Ci sono persone che danno fastidio.
Sono quelle che ti si siedono vicine durante la proiezione di un film e lo commentano.
Sono quelle che alle due di notte lasciano la televisione accesa a tutto volume.
Sono quelle che sanno tutto loro e gli altri sono solo dei poveracci che non capiscono niente.
Sono quelle che a loro è capitato tutto quello che è capitato a te, anzi di più, quelle che hanno un ego di fronte al quale la piazza più grande d’Europa è uno stanzino.
E molte altre ancora.
Il problema, tuttavia, non è questo, perché fa tutta la differenza del mondo “a chi” costoro danno fastidio. Se, semplicemente te ne puoi andare non c’è problema. Se puoi rompere il rapporto, non c’è problema.
Poi ci sono quelli che danno fastidio al sistema. Con sistema intendo un po’ tutto quello che usa il verbo “comandare”. Quindi la politica ai vari livelli, quindi le società importanti che devono fare soldi non importa chi c’è da schiacciare. Questi danno fastidio davvero, perché la difesa dei propri diritti non sta bene a quelli che, eliminando proprio quei diritti, possono avvantaggiarsene. Diventare, cioè. più potenti o più ricchi o tutte e due le cose assieme.
Tra questi individui, cioè quelli che danno fastidio ai potenti, ce ne sono molti che difendono l’ambiente. Non mi riferisco a chi lo fa come missione o in generale che tiene conferenze sull’effetto serra, lo scioglimento dei ghiacci polari e così via. Mi riferisco a chi difende il proprio ambiente, inteso come habitat, come luogo dove risiede con la sua famiglia, la sua tribù, il suo popolo.
Sono gli
indios a cui non sta affatto bene che le loro foreste vengano distrutte per piantarci la soia o farci pascolare le mandrie di mucche. Queste azioni modificano il loro stile di vita e con esso, spesso, la possibilità di sopravvivere come hanno sempre fatto. Sono i
peones che non capiscono perché si debba far passare l’autostrada proprio sui terreni che servono per produrre il loro cibo, sono i
munduruku che non vogliono che il loro paradiso terrestre venga distrutto da un mostruoso monumento alla modernità come la diga di Cleudivaldo.
Come finiscono queste storie? Non finiscono mai bene per i ragazzi, gli uomini e le donne che fronteggiano il progresso che avanza. Il progresso è portato là, usando i bulldozer delle grandi multinazionali, quelle dell’energia, dei mangimi, dell’acqua privata, della carne in scatola.
Spesso le storie finiscono male, molto male, perché ci scappa il morto e, quasi sempre il morto è ammazzato, ucciso dagli interessi e dall’ignoranza.
Pochi giorni fa (il 24 febbraio) l’ultimo fatto di sangue avviene in Costa Rica, considerato un paese modello, senza esercito, con leggi di tutela ambientale straordinarie, eppure …
Si chiamava
Yehry Rivera, freddato da alcuni colpi di pistola, dopo essere stato bastonato e lapidato da un gruppo di assassini. Secondo le testimonianze (che non possiamo però controllare) un gruppo di poliziotti avrebbe assistito alla scena senza intervenire.
Lo riferisce il
Guardian, giornale inglese che spesso si occupa di questioni che con l’ambiente e la sua tutela hanno a che fare.
Perché Rivera è stato ucciso? Per il solito motivo: difendeva la sua terra, la piana di Terraca, percorsa da un grande fiume, sul quale la solita azienda, supportata dalle autorità locali, ha deciso di costruire una diga. Per questi lavori servono 6 mila ettari e lo spostamento di 1100 persone, le famiglie che Rivera rappresentava.
Di uomini e donne coraggiosi come Rivera ce ne sono un sacco. La lotta, laggiù nelle foreste e tra gli autoctoni, non è certo come scrivere su un blog o raccontare in una piccola radio questi fatti orribili. Noi al massimo rischiamo di essere estromessi, di non poterlo più fare (anche se i giornalisti russi potrebbero obiettare non poco su questo punto). Loro rischiano di morire.
Come dite? Che è solo un caso e non bisogna generalizzare? Provate a seguirmi e lo vedremo.
É un caso che si sia cercato di uccidere con colpi di pistola il 29-enne
Mainor Ortiz Delgado, difensore di una popolazione indigena di 10'000 anime, i Bribri, che vivono di agricoltura, caccia e pesca nelle loro foreste?
E che dire di
Raúl Hernández e
Homero Gomez, assassinati in Messico, per aver difeso delle … farfalle? Proteggevano il loro santuario di “El Rosario”, un’area dove migrano ogni anno, in autunno, milioni di farfalle monarca, provenienti dal Nord America. Poi, alla fine dell’inverno ripartono. Il santuario è in una zona favorevole per queste farfalle, che, da specie in via di estinzione, si stanno riprendendo e aumentando di numero. Che fastidio può dare un’area destinata ad uno scopo così leggiadro?
La minaccia esterna è quella di una specie di consorzio di banditi, che hanno bisogno di spazio e terreno dove coltivare ben altro che l’amore per la natura. Si parla con insistenza di enormi piantagioni di marijuana, che sostituiscono gli alberi della foresta.
Le cose stanno così e noi veniamo a sapere, solo qualche volta, che un ambientalista è stato ucciso o è stata uccisa. I loro nomi sono del tutto sconosciuti, tranne in pochissimi casi, come quello di Berta Càceres, che ha scatenato indignazione perfino nell’Europa che se ne frega di quanto accade nelle lontane zone del terzo mondo.
La scorsa estate, la rivista forse più conosciuta al mondo, che si occupa di ambientalismo,
Nature, ha cercato di fare il punto della situazione e ha contato i morti assassinati perché difendevano l’ambiente.
Negli ultimi 15 anni il bilancio è spaventoso:
1613 vite perdute in 20 paesi diversi tra il 2002 e il 2018. Delitti avvenuti là dove più alto è il tasso di corruzione e illegalità e, per contro, più basso, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, figuriamoci di quelli dell’ambiente. Ogni anno la vita di centinaia di persone svanisce o viene messa in grave pericolo solo per l'amore verso la natura e per aver capito che continuare a violentare l’ambiente è un pazzesco modo di finire anche le nostre vite, un suidcidio di massa, un'eutanasia.
L’organizzazione Non Governativa “
Global Witness” ha contato
207 morti nel 2017 e 164 l’anno successivo.
É sicuramente dura leggere di queste cose, ma, per fortuna, c’è un movimento ecologista globale che combatte in prima linea. Sono donne e uomini coraggiosi: sfidano il potere per proteggere la terra in cui sono nati, angoli di mondo bellissimi e fragili, animali a rischio di estinzione, fiumi, foreste e campi che fanno gola ad affaristi senza scrupoli.
Meriterebbero tutti di essere nominati ed elogiati. Lo facciamo per alcuni di loro.
Ricordiamo
Salomè, che in Ecuador, difende la foresta amazzonica e il diritto delle donne a vivere libere dal pericicolo delle violenze sessuali, soprattutto domestiche.
Ricordiamo
Marivic Danyan, nelle Filippine, che difende un’isola dalle piantagioni intensive di caffè.
Kandi Mosset, nel Nord Dakota, tutela gli indigeni dai cambiamenti climatici e dalle ingiustizie ambientali, nella civilissima patria della libertà … degli altri.
Tuğba Günal e Birhan Erkutlu, sono una coppia turca, che vive presso una sorgente che il governo del despota Erdogan voleva usare per una centrale idroelettrica. La battaglia, una volta tanto, è finita a favore dell’ambiente e quella sorgente, oggi, è dichiarata area da tutelare. (
leggi qui la loro storia)
Izela Gonzalez Diaz è un’infermiera messicana, diventata attivista. Non difende l’ambiente in qualche foresta incontaminata, ma dall’ufficio di Alianza Sierra Madre, l’associazione che ha fondato per dare assistenza giuridica ai territori minacciati dalle coltivazioni intensive nel Messico del Nord. La sua attività non piace ai potenti locali, vive sotto scorta. «
Ho subito più intimidazioni da uomini in giacca e cravatta che dai criminali. Do fastidio», dice. «
Non sono un’indigena, non difendo la terra in cui vivo, lo faccio perché è la cosa giusta».
Potremmo continuare a lungo, ma quest’ultima frase chiude bene il discorso, perché dietro la tutela del bene comune non deve esserci necessariamente qualcosa di personale da difendere. Lo si fa, come dice Izela, semplicemente perché è giusto farlo.
(
fonti: Corriere della Sera, The Guardian, www.nature.com, Wikipedia)