre lui a decidere che il Saturn V, alto 110 metri per oltre 10 di larghezza, venisse assemblato in verticale. Per cui fu lui a stabilire la costruzione del Vertical Assembly Building, un edificio grande quanto il Pentagono in cui montare, pezzo per pezzo, la gigantesca creatura volante di von Braun.
E fu ancora lui, che nel frattempo era diventato capo dell’ufficio dedicato a tutto il sistema dei veicoli pesanti, che istruì Jfk sulle specifiche tecniche del Saturn, in occasione dell’ultima visita del presidente a Cape Canaveral, la mattina del 16 novembre 1963, sei giorni prima che venisse ucciso a Dallas. Petrone, quella chiacchierata, non la scordò mai e fu orgoglioso come forse mai prima quando, nel 1964, diventò il direttore di piani, programmi (lo stesso programma Apollo) e risorse del centro spaziale appena ultimato, battezzato Kennedy Space Center.
Il presidente John Fitzgerald Kennedy al briefing di Rocco Petrone (foto: Nasa)Nacquero in quel periodo le famose check list, i puntuali elenchi di verifiche scritti da Petrone, che ognuno, nel suo ruolo, era obbligato a ripetere migliaia di volte prima di certificare, a proprio nome, l’eventuale “ok”.
Quando, nel 1975, Petrone si ritirò dalla Nasa, lo fece da direttore del programma Apollo, direttore del Marshall Space Center di Huntsville e amministratore associato. Morì il 24 agosto 2006 a Palos Veders Estates, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi amati studi di storia americana.
Per capire quanto fosse esigente la tigre, basterebbe sapere che all’operaio incaricato di posare le 40 tonnellate del secondo stadio del Saturn sul primo, Petrone aveva consigliato di addestrarsi stringendo tra i potenti bracci della gru un uovo fresco senza romperlo.
Una battuta? Non troppo. Se ne accorse anche chi, non in grado di rispondere alle domande tecniche, veniva sollevato letteralmente di peso, oppure chi dovette costruire il crawler, il mezzo cingolato progettato per trasportare il Saturn alla rampa di lancio, un’altra idea passata dall’ufficio di Petrone. Ma da allora erano trascorsi 5 anni e diversi lanci con il Saturn V, dal 9 novembre 1967 tutti coronati da successo
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Petrone posa davanti al Saturn V (foto: Nasa)
Eppure, quella mattina del 1969, pare che anche la tigre fosse emozionata. Quando Petrone, accanto a von Braun, diede il Go, lo fece quasi sottovoce. Erano le 9:32 del 16 luglio. Il lancio dell’Apollo 11 aveva rispettato il programma al centesimo di secondo. Il mattino era stato salutato da uno spicchio di Luna crescente.
Eppure, quella mattina del 1969, pare che anche la tigre fosse emozionata. Quando Petrone, accanto a von Braun, diede il Go, lo fece quasi sottovoce. Erano le 9:32 del 16 luglio. Il lancio dell’Apollo 11 aveva rispettato il programma al centesimo di secondo. Il mattino era stato salutato da uno spicchio di Luna crescente.
La seconda è quella di Margaret Hamilton e le sue compagne dell’informatica al femminile
.Quando si parla di storia dell’informatica, vengono in mente soltanto due donne: Ada Lovelace Byron e Hedy Lamarr. Ada, figlia del celebre poeta romantico inglese, perché nell’Ottocento, ispirata dalla “macchina analitica” del matematico Charles Babbage, fu la pioniera del software, tanto che si chiama ADA uno dei linguaggi di programmazione della Difesa americana. Hedy per le sue geniali invenzioni tuttora applicate alle telecomunicazioni e all’informatica, nonché per la straordinaria bellezza che ne fece una diva fatale di Hollywood: la storia del cinema le deve la prima (fugace) scena di nudo integrale nel film “Estasi” del 1932.
Da Eniac a Internet
Ma Ada Lovelace e Hedy Lamarr sono solo le punte emergenti. Il contributo delle donne alla scienza dei computer è ben più vasto. Nel libro “L’informatica al femminile” (Neos Edizioni, 144 pagine, 17 euro) Cinzia Ballesio e Giovanna Giordano tracciano la biografia di una trentina di donne quasi sconosciute ma che hanno avuto un ruolo decisivo nel costruire il mondo digitale in cui viviamo. Furono donne le programmatrici di Eniac, il primo computer completamente elettronico (Usa, 1946), tre informatiche nere nel 1962 resero possibile il volo in orbita dell’astronauta John Glenn (come racconta il film “Il diritto di contare”), innumerevoli sono le donne hanno ideato i programmi che fanno funzionare Internet e quelle che oggi lavorano all’Intelligenza Artificiale.
Il software dell’Apollo11
L’imminente cinquantenario del primo sbarco sulla Luna (Apollo 11) ci solleva dall’imbarazzo della scelta: parleremo qui di Margaret Hamilton. Due fotografie riassumono la sua importanza nella più grande impresa tecnologica di tutti i tempi. Una la ritrae rannicchiata davanti ai 170 comandi del Modulo Lunare, l’altra in piedi accanto a una pila di scartafacci che dal pavimento le arriva all’altezza della fronte: contengono il codice sorgente del sistema di guida delle missioni Apollo, decine di migliaia di pagine scritte da Margaret e dal gruppo che dirigeva alla Nasa. Fu la sua preveggenza, sorretta da un rigore quasi maniacale, a salvare Armstrong e Aldrin da un disastro e a farne i primi due uomini che abbiano calpestato la Luna.
Allarme 1202
Tre minuti prima dell’allunaggio del 20 luglio 1969, il computer del modulo lunare (Lem) accese il segnale “1202”: allarme grave. Il protocollo prevedeva che in quel caso, se l’allarme si fosse ripetuto, l’allunaggio abortisse, il Lem avrebbe dovuto tentare la risalita in orbita lunare dove, sul modulo di comando, era rimasto Michael Collins. A causare l’allarme era un sovraccarico di dati. Oltre ai dati del radar-altimetro di terra, necessario per l’allunaggio, arrivavano al computer anche quelli dell’altro radar, in contatto con il modulo di Collins. L’aveva lasciato acceso Buzz Aldrin per una misura si sicurezza che in pratica si rivelò molto pericolosa.
Dieci secondi di panico
Sappiamo come andarono le cose: 1202 lampeggiò un’altra volta, poi anche 1201, e di nuovo 1202. Armstrong ricordava di aver visto quei segnali di allarme durante le simulazioni al suolo, li aveva ignorati e la manovra era riuscita ugualmente. Fece così anche nella situazione reale, ignorò il computer e prese i comandi manuali. La sala di controllo di Houston taceva. Pare che i tecnici scartabellassero i manuali alla ricerca del da farsi. Dopo 10 secondi di silenzio il direttore di volo Gene Kranz comunicò l’autorizzazione a tentare l’allunaggio.
Un mucchio di scartafacci
Ma ormai Armstrong aveva deciso da solo. O quasi. Scrivendo il software, Margaret Hamilton aveva previsto l’eventualità di un allarme da sovraccarico: il suo programma segnalava il problema, ma era concepito in modo da smistare i dati dando la precedenza ai più importanti, quelli del radar altimetro, lasciando indietro i dati non essenziali. Pur essendo preoccupanti, gli allarmi 1202 e 1201 non erano drammatici. Fu così che Neil Armstrong approdò nel Mare della Tranquillità e Margaret Hamilton ricevette il Premio Ada Lovelace e il Nasa Exceptional Space Act. Il programma scritto nella pila di scartafacci oggi è disponibile online e “pesa” appena un megabyte, quanto una fotografia scattata con il cellulare.