6.9.24

ultima olimpiade della pluri atleta e pluri decorata paraolimpica Francesca Porcellato , Signature move dell'arciera Elisabetta Mijno , Come fanno le persone cieche \ non vedenti a seguire uno sport?







Oggi  il nono giorno di Paralimpiadi e ieri dopo l'oro nel lancio del disco a Oney Tapia è venuta voglia di cantare “Io vagabondo” in diretta sulla Rai: sessantatré secondi strani, ma voi come  me  , 
 riuscite a non ascoltarli fino in fondo?
Ieri l'italiana Francesca Porcellato 
è arrivata quarta nella prova in linea di ciclismo su strada sulla handbike, la bicicletta in cui si “pedala” con le mani. Era molto vicina sia alla seconda che alla terza classificata, ma all'arrivo ha esultato come
se avesse ottenuto lei stessa un piazzamento da medaglia. Il telecronista della Rai Stefano Rizzato ha commentato: «Quell'esultanza ci aiuta a sottolineare che [ sia  alle  olimpidai  che alle  paraolimpiadi   ]  non tutti i quarti posti sono uguali ». In effetti il suo quarto posto era particolare per diversi motivi, a partire dal fatto che era la sua ultima gara alle Paralimpiadi: a 54 anni, alla fine della gara Porcellato ha annunciato il suo ritiro, dopo una carriera eccezionale in cui ha vinto 14 medaglie in molti sport e in 12 (!) diverse Paralimpiadi (9 estive e 3 invernali).

Un altro motivo, più banale, riguarda invece la gara di ieri, perché Porcellato era stata costretta a una lunga rimonta da un piccolo incidente avuto all'inizio del percorso e causato da un'altra ciclista, che l'aveva fatta fermare per diversi secondi: alla fine sono stati decisivi, visto che è arrivata a 4 secondi dalla medaglia d'argento.
L'ultimo buon motivo per considerare diverso quel quarto posto è che la gara di ieri comprendeva atlete di ben quattro categorie paralimpiche, dalla H1 all'H4, e quindi con gradi diversi di disabilità: più è alto il numero, meno la disabilità è impattante sulla prestazione. Chi è in H4 per esempio ha il controllo del tronco e spesso tutti gli addominali, mentre chi è in H3 no: Porcellato, che è un'H3, è arrivata quarta dietro a tre atlete di categoria H4, e quindi prima tra chi aveva disabilità paragonabili alla sua in termini di prestazioni. Se n'è apertamente lamentata dopo la gara: «Io spingo solo di braccia mentre gli altri si aiutano con molti altri muscoli», ha detto alla Rai. E poi: «Fa male essere battuti da chi è meno disabile di te». L'atleta è una vera istituzione dei Giochi e ha fatto sentire la sua voce al termine di una gara ingiusta, in cui ha dovuto gareggiare contro rivali che dal punto di vista fisico hanno molte più possibilità: li ha definiti, "regolamenti discutibili" e "confusione di classificazione" per essere diplomatica, ma dietro alla sua intervista c'è una richiesta per rendere più equa la competizione e dare medaglie "a chi davvero se le merita". continua su: https://www.fanpage.it/sport/altri-sport/francesca-porcellato-delusa-alle-paralimpiadi-regole-assurde-perdo-con-chi-e-meno-disabile-di-me/
Infatti  Da quest'anno in diversi sport il Comitato paralimpico ha accorpato le gare di alcune categorie, con l'obiettivo da una parte di limitare le gare meno competitive perché meno partecipate, e dall'altra di risparmiare tempo nel programma e rendere lo spettacolo più fruibile: sono entrambi propositi in contraddizione con lo spirito paralimpico – ne avevamo parlato su Parì – e già prima di Porcellato c'erano state polemiche.


Signature move

Nel tiro con l'arco tutti gli atleti e le atlete hanno sviluppato un proprio modo molto personale di svolgere le varie fasi del gesto tecnico fondamentale su cui si basa lo sport: ciascuno incocca la freccia,
posiziona l'arco e lascia andare la freccia a modo suo, con una serie di movimenti quasi rituali.
Ma il momento in cui più di ogni altro si riconosce la singolarità della tecnica di ciascuno, almeno a uno sguardo non esperto, è quello in cui viene tesa la corda appena prima del tiro, perché tutti la appoggiano in un punto diverso della propria faccia: ci sono arciere e arcieri che in quei punti hanno segni visibili, e ieri l'indiana Pooja aveva persino un cerotto sul mento nel punto in cui appoggiava la corda. È un po' la mossa distintiva di ciascun arciere, una signature move, e tra quelle che si notano più facilmente c'è senz'altro la mossa dell'italiana Elisabetta Mijno, che si appoggia la corda sul naso e poi se lo sposta verso destra, sempre nello stesso modo.
Dopo il bronzo nel torneo individuale, ieri Mijno ha vinto l'oro nel torneo a squadre miste in coppia con Stefano Travisani.


Come fanno le persone cieche \ non vedenti a seguire uno sport?

A Parigi 2024 – sia Olimpiadi che Paralimpiadi – le persone cieche che volevano assistere a uno sport dal vivo potevano chiedere un vision pad, una tavoletta sulla quale si può seguire, con il tatto, l’andamento delle partite di alcuni sport di squadra: basket, rugby e calcio alle Olimpiadi; goalball e blind football alle Paralimpiadi (due sport che sono peraltro praticati da persone cieche o ipovedenti). Sui vision pad ci sono le linee del campo in rilievo e una palla magnetica che si muove come fa la palla vera in tempo reale. La tavoletta, inoltre, vibra più volte quando viene segnato un gol (o un canestro, o una meta). In questo video si vede come funziona col goalball.
Allo stadio c'è proprio una persona che cerca di ricreare nel modo più fedele possibile il movimento della palla in tempo reale su un tablet, da cui poi le informazioni vengono trasmesse ai vision pad del pubblico.
Per il momento quindi il vision pad si può usare solamente negli sport con la palla, e chi l’ha utilizzato ne ha parlato generalmente molto bene. A queste Olimpiadi e Paralimpiadi era disponibile un numero limitato di tavolette, 45, quindi chi ne aveva bisogno doveva prenotarla quando comprava il biglietto. Per le persone ipovedenti invece il comitato organizzatore ha messo a disposizione dei visori attraverso cui possono zoomare sugli atleti e con cui possono passare dall’azione dal vivo alla copertura televisiva, scegliendo inquadrature specifiche per capire meglio cosa sta succedendo.


credeva che si potesse invece no . Napoli, è in malattia ma gioca a calcio: per la Cassazione "il licenziamento è legittimo"

 



Il caso Il caso riguarda un dipendente di Eav che, il 27 e 28 ottobre 2017, pur essendo in malattia, ha svolto diverse attività, tra cui la partecipazione a una partita di calcio di Prima Categoria. L'azienda, attraverso indagini private, aveva poi accertato, è scritto in una nota, "il comportamento truffaldino del lavoratore e ha proceduto al licenziamento disciplinare".
La Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Napoli, sottolineando che la partecipazione del dipendente a una partita di calcio professionistica, che richiede uno sforzo fisico considerevole, dimostra la sua malafede nel simulare una malattia.
Marcello D'Aponte, difensore della società, come si legge nel comunicato stampa, ha espresso "soddisfazione per la decisione della Corte", sottolineando che la stessa "conferma la validità delle scelte aziendali in materia di licenziamenti disciplinari e la proporzionalità della sanzione del licenziamento in casi di grave violazione del vincolo fiduciario".
Il presidente di Eav, Umberto De Gregorio, ha dichiarato che la sentenza "rappresenta una chiara conferma della legittimità dell'azione dell'azienda volta a contrastare l'assenteismo e altri fenomeni negativi che danneggiano i cittadini e gli utenti del servizio pubblico". Ha inoltre sottolineato "l'importanza di salvaguardare la posizione dei lavoratori che svolgono il proprio lavoro con impegno e dedizione, a fronte di coloro che abusano del sistema".
La sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare di un dipendente di Ente Autonomo Volturno, azienda del trasporto pubblico della Regione Campania, che aveva simulato una malattia per partecipare a una partita di calcio. La vicenda viene resa nota dalla stessa azienda in una nota. La Corte ha stabilito che "il comportamento del dipendente, che ha utilizzato una falsa malattia per ottenere un vantaggio indebito, costituisce una grave violazione degli obblighi di correttezza, lealtà e diligenza".

5.9.24

Il rigore perfetto segnato nel calcio per non vedenti alle Paralimpiadi ascoltando soltanto i rumori ., La storia di Zabala alle Paralimpiadi con un tumore maligno, non si arrende: “Ho ancora un desiderio”

 

IL calcio per non vedenti è diventato uno degli sport più importanti del programma delle Paralimpiadi dopo il suo debutto ad Atene 2004. Anche a Parigi 2024 c’è stata grande l’attenzione nei confronti di questo sport diventato ufficiale a tutti gli effetti nel 1996. Si tratta di fatto di una delle pratiche sportive più popolari per le persone non vedenti. Nei Giochi nella capitale francese è grande l’attenzione nei confronti del calcio che ha riscosso chiaramente grande curiosità e attrazione da parte di tutti i tifosi presenti che hanno potuto assistere da vicino alle varie partite. Alle Paralimpiadi di Parigi ha riscosso grande interesse anche un filmato in cui si vede uno dei calciatori in campo segnare un rigore. Ad attirare l’attenzione dei più curiosi sono state le modalità di tiro che rientrano all’interno di un regolamento ben preciso.

Il regolamento previsto nel calcio per non vedenti alle Paralimpiadi

Ogni squadra è composta da cinque giocatori: quattro di movimento e un portiere. I calciatori in campo devono indossare una sorta di benda davanti agli occhi per garantire condizioni di parità poiché alcuni giocatori potrebbero avere una leggera percezione della luce o dell’ombra. I giocatori in campo devono essere B1 (completamente ciechi ndr) anche se i portieri sono vedenti. Per mantenere la palla in gioco ci sono delle assi poste lungo i lati del campo e forniscono un punto di riferimento per i giocatori. I portieri devono rimanere nell’area di porta e avere un ruolo cruciale nel comunicare con i giocatori in campo. Poi ci sono due ulteriori guide: una posizionata sulla linea di metà campo e l’altra dietro la porta che la squadra sta attaccando supportando anche in questo caso la comunicazione. Durante la partita gli spettatori dovranno rimanere in silenzio per permettere ai giocatori di ascoltare chiaramente la palla.

Il calcio di rigore segnato dal Brasile contro la Francia

Nel caso specifico del video ripreso durante la partita tra Brasile e Francia, la nazionale carioca mette a segno un rigore che fa esplodere il palazzetto. In questo caso si nota il lavoro sull’acustica svolto da una delle guide che fa ascoltare al calciatore incaricato di battere il tiro dal discetto il rumore dei due pali. In questo modo il rigorista ha la percezione ottimale del posizionamento della porta. Il silenzio è chiaramente fondamentale in questi casi
e anche il telecronista, come si evince dal filmato, racconta il momento con voce molto bassa. 


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Ci sono storie che quando le racconti ti mettono il cuore in subbuglio. Una di queste è quella di Loida Zabala Ollero, 37enne atleta spagnola che alle Paralimpiadi di Parigi c’è andata nonostante un tumore maligno e incurabile ai polmoni. A dicembre scorso le hanno rimosso altre masse che s’erano sviluppate nel corpo devastato dalle metastasi, nonostante tutto non ha voluto rinunciare a competere nella gara del sollevamento pesi. Ma non ditele che i Giochi di Parigi sono l’ultimo desiderio, vi risponderà spingendo lo sguardo oltre, spostando un po’ più in là l’idea di doversi arrendere alla vita che con lei è stata davvero spietata: a 11 anni s’è ritrovata in sedia a rotelle a causa della mielite trasversa, a novembre scorso le hanno diagnosticato una delle forme più aggressive di neoplasia. Lei, però, dice: “Vorrei mantenere il titolo di campionessa europea, che è tra due anni – le parole riportate da Mundo Deportivo -. Ho tempo per recuperare la forma che avevo l’anno scorso. E poi vorrei sopravvivere fino a Los Angeles 2028”.
Il risultato ottenuto è stata la cosa meno importante, solo un dettaglio statistico rispetto alla vera sfida con se stessa: essere in pedana ai Giochi recuperando nel più breve tempo possibile una condizione fisica accettabile per essere lì. Ha chiuso al nono posto sollevando fino a 75 kg dopo aver effettuato tre tentativi validi. “È stato molto complicato perché ho dovuto attendere fino all’ultimo che arrivasse il via libera dei medici per gareggiare – ha ammesso in lacrime dopo la gara -. A gennaio pesavo 61 chili e dovevo calare fino a 50. Ho passato molto tempo in sauna con controllo medico, con il misuratore di pressione. Non riuscire a prendere parte alle prove dopo tutta questa fatica fatta sarebbe stato devastante”.
L’atleta spagnola confessa ancora un desiderio: “Los Angeles 2028” Gli obiettivi sportivi sono tutto ciò a cui s’è aggrappata finora e continueranno a esserlo. Non sa quanto tempo le potrà mai restare ancora e se la sua situazione clinica le permetterà di portare avanti con passione la sua disciplina. Ma una cosa è certa, non intende mollare e pensa a quando dovrà difendere il titolo continentale tra due anni oppure alla prossima edizione delle Olimpiadi in America. “Vorrei sopravvivere fino allora”. Intanto si gode questo momento che per lei è stata come vincere una medaglia. “Mi sembra incredibile di essere riuscita ad arrivare fino a qui e a gareggiare. Non c’è niente di più potente dei sogni”.

La storia di Yasamin A. R. è una medico del Sant'Orsola di Bologna -. 38 anni , nata , cresciuta , e laureata qui ma per lo Stato non sono italiana".

 È nata a Cesena ed è cresciuta a Treviso. Ha frequentato la facoltà di Medicina e
Chirurgia dell'Università di Bologna, dove si è laureata a pieni voti. E dopo un eccellente percorso di specializzazione ora lavora a tempo indeterminato al Policlinico Sant'Orsola
Eppure per lo Stato italiano non è italiana. È la storia Yasamin A. R., medico di 34 anni che ogni giorno vive sulla sua pelle il paradosso generato dalla burocrazia del nostro Paese. Yasamin, infatti, paga le tasse in Italia e qui ha vissuto quasi ininterrottamente da quando è nata. Ma a causa dei requisiti tanto stringenti quanto astratti, se tutto va bene potrà ottenere il passaporto soltanto quando spegnerà quaranta candeline. "Vuoi sapere la beffa? - aggiunge al telefono contattata da BolognaToday -. La cosa che le persone mi chiedono più spesso è: 'Da quanto tempo sei in Italia? " 
La richiesta negata per il trasloco a Londra per motivi famigliari

Yasamin risponde alla chiamata subito dopo che ha finito il suo turno nel reparto di Medicina fisica e riabilitativa. Nonostante la stanchezza, ha una voce energica da cui trapela una lieve inflessione romagnola. Racconta che ha la cittadinanza britannica perché britannica era sua mamma, mentre suo papà era iraniano. Dopo aver fatto l'asilo e i primi tre anni di elementari a Treviso, a otto anni deve con tutta la famiglia trasferirsi a Londra perché la madre è malata e ha bisogno di cure. Per frequentare la quarta elementare deve iscriversi all'anagrafe londinese. "Passati dodici mesi siamo rientrati in Italia perché mamma non ce l'aveva fatta - continua -. Da quel momento ho vissuto sempre qui". Quando compie diciotto anni, però, Yasamin non può inoltrare la richiesta di cittadinanza: la legge richiede dieci anni di continuità di residenza italiana.

L'inferno degli uffici e del permesso di soggiorno

Ma la sua vita va avanti. Diploma con voti brillanti e iscrizione all'Unibo. Sotto le Due Torri si trova anche un lavoretto per mantenersi: "Ho anche tre fratelli di cui due più piccoli - racconta - e a quel tempo le cose a mio padre non andavano molto bene dal punto di vista economico". Dopo il primo anno di Medicina scompare anche il papà. Diventando orfana, sfuma di nuovo la possibilità di richiedere la cittadinanza: "A ventidue anni avevo la continuità, ma non più una famiglia alle spalle per rientrare nei parametri economici richiesti".

La ragazza continua a studiare, affianca agli esami impieghi part-time come baby-sitting e ripetizioni e si laurea perfettamente in tempo. Prosegue con la specialistica e la conclude con il massimo dei voti. Nel frattempo, però, l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea con la Brexit stravolge di nuovo tutto e Yasamin diventa addirittura un'extracomunitaria. Comincia l'inferno dell'ufficio migrazioni e della burocrazia per ottenere il permesso di soggiorno: "È stato un periodo drammatico - ricorda il medico -. Nessuno rispondeva alle mail, non capivo come prendere appuntamento. Agli sportelli le persone vengono trattate malissimo. Io avevo bisogno del documento per partecipare a un concorso e la prima volta me lo consegnarono con il nome scritto sbagliato. Da gennaio 2025 avrò bisogno del visto per circolare in Europa e questa è un'altra 'comodissima' cosa che mi si prospetta davanti".

"Chi ha un parente italiano può arrivare a votare, mentre io non l'ho mai fatto"

Oggi Yasamin ha un visto permanente, ma questo non basta a fare la stessa vita di un'italiana. La mancanza della cittadinanza si ripercuote nella sua quotidianità, dalla partecipazione ai bandi ai controlli di sicurezza fino alle denunce: "Due mesi fa sono stata scippata, e l'agente di polizia mi chiedeva se avessi un lavoro e da quanto fossi in Italia. È la prima cosa che tante persone mi chiedono sempre. Ed è veramente snervante".

Grazie al suo lavoro, tra due anni potrà finalmente fare l'agognata richiesta perché sarà in grado di dimostrare almeno tre anni di reddito. Dopodiché, se tutto fila liscio ce ne vorranno ancora quattro perché le venga finalmente riconosciuto un diritto: a quarant'anni Yasamin diventerà una cittadina italiana dopo aver vissuto 39 anni in Italia. Ma l'amarezza rimane: "Provo tanta rabbia, a volte ho pensato di andarmene dall'Italia - ribadisce la medico -. Tantissimi sono nella mia stessa situazione: persone che sono nate e hanno studiato e che sentono l'Italia come casa propria. Ed è assurdo invece che dall'altra parte del mondo c'è gente che non è mai stata in Italia, ha diritto a chiedere la cittadinanza perché ha sposato un italiano o perché ha un parente italiano, e può potenzialmente addirittura votare. Mentre io, che alle ultime elezioni europee ho fatto il medico scrutatore nell'ospedale in cui lavoro, non ho mai potuto farlo".

La lettera a Lepore, Zuppi e Bergonzoni: "Mi hanno risposto ma poi nulla"

Due mesi fa Yasamin ha scritto una lettera in cui raccontava la sua storia e il suo problema. L'ha inviata alle istituzioni locali, tra cui "il sindaco di Bologna Matteo Lepore, l'arcivescovo Matteo Maria Zuppi e l'attore Alessandro Borgonzoni". Da tutti loro, dice, ha ricevuto una risposta solidale, ma, aggiunge, "poi non è più successo nulla". La stessa lettera è stata ripresa dal giornalista del Post Francesco Costa nella puntata del podcast 'Morning' mercoledì mattina. Con le sue parole Yasamin spera di "contribuire a una maggiore apertura, una maggiore sensibilità. Perché le regole smettano di essere così rigide, perché chi nasce e cresce in Italia è italiano".

Vince l’oro nei 100 metri alle Paralimpiadi ma viene squalificato: “Non era idoneo a quel tipo di gara”., Da dove viene il successo dell'Ucraina alle Paralimpiadi ed altre storie










Vince l’oro nei 100 metri alle Paralimpiadi ma viene squalificato: “Non era idoneo a quel tipo di gara”Incredibile disavventura per il turco Serkan Yildirim che si è imposto con una vittoria al fotofinish in occasione della finale dei 100 metri T12 alle Paralimpiadi di Parigi: non ha potuto festeggiare il successo perché successivamente è arrivata la squalifica da parte del Comitato che gli ha tolto la medaglia, squalificandolo perché ritenuto “non idoneo alla gara”.
La vittoria di Yldirim sui 100 metri T12, al fotofinish
I 100 metri T12 maschili alle Paralimpiadi di Parigi è stata una delle gare più equilibrate dei Giochi, decisa solamente al fotofinish. A giocarsi il successo, oltre al velocista turco, anche lo statunitense Noah Malone e il brasiliano Joeferson Marinho de Oliveira: tra Yldririm e Malone per decidere il vincitore, c’è voluta la moviola che ha premiato il turco che ha fermato il cronometro sul 10:70.


Un successo che Yldirim ha subito festeggiato non appena, avvicinatosi al tabellone luminoso a bordo pista che indicava i tempi e l’ordine d’arrivo, ha visto il proprio nome primeggiare. Una gioia però che è durata pochissimo tempo perché alla fine è stato squalificato dal Comitato e l’oro è andato a Malone mentre il bronzo è stato dato al quarto atleta al traguardo l’inglese Zac Shaw.


Perché Yldirim è stato squalificato dai 100 metri paralimpici
Il classico fulmine a ciel sereno che è arrivato poco dopo aver vinto la propria corsa e che in Turchia ha scatenato la feroce reazione della Federazione davanti a ciò che è stato definito un sopruso verso la Nazione e l’atleta. Yldirim è stato giudicato “non idoneo alla gara” e quindi squalificato dalla competizione con tempi e risultati cancellati. “I risultati del signor Yildirim nella gara a medaglia dei 100 metri T12 maschili sono stati annullati, con tutte le conseguenze che ne conseguono. Le medaglie della gara maschile T12 dei 100 metri saranno riassegnate” si legge nella nota ufficiale della WPA, la federazione internazionale di paratletica.
La nota della Federazione internazionale di Paratletica

“Nella giornata del 30 agosto” spiega il comunicato ufficiale, “la World Para Athletics (WPA) è stata informata di un’ingiunzione provvisoria senza preavviso, emessa da un giudice unico presso il tribunale regionale di Bonn, che richiedeva all’atleta della NPC Turchia, il signor Serkan Yildirim, di essere iscritto alle gare di atletica paralimpica maschile dei 100 m T12 e dei 400 m T12 ai Giochi Paralimpici di Parigi 2024”. Così si è provveduto all’iscrizione e Yldirim ha potuto partecipare, intanto però la WPA aveva fatto ricorso, poi vinto, arrivato solo dopo il successo nei 100 metri: “Solo per ottemperare all’ordinanza del tribunale, la WPA ha permesso al signor Yildirim di gareggiare” conclude la nota, “in base alle norme di classificazione WPA che ai regolamenti di qualificazione WPA per Parigi 2024 non era idoneo a gareggiare”.


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Ieri nel nuoto Yaroslav Denysenko e Maksym Veraska, entrambi ucraini, sono arrivati primo e secondo nei 100 metri stile libero S12 (Sean M. Haffey/Getty Images)


Un po' inaspettatamente l'Ucraina è ormai da tempo una delle più forti nazionali paralimpiche in assoluto: nonostante sia assai meno popolosa (ha 38 milioni di abitanti) e ricca di altri paesi, dal 2004 in poi è sempre stata nelle prime posizioni del medagliere sia ai Giochi estivi che a quelli invernali. Nel 2016 a Rio de Janeiro arrivò addirittura terza davanti agli Stati Uniti, e alle ultime Paralimpiadi invernali nel 2022 a Pechino fu seconda dietro solo alla Cina e davanti a molte nazionali con una tradizione ben più consolidata negli sport invernali.
Le ragioni di questo successo hanno a che fare soprattutto con la lungimiranza di Valeriy Sushkevych, ex nuotatore paralimpico ucraino che entrò in politica alla fine degli anni Novanta. Sushkevych è in carrozzina fin dall'infanzia, dopo essere sopravvissuto a una poliomielite. Fondò il comitato paralimpico ucraino nel 1992, di cui oggi a 70 anni è ancora presidente, ed è eletto ininterrottamente dal 1998 in parlamento, dove ha ancora responsabilità nell'ambito sportivo e delle disabilità. Tra le cose più importanti, da parlamentare fece in modo che le Paralimpiadi avessero un budget dedicato separato da quello delle Olimpiadi (mentre ancora oggi molti paesi finiscono per destinare alle Paralimpiadi ciò che avanza dal budget per le Olimpiadi); nel 2002 fece aprire il centro paralimpico nazionale, dove centinaia di atleti paralimpici potevano allenarsi in strutture di alto livello e seguiti in modo professionale.
Le sue prime iniziative ebbero risultati quasi immediati, visto che l'Ucraina alle Paralimpiadi passò in pochissimi anni da risultati dimenticabili ai primi posti del medagliere a ogni edizione. Anche in questi giorni potreste aver visto molti ucraini sul podio, specialmente nel nuoto: al momento l'Ucraina è settima nel medagliere con 52 medaglie, 13 delle quali d'oro.




L'handbike, che solo noi chiamiamo cos
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Il portabandiera italiano Luca Mazzone, che ieri ha vinto l'argento a 53 anni (Michael Steele/Getty Images)

Ieri sono cominciate le gare di ciclismo su strada con le prove a cronometro (quelle dove gli atleti fanno il percorso uno per uno e poi si confrontano i tempi), e l'Italia ha vinto le sue prime medaglie: un oro con Fabrizio Cornegliani nella categoria H1, un argento con Luca Mazzone nell'H2 e un bronzo con Martino Pini nell'H3. Sono tutte e tre categorie del ciclismo paralimpico che prevedono l'uso di una handbike, la bicicletta in cui si “pedala” con le mani da sdraiati o in ginocchio, che ha due ruote dietro e una davanti. Il nome diventato più comune in italiano è evidentemente inglese, ma non è lo stesso che si usa in inglese, dove invece viene chiamata handcycle.
Le categorie arrivano fino a H5 e più il numero è basso, più è alto l'impatto della disabilità sulle capacità di movimento dell'atleta. Fino a H4 gli atleti non hanno capacità di movimento sul tronco o quasi, e stanno quindi completamente sdraiati sull'handbike. Nella categoria H5 invece si sta in ginocchio. Il funzionamento è lo stesso di una bicicletta, con le ruote azionate dagli ingranaggi di una catena, ed è invece diverso da quello di una carrozzina da corsa, che è messa in movimento da una spinta che si applica con le braccia direttamente sulle ruote (nel caso delle carrozzine da corsa le ruote sono coperte da cerchioni con delle prese che rendono più agevole la spinta).
Anche se le prime forme di handbike sono piuttosto antiche, lo sport si è sviluppato solo negli ultimi decenni del Novecento, ed è entrato nel programma paralimpico a partire da Atene 2004. Dopo le prove a cronometro, oggi ci saranno quelle in linea sia maschili che femminili. Oltre alla handbike il ciclismo paralimpico prevede anche una categoria per atleti con disabilità visive in tandem con un ciclista vedente (detto “pilota”), due categorie di tricicli per atleti con disfunzioni locomotorie o problemi di equilibrio e poi varie categorie di atleti che usano bici tradizionali.






Per ricordo o  per  vanagloria 

In Francia si sono un po' fatti prendere la mano con questi Giochi olimpici e paralimpici: dopo la proposta di mantenere la mongolfiera con il braciere olimpico in aria sopra Parigi, ora si sta discutendo della possibilità di lasciare anche gli anelli olimpici sopra la Tour Eiffel alla fine dei Giochi. La sindaca
(Alexis Sciard/IP3 via ZUMA Press)
Anne Hidalgo aveva dato la cosa per fatta, ma la ministra della Cultura Rachida Dati ha poi fatto capire che non è così semplice e che ci sono diverse procedure sulla conservazione del patrimonio culturale da rispettare (anche se Dati sarà con ogni probabilità sostituita presto, insieme al resto dell'attuale governo).
C'è poi anche un'altra proposta per mantenere esposti da qualche parte a Parigi gli “agitos”, il simbolo delle Paralimpiadi, che al momento sono sopra l'Arco di Trionfo, dove però a quanto sembra non potranno restare in ogni caso.




I sottovalutatissimi tapper

Nelle gare di nuoto per atleti e atlete cieche devono sempre esserci a bordo piscina delle persone che usano un bastone per toccarle quando stanno per arrivare alla fine della vasca, in modo che evitino di andarci a sbattere. Sono chiamate tapper, dal verbo inglese to tap (tamburellare, picchiettare). Sembra un compito semplice ma non lo è, perché in gare che si decidono anche per pochi centesimi il tempismo della battuta può fare un'enorme differenza: «Se siamo in perfetta sintonia, la mia virata dev’essere identica a quella di un nuotatore normodotato: non bisognerebbe accorgersi che sono cieco», disse una

La nuotatrice statunitense Anastasia Pagonis
alle Paralimpiadi di Parigi (Fiona Goodall/Getty Images for PNZ)

volta il nuotatore statunitense Brian Snyder, vincitore di sei ori paralimpici.
Ci sono nuotatori che preferiscono essere toccati sulla schiena o in testa, con più o meno forza, una volta o due volte, e a una distanza diversa dalla fine della vasca a seconda del loro modo di nuotare. Una cosa particolare è che non esiste uno strumento ufficiale e omologato per fare questa cosa, ognuno può utilizzare quello che preferisce e spesso si usano dispositivi molto “artigianali”, aste o bastoni rivestiti di gommapiuma per non rendere traumatico il tocco: prima delle Paralimpiadi, la nuotatrice statunitense Anastasia Pagonis aveva fatto vedere come costruiva il suo.
Se ve lo state chiedendo, nelle gare più lunghe di 50 metri i tapper non corrono da una parte all'altra della vasca per segnalare la fine su entrambi i lati (una delle prime regole che si imparano in piscina è che non si corre a bordo vasca, no?): servono due tapper.

 sempre  di guide      ecco  come  fanno  gli atleti\e  non vedenti 




Per le atlete e gli atleti ciechi\non vedenti  non c'è niente di più importante delle guide, cioè le persone che corrono, pedalano e nuotano insieme a loro permettendogli di allenarsi e gareggiare. E con cui – se vogliono ottenere risultati – devono creare un'intesa quasi perfetta.










Paraolimpiadi, il gesto che ha conquistato i cuori, Lukasz Mamczarz getta via le stampelle e salta con una gamba sola e la detterminazione di Carlotta Gilli, la malattia e il record di medaglie: «Tre anni complicati, dopo i Giochi devo tornare in ospedale»

 Nonostante  abbia   scritto  :  un post  d'elogio e  di  gioia  quando ho  appreso  che   ieri  (  adesso  sono  48  )  la nazionale  paraolimpica    ha  superato    quella  olimpica    in numero    di  medaglie   mi  rendo  conto      vista  l'impresa  di  Lukasz Mamczarz    , che   nostante  il settimo posto nella gara di salto in alto,  è diventato un’icona delle Paralimpiadi di Parigi  che   più  delle medaglie    sono :   la detterminazione   ed  il  coraggio   quello     che     conta  . Infatti  è     grazie a un gesto di forza e volontà che ha conquistato il pubblico blico.Vedendo il  video   (  vedere   sotto ) o la  sequeza    fotografica   di queste immagini ci rendiamo che troppo spesso ci fermiamo davanti ad un ostacolo pensando che sia impossibile da superare, ma nella realtà è soltanto un limite che ci poniamo. Complimenti a questo meraviglioso Atleta.  Infatti 

da https://www.msn.com/it-it/sport/other/

[....] 
Il salto che ha conquistato i cuori
Alle Paralimpiadi in corso a Parigi, il 36enne polacco Lukasz Mamczarz ha dimostrato che, più delle medaglie, sono la determinazione e il coraggio a rendere un atleta memorabile. Mamczarz, che ha perso la gamba sinistra in un incidente motociclistico nel 2009, ha partecipato alla gara di salto in alto nella categoria T63 e T42, riservata agli atleti con amputazioni sopra il ginocchio. Nonostante non abbia conquistato un posto sul podio, classificandosi settimo con un salto di 1 metro e 77 centimetri, il video del suo salto ha fatto il giro del mondo, totalizzando milioni di visualizzazioni sui social. Il filmato

mostra Mamczarz che, con due stampelle, si avvicina alla pedana e poi le getta via, chiedendo il sostegno del pubblico. Con un’incredibile rincorsa sulla sola gamba destra, il polacco stacca e supera l’asticella, tra gli applausi entusiasti del Stade de France. Una carriera di successi e ispirazione Nella competizione vinta dall’americano Ezra Frech con un salto di 1,94 metri, Mamczarz era l’unico atleta senza protesi, il che lo ha reso ancora più straordinario agli occhi degli spettatori. La sua performance ha ricordato i successi della sua carriera: Mamczarz aveva già rappresentato la Polonia alle Paralimpiadi di Londra 2012, dove vinse il bronzo nel salto in alto (T42). Ha conquistato altri riconoscimenti, tra cui due bronzi ai Mondiali di atletica paralimpica e due ori agli Europei nel 2014 e 2016. 


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 da  corriere  dela sera  tramite  msn.com 


Carlotta Gilli, la malattia e il record di medaglie: «Tre anni complicati, dopo i Giochi devo tornare in ospedale»

Carlotta Gilli, la sua Paralimpiade si chiude con cinque medaglie, come a Tokyo. Che sensazioni ha?

«Sapevo che Parigi 2024 sarebbe stata una grande sfida, diversa da Tokyo 2020, forse anche più difficile e questo ha reso tutto più straordinario».

Perché più difficile?

«Dopo l’ultima gara ho voluto prendermi del tempo e mi sono fermata a pensare agli ultimi tre anni, che sono stati complicati. Ho spesso interrotto la preparazione per girare fra ospedali, interventi, visite».


Cosa è successo?

«Mi hanno trovato un osteoblastoma alla colonna vertebrale, molto vicino all’osso, poteva essere pericoloso, anche intervenire. Ho ancora una operazione da fare nelle prossime settimane».

Non ha pensato di rinunciare? Lei ha 23 anni, a Los Angeles sarà nel pieno della maturità sportiva.

«La vita mi ha insegnato a non fermarmi davanti agli ostacoli e ho fatto il possibile per esserci. Volevo godermi le emozioni che solo il nuoto sa regalarmi».

Quindi queste medaglie pesano più di quelle di Tokyo?

«Alla vigilia nulla era scontato. Per questo, quando ero sul podio con quell’ultimo oro mi sono passati davanti questi tre anni, mi è sembrato di essere sulle montagne russe, fra cadute e risalite».

Eppure a Parigi la vasca è stata sua, non solo fra coloro che sono ipovedenti come lei: sempre a medaglia, ha vinto l’oro nei 100 farfalla e 200 misti, l’argento nei 400 stile libero, il bronzo nei 100 dorso e nei 50 stile.


«Potersi confermare con cinque medaglie è stato bellissimo, anche più che a Tokyo perché, oltre ai problemi che ho avuto, c’era il pubblico, gli amici, la famiglia. Per esserci si sono strette a me tante persone, ci terrei a dirlo».

É giusto, prego.

«La Federazione mi è sempre stata vicina. Il mio allenatore Andrea Grassini e il mio preparatore Pier Carlo Paganini mi hanno aiutato in piscina. Il personale dell’Ospedale Molinette a Torino, il professor Berguì, i dottori Martorano e Ravera lo hanno fatto dal punto di vista sanitario».

E poi c’è nonna Rina.

«Sempre presente alle mie gare. Mi dice: se ci credi, prova».

C’era tutta la sua famiglia a Parigi, e non solo. Con mamma Tiziana a papà Marco, tanti suoi amici e amiche.

«Dedico a loro quell’ultimo oro, ma anche a chi mi vuole bene mi segue da casa. Se sono riuscita a fare quello che ho fatto è anche grazie a loro, perché la vita dell’atleta non è per niente facile».


I momenti più difficili?

«La prima operazione che ho fatto nel 2022. Entri in una sala operatoria e non sai come esci. Ho capito una volta di più le priorità della vita, quanto conta la salute. Poi ne ho fatta una ad aprile dello scorso anno e a giugno avevo i Mondiali».

Vinse una medaglia d’oro, una d’argento e un bronzo.

«Mi sono detta: ho fatto un miracolo».

Parigi l’ha ripagata.

«Non solo per le medaglie e le vittorie. Anche le soddisfazioni per la Nazionale: siamo tutti amici, condividiamo tutto, anche le sconfitte. É stato come chiudere il percorso di questi anni difficili».

se israele continua con la sua politica logico ed ovvio che ci saranno altre sparatorie o peggio come quella d'oggi a monaco

  da    TheSocialPost.it

sparatoria consolato israeliano Monaco

Germania: sparatoria nei pressi del consolato israeliano a Monaco

Pubblicato: 05/09/2024 10:51

Giornata drammatica quella che sta vivendo la Germania. Dopo la notizia di una sparatoria con morti e feriti a Berlino, anche a Monaco di Baviera accade la stessa cosa. Stavolta nei pressi del consolato israeliano. Il video diffuso sui social è impressionante.

Leggi anche: Berlino, sparatoria in strada: un morto e due feriti

Il video della sparatoria al consolato israeliano

Secondo quanto si apprende, un uomo armato ha aperto il fuoco nei pressi del consolato israeliano a Monaco. Secondo l’emittente pubblica Kan, inoltre, non ci sarebbero feriti nell’attacco e l’uomo armato è stato “neutralizzato”. L’attacco armato è avvenuto proprio nel giorno dell’anniversario dell’attacco terroristico alle Olimpiadi di Monaco del 1972.


 fin  quando israele e le  frange  più estremiste  dei loro  abitanti   non la  smetteranno   con la  sua  politica    sui palestinesi   e  di  bombare  l'odio    verso il loro popolo   sarà ancoira  maggiore  e  gli attentati  aumenteranno . Infatti  

da   https://www.fanpage.it/

“Abbiamo dato ai palestinesi un motivo per odiarci”: il racconto di un ex soldato israeliano
Un ex soldato israeliano, oggi membro dell’organizzazione Breaking The Silence, racconta il momento in cui tutte le sue certezze sulle IDF e sull’occupazione dei territori palestinesi sono crollate: “Me ne sono reso conto guardando negli occhi dei bambini palestinesi, durante una missione notturna vicino Jenin”.

                                      

                                                           A cura di Annalisa Girardi


Joel Carmel ha una trentina d'anni, è originario del Regno Unito ma da tempo vive a Gerusalemme, in Israele. Ed è un ex soldato delle IDF, le forze di difesa israeliane. Oggi fa parte di Breaking The Silence, un'organizzazione di veterani che ha deciso di raccontare la realtà dell'occupazione in territorio palestinese.Durante il primo anno di servizio militare è stato mandato al confine con la Striscia di Gaza, al valico di Erez, per poi essere trasferito in Cisgiordania, nella regione di Jenin. Si occupava di gestire le richieste sui permessi dei palestinesi che volevano entrare in territorio israeliano, per lavorare, fare una visita medica o qualsiasi altro motivo.“Tutti noi siamo arrivati a Breaking The Silence dopo aver avuto una specie di epifania, un momento che ci ha fatto vedere le cose in maniera diversa – ci racconta, in una lunga intervista – Io ero piuttosto critico dell’occupazione, anche prima di entrare nell’esercito, ma pensavo che sarei potuto diventare un buon soldato. E pensavo che, trattando bene i palestinesi, sarei potuto essere una buona influenza anche su chi mi stava attorno. Ma con il tempo è diventato sempre più chiaro che non esiste un modo “buono” per fare quello che facevamo”.“Posso essere gentile e amichevole quanto voglio, ma è l’occupazione come fatto in sé che crea una situazione in cui ci sono delle persone che vengono costantemente oppresse e tenute sotto controllo. Non c’è un modo buono, morale, per gestirla”.
La realtà dell'occupazione israeliana, il racconto dell'ex soldato delle IDF
Il momento in cui Carmel lo ha realizzato è stato durante una cosiddetta “mapping mission”. Non sapeva molto di cosa accadesse in queste missioni, che avvenivano sempre nel bel mezzo della notte, così una volta ha chiesto di partecipare. Faceva parte di una sezione amministrativa dell’esercito, quindi non era solito stare sul campo, ma è stato comunque incoraggiato a partecipare.
“Era inverno, all’inizio del 2015. Sono salito su una jeep del convoglio militare, era circa l’una di notte e abbiamo iniziato a guidare attraverso questo villaggio palestinese vicino a Jenin. Quando siamo scesi ci hanno dato una lista di coordinate, che non erano altro che gli indirizzi di alcune persone. Ci siamo divisi in squadre, ricordo una fortissima adrenalina. Siamo andati verso la prima casa e il comandante ha iniziato a battere forte sulla porta.Un uomo ci ha aperto, era chiaramente sorpreso e spaventato di vedere un gruppo di otto o nove soldati, pesantemente armati, alla sua porta. Il comandante gli ha chiesto di svegliare il resto della famiglia e di portarli tutti di sotto, all’entra
ta. Di colpo mi sono trovato questa famiglia davanti. C’erano bambini molto piccoli, sei o sette anni. Il comandante ha iniziato a fare una serie di domande molto semplici, di base è questo che si fa durante una ‘mapping mission’. L'obiettivo è appunto quello di mappare un villaggio o una comunità: si va nelle case delle persone, si fanno delle perquisizione, delle domande, a volte si disegna proprio una mappa schematica della casa oppure si mettono in fila contro il muro i componenti della famiglia e si scattano alcune foto. L’idea è quella di raccogliere quante più informazioni possibili su un determinato luogo, così se in futuro c’è bisogno di prendere il controllo di quel villaggio, si hanno già tutte le informazioni che servono.
Ricordo che guardavo i bambini, erano terrorizzati. Pensavo che lo fossero perché non sapevano cosa stessimo facendo lì. Non potevano sapere che non avevamo alcuna intenzione di fare loro del male, nessuno glielo aveva detto. Non parlo arabo, non avevo alcun modo di comunicare con loro, ma volevo dirgli che era tutto ok. L’unico modo per farlo era sorridergli. Così ho sorriso. Ma loro non mi hanno sorriso a loro volta, continuavano a guardarmi con un misto di odio e di paura.Lì mi è crollato tutto addosso, in quel preciso momento. Da quando sono piccolo – e soprattutto poi, durante il mio addestramento nell’esercito – mi era sempre stato ripetuto che tutto ciò che facevano le IDF era per mantenere le persone al sicuro. Per questioni di sicurezza, per fare in modo che possiamo vivere in Israele tranquillamente. Dicevano che a volte potevano esserci dei momenti difficili, in cui bisognava fare cose delle cose spiacevoli, ma che tutto accadesse per ragioni di sicurezza. In quel momento, mentre guardavo quei bambini e loro guardavano me, ho realizzato che non era vero niente. Nulla di quello che stavamo facendo aveva qualcosa a che fare con la sicurezza, con il fatto di tenere le persone al sicuro. Semmai il contrario: ho pensato che magari quei bambini si stessero radicalizzando in quel momento. Forse eravamo proprio noi a creare un problema di sicurezza, perché non so che cosa pensassero quei bambini prima di quella notte, ma noi gli stavamo sicuramente dando una ragione per odiarci, per odiare Israele e l’esercito israeliano. Alla fine della missione il comandante ci ha detto una cosa. Ci ha spiegato che non ci stessimo presentando lì nel bel mezzo della notte sulla base di qualche sospetto, mentre tutti dormivano per non farci vedere. Stavamo andando lì in piena notte per fare vedere loro chi comandasse. In quel momento non stavamo svegliando solo quella famiglia, stavamo tirando giù dal letto un intero villaggio, dimostrando così a tutti che potevamo farlo, che eravamo noi al comando. Eravamo noi che controllavamo tutto quello che succede nel villaggio e che potevamo decidere a che ora svegliare tutti quanti. Siamo andati lì per raccogliere informazioni. E questo ci serviva per rafforzare il nostro controllo: sapevamo dove vivevano, a che ora si svegliavano, in che letto dormiva ogni singola persona. Era il modo di tenere i palestinesi costantemente consci del fatto che saremmo potuti arrivare in qualsiasi momento”.
Mantenere una pressione costante
Una volta lasciato l’esercito Carmel è entrato a far parte di Breaking The Silence e si è reso conto che missioni come quella a cui aveva partecipato nell’inverno del 2015 venivano fatte di continuo. Era solo una parte di una strategia molto più ampia, che consisteva (e consiste ancora oggi) nel far percepire perennemente la presenza dell’occupante.
“L’unico modo per tenere sotto controllo milioni di persone, e questo va avanti da oltre cinquant’anni in Cisgiordania, è quello di intimidirle incessantemente, tenendole in uno stato di paura continua e di violenza, in modo che non alzino mai la testa, che non facciano mai qualcosa che possa anche solo lontanamente rappresentare una minaccia. Come scrivere un semplice post su Facebook, l’obiettivo era di spaventare le persone talmente tanto da farle diventare costantemente terrorizzate delle potenziali ripercussioni che avrebbe generato anche il più piccolo segnale di resistenza o di disobbedienza”, ha raccontato.
Breaking The Silence ha raccolto moltissime testimonianze di cosa voglia dire vivere nella Cisgiordania occupata e non sentirsi più al sicuro all’interno di casa propria. Alcune sono state pubblicate in un report – redatto insieme ad altre due ong, Yesh Din e Physicians for Human Rights Israel – che si chiama “A Life Exposed – Military invasions of Palestinians Homes in the West Bank”. Subito dopo le IDF hanno detto che non avrebbero più condotto queste "mapping missions". Una notizia che ha sorpreso, quantomeno. Di solito l’esercito israeliano non interrompe le sue pratiche militari solo perché è stato pubblicato un report di denuncia. E infatti non era quello il motivo dello stop: semplicemente queste missioni non erano più necessarie, perché lo stesso risultato si poteva ottenere con la tecnologia.
Quando la tecnologia svolge i compiti degli esseri umani
“Da quel momento a Breaking The Silence abbiamo iniziato a ricevere delle testimonianze sull’utilizzo di un’app, Blue Wolf. Dei soldati ci hanno raccontato di aver ricevuto in dotazione dei telefoni dall’esercito, che disponeva di questa applicazione che non era altro che un modo diverso di sorvegliare i palestinesi”, ha sottolineato Carmel.
Questa applicazione – di cui ha parlato anche Amnesty International in un dettagliato report – abbina le foto dei palestinesi scattate dai soldati israeliani a un gigantesco database, dove sono contenuti i loro dati. Una sorta di Grande Fratello dove tutti vengono schedati. Non solo: alcuni militari hanno raccontato che tra le funzionalità dell’app, una lancia di fatto una competizione. Vengono mostrati quanti match ogni squadra riesce a fare e il numero appare poi in una classifica generale: chi ha ottenuto più abbinamenti vince un premio, ad esempio una licenza più lunga nel fine settimana. Una conseguenza? I soldati sono incentivati a scattare quante più foto possibili e a trovare sempre più corrispondenze all’interno della banca dati.
“Le IDF, da parte loro, dicono che Blue Wolf sia un vantaggio anche per i palestinesi, perché rende tutto più efficiente – ha spiegato Carmel – A un checkpoint, per esempio esempio, non devono più aspettare che il soldato controlli manualmente i loro dati, cercando riscontro al database per sapere chi ha davanti, visto che è direttamente l’app a fare tutto in tempo reale. Ma quello che le IDF non ammetteranno mai è che tutto questo serve ad aumentare il controllo, ad avere sempre più dati senza che i palestinesi abbiano alcuna voce in capitolo. Quindi non è che una violazione dei loro diritti”.
L'automatizzazione del controllo su una popolazione è un processo disumano, non c'è dubbio. Questi stessi meccanismi applicati alla guerra sono ancora più tragici.
L'IA durante la guerra
Dal 7 ottobre diverse inchieste giornalistiche hanno raccontato l'orrore del conflitto automatizzato, in cui i sistemi di intelligenza artificiale non rispondono a necessità "etiche e morali" – semmai questo sia possibile in un contesto di guerra – per cercare di limitare l'entità della distruzione e delle vittime civili. Al contrario, l'intelligenza artificiale verrebbe usata meramente al servizio dell'obiettivo militare, per colpire i nemici e neutralizzare le minacce, mettendo semplicemente in conto che degli innocenti diventino danni collaterali.Un software di intelligenza artificiale non ha valori o principi morali, se non quelli che gli vengono insegnati. Una guerra automatizzata è qualcosa di tragico, dove un massacro di civili può avvenire in qualche secondo, al di fuori del controllo umano. Dove potenzialmente è una macchina a decidere chi uccidere, senza che nessuno sia responsabile di quella decisione.E questo sarebbe accaduto anche nella Striscia di Gaza, soprattutto nelle settimane subito dopo il 7 ottobre. Un'inchiesta di +972 Magazine e Local Call ha raccontato come nella prima fase del conflitto sia stato un sistema di intelligenza artificiale a individuare gli obiettivi da colpire, e uccidere.Da quando è scoppiata la guerra a Gaza, diversi soldati hanno contattato Breaking The Silence per raccontare la loro testimonianza: alcune sono in fase di verifica, altre non possono ancora essere pubblicate. L'unica cosa che ci ha potuto dire Carmel, quando gli abbiamo chiesto dell'inchiesta, è stata: "Ha senso che le cose stiano così. Pensiamo all’occupazione: la tecnologia è sempre stata usata per mantenere il controllo su un territorio e una popolazione. Ed è per questo che si cerca di essere sempre un passo avanti con le tecnologie”.
“È molto semplice fare affidamento alla tecnologia, perché ci risulta convincente. Ma commette errori. Lo faceva anche con Blue Wolf. Le tecnologie di riconoscimento facciale, per esempio: più una persona ha la pelle scura, più è probabile che il sistema non la riconosca e la confonda con un’altra. E quando avviene questo, può succedere che qualcuno venga scambiato per un altro e arrestato, anche se non ha fatto nulla. In un contesto di guerra, l’errore ovviamente rischia di fare molti più danni”.Secondo il governo di Hamas nella Striscia di Gaza, dal 7 ottobre sono state uccise oltre 40 mila persone. Mentre la comunità internazionale chiede il cessate il fuoco e il rilascio immediato degli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani, una tregua sembra lontanissima.
“Il 7 ottobre è stato traumatico. A Breaking The Silence abbiamo perso delle persone, che sono state uccise quel giorno. Tutto quello che è accaduto poi a Gaza è semplicemente terrificante. E rende più difficile pensare che ci possa essere la pace in futuro: già prima lo era, con l’occupazione, ma ora è peggio. Allo stesso tempo credo che ora si sia aperto uno spazio di discussione, perché è diventato evidente, almeno dal nostro punto di vista, che questo conflitto non si risolve con la forza militare", ha commentato Carmel.
Per poi spiegare: "Dal 1967, ogni governo che si è succeduto ha messo sempre più risorse, sforzi, soldi nell’occupazione. Perché si è sempre pensato che fino a quando si riusciva a mantenere il controllo da un punto di forza, fino a quando non si fossero fatte concessioni, sarebbe andato tutto bene. Ma quello che noi cerchiamo di dire da sempre, e il 7 ottobre l’ha dimostrato, è che non si può pensare di gestire un conflitto del genere per sempre, perché è come una pentola a pressione. Più pressione si mette, più è vicino il momento dell’esplosione. E alla fine questa esplosione c’è stata, va avanti tutt’ora e continuerà a farlo se non si troverà una soluzione a lungo termine che assicuri a tutti libertà, diritti e giustizia".
Infine, il veterano ha concluso: "È molto difficile fare questo tipo di discorsi in circostanze così traumatiche, ma ora abbiamo l’opportunità di convincere la nostra società e la comunità internazionale che l’unica via perché sia gli israeliani che i palestinesi vivano in pace e sicurezza è una soluzione politica”.


4.9.24

gli atleti paraolimpici hanno superato gli atleti olimpici nel medagliere

 


li trattiamo male ( mala burocrazia , barriere archiettetoniche , scuola , bullissmo , ipocrisia , ecc ) eppure hanno superato in di medaglie ben 44 ( e mancano ancora 4 giorni a finire i #giochiparraolimpici ) le 40 delle semplici olimpiadi . GRAZIE continuate cosi . I giornaloni e tg ne parleranno nelle prime pagine o in fondo alle pagine

Bebe vio gareggia con il cognome della madre , Quattrocento tonnellate di sabbia per il calcio paraolimpico a5 , anche alle olimpiadi russia ed ucrania si odiano il caso Ihar Boki , Qualche dritta per seguire la scherma in carrozzina , Trance agonistica Elisabetta Mijno,

Bebe Vio Grandis. Parigi 2024 è la terza Paralimpiade a cui la campionessa mondiale di scherma


 partecipa ma con un altro cognome in aggiunta. Non è uno nuovo, semmai uno doppio: ha voluto che nella distinta ufficiale ci fosse anche quello della madre, Teresa, e non solo quello di suo padre, Ruggero.
Perché Bebe Vio partecipa alle Paralimpiadi con un "nuovo" cognome
Perché lo ha fatto? Le sue parole nell'intervista a Fanpage.it spiegano bene qual è il senso della scelta fatta qualche tempo fa e che adesso torna di stretta attualità: "È stata una scelta familiare comune di aggiungere il cognome di mamma, ci tenevamo a farlo per puro orgoglio. Abbiamo impiegato un po' di tempo perché è stato veramente un casino fare tutte le pratiche. Pensavamo fosse giusto nei confronti di mamma, della famiglia di mamma, avere quella parte di storia con noi. E lei ne è stata fiera".
Lo è sempre stata, anche nei momenti peggiori. Quando sua figlia, a 11 anni, venne colpita da una meningite fulminante sentì il mondo crollarle addosso: a causa di un'infezione i medici furono costretti ad amputarle i quattro arti. Fu straziante ma "non ho mai pensato di mollare un secondo, mai – disse in un'intervista la signora Grandis –. Non ho mai perso la speranza che Bebe potesse sopravvivere
Nonostante vi avessero detto che c'era il 97 per cento di probabilità che morisse".
Chiese a suo marito: "Rideremo ancora?". Lo ha scoperto solo vivendo e oggi anche per questa ragione (e molte altre) Beatrice Maria Adelaide Marzia (il nome per intero all'anagrafe dell'Azzurra) Lo porterà con grande orgoglio sulle spalle. E non sarà affatto un peso per la responsabilità che sente di avere con tutti i riflettori puntati addosso. Anzi, le darà maggiore forza quando salirà in pedana nel fioretto femmibile B per difendere il titolo conquistato a Tokyo 2020, il secondo dopo il successo a Rio 2016.
Quando gareggia Bebe Vio: le date e gli orari nel fioretto individuale e a squadre



Domani, mercoledì 4 settembre (a partire dalle ore 12:00), Vio Grandis si batterà nell'individuale e poi giovedì 5 nella prova a squadre assieme ad Andreea Mogos, Loredana Trigilia e Rossana Pasquino (dalle 10:00). Brasile, Giappone e adesso la Francia: "Ci arrivo con un'altra testa", ha confessato a Il Messaggero spiegando le differenti emozioni vissute nelle tre edizioni dei Giochi: il debutto, la soddisfazione di un trionfo arrivato in un momento storico delicato per il periodo oscuro e di cattivi pensieri provocati dall'epidemia globale di Covid ("ma anche perché ero reduce da un brutto infortunio") e ora l'esperienza da veterana in "un villaggio pieno di gente e stadi pieni" rispetto ai rigidi protocolli sanitari e alla profilassi previsti nel Sol Levante.
"Le Paralimpiadi sono una figata pazzesca – ha spiegato al sito ufficiale della Federscherma -, perché in questo periodo si dà davvero grande attenzione al nostro movimento". L'importanza dell'evento sportivo va di pari passo a un messaggio altrettanto forte: "Aver cambiato la mentalità della gente. Oggi i bambini parlano di sport e disabilità a scuola, fanno i giocattoli con le protesi o le carrozzine e noi non siamo più eroi".


anche  alle    paraolimpiadi russia  ed ucrania   si odiano  il  caso Ihar Boki 

Ieri il nuotatore bielorusso Ihar Boki ha vinto la sua quinta medaglia d'oro a queste Paralimpiadi, nella gara dei 200 metri misti, dopo aver già vinto i 50 stile libero, i 100 farfalla, i 100 dorso e i 400 stile libero: è la sua 21esima medaglia d'oro paralimpica, un numero impressionante che lo rende il nuotatore più vincente nella storia delle Paralimpiadi. La categoria in cui gareggia è la S13, per atleti con

Boki con la più recente delle sue 5 medaglie d'oro di Parigi 2024,
 quella dei 200 metri misti (Sean M. Haffey/Getty Images)
disabilità visiva lieve. Boki ha 28 anni e le prime Paralimpiadi a cui partecipò furono quelle di Londra 2012, quando di anni ne aveva 16 e vinse 5 medaglie d'oro.
Per cinque volte, quando Boki ha vinto, al posto dell'inno bielorusso è stato fatto suonare quello paralimpico, come prevede il regolamento per gli atleti russi e bielorussi, che a causa dell'invasione russa dell'Ucraina (sostenuta dalla Bielorussia) gareggiano senza bandiera e sono indicati come atleti neutrali. Boki in questi giorni si presenta in piscina indossando una tuta lilla, senza richiami ai colori della bandiera bielorussa (rosso e verde), e le sue vittorie non sono conteggiate nel medagliere. Nella gara dei 50 stile libero, domenica, ha vinto davanti a due ucraini, Illia Yaremenko e Oleksii Virchenko, che sul podio si sono rifiutati di posare con lui per la foto di rito con le medaglie e hanno festeggiato a qualche metro di distanza da Boki, che è sembrato a metà tra l'imbarazzato e il dispiaciuto.

Questa  storia    mi  ha  fatto  venire  mente  la  vignetta  di Mauro Biani  letta  su thread   poco  prima del  post  

Alle Paralimpiadi di Parigi ci sono in tutto 88 atlete e atleti russi e 8 bielorussi, più del triplo dei 30 complessivi che c'erano alle Olimpiadi. È un fatto che si spiega anche con la maggiore tendenza inclusiva della competizione: alle Olimpiadi per esempio la federazione di atletica aveva escluso del tutto russi e bielorussi, alle Paralimpiadi non è successo.




Quattrocento tonnellate di sabbia





Il torneo di calcio a 5 per ciechi, che è iniziato domenica, si gioca nello stesso luogo, molto spettacolare, che era stato scelto per le partite di beach volley alle Olimpiadi: un'arena temporanea montata sul champ-de-Mars, il giardino pubblico sotto la Tour Eiffel.
Come ha raccontato il quotidiano francese Le Monde, nelle due settimane di pausa tra le Paralimpiadi e le Olimpiadi gli organizzatori non hanno avuto tempo di rimuovere le 400 tonnellate di sabbia portate lì per il beach volley, quindi hanno deciso di installarci sopra una struttura di legno, sopra la quale mettere poi il campo sintetico per il calcio a 5. Un po' per caso e con un po' di fortuna, pare sia stata una buona scelta anche per il gioco: la sabbia assorbe i rumori e riduce il riverbero, consentendo ai calciatori di sentire meglio la palla e le indicazioni delle guide.



Qualche dritta per seguire la scherma in carrozzina

Ieri è iniziata la scherma in carrozzina con i tornei singolari di sciabola, dove l'Italia ha vinto un bronzo con Edoardo Giordan. Oggi invece tocca al fioretto e in pedana ci sarà quindi la più nota atleta italiana a queste Paralimpiadi, Bebe Vio. Fioretto e Spada prevedono anche un torneo a squadre, come alle Olimpiadi, mentre la sciabola no.
Le regole della scherma in carrozzina sono in gran parte le stesse della scherma olimpica, con la differenza più evidente che sta ovviamente nel fatto che atlete e atleti sono seduti su una carrozzina:

Un attacco di Edoardo Giordan durante la finale per il bronzo
vinta contro l'ucraino Andrii Demchuk (Steph Chambers/Getty Images)
questa è fissata a terra in modo che non si muova ed è ruotata di 110° rispetto alla direzione della pedana. La distanza tra gli schermidori viene stabilita di volta in volta in modo che quello con il braccio più corto possa arrivare a toccare l'altro con l'arma.
Sono ammesse atlete e atleti che hanno subito lesioni al midollo spinale, con amputazioni alle gambe, con una paralisi cerebrale o in generale con una disabilità che richieda l'uso della carrozzina. Ci sono due categorie, A e B: la prima per atleti con una disabilità almeno a una gamba, ma che hanno una buona mobilità del tronco e possono quindi muoversi avanti e indietro per schivare i colpi; la seconda per chi ha disabilità che non permettono movimenti del tronco e che influenzano in parte anche l'uso del braccio armato. È vietato stare piegati all'indietro per schivare i colpi per più di 15 secondi e una parte del corpo deve sempre restare a contatto con la carrozzina (due regole che si riferiscono perlopiù agli atleti di categoria A).Per il resto, le regole sull'uso delle armi sono quasi del tutto le stesse valide anche alle Olimpiadi.


Trance agonistica

Elisabetta Mijno era probabilmente l'arciera su cui c'erano più aspettative tra tutti i 9 atleti e atlete della squadra italiana di tiro con l'arco (la più numerosa insieme a quelle di Turchia e Cina): ieri ha disputato un torneo di arco ricurvo (quello tradizionale, anche detto arco “olimpico”) senza quasi commettere errori, in cui alla fine ha vinto la medaglia di bronzo dopo una semifinale persa per pochi millimetri. Lei ha fatto capire che aveva aspettative un po' più alte, parlando alla Rai dopo il torneo: «Le medaglie sono sempre una soddisfazione, poi il colore cambia e c'è differenza», ha detto. E poi, senza sbilanciarsi, «non posso dire che sia stata una brutta giornata».


                         Mijno durante un tiro del torneo di ieri (Elsa/Getty Images)

Mijno ha 38 anni, è una medica specializzata in ortopedia e traumatologia ed è paraplegica da quando aveva 5 anni a causa di un incidente d'auto. È una delle pochissime arciere paralimpiche a essere state convocate anche nella nazionale degli atleti che non hanno disabilità. È descritta come un'atleta eccezionalmente determinata e seria (come forse avrete un po' intuito dalle dichiarazioni qui sopra), e sembra che ieri durante il torneo nessuno riuscisse a parlarci, tantomeno i media che provavano a farle qualche domanda tra una partita e l'altra. Guido Lo Giudice, addetto stampa della federazione italiana di tiro con l'arco che commenta le gare sulla Rai, a un certo punto ha raccontato come una grande conquista l'essere riuscito a intercettarla molto brevemente, con lei che ribadiva di voler parlare solo a fine torneo. «Dimmi almeno com'è il campo di gara», le ha detto lui. «È un campo di gara», ha risposto lei.

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