29.7.22

ipocrisia funebre el caso della povera diana Pifferi

     di cosa  stiamo parlando




I funerali della piccola Diana, l'urlo della nonna: "Non ti abbiamo mai abbandonato". L'arcivescovo Delpini: "Orrore".

I funerali della piccola Diana, l'urlo della nonna: "Non ti abbiamo mai abbandonato". L'arcivescovo Delpini: "Orrore".
(ansa)
Il feretro della bambina di 18 mesi lasciata morire di stenti dalla madre, Alessia Pifferi, è arrivato in chiesa accompagnata dagli applausi. La nonna: "E' tua madre che è una pazza". Gli abitanti del quartiere: "Giustizia senza conti"  repubblica  29\7\2022




ha  ragione  l'amica    \  compagna  di strada  facebookiana   Angela Marino

La bara di Diana Pifferi, bianca e piccolissima, sembra quasi un giocattolo, una ricostruzione di una bara vera, un oggetto di scena, tanto è minuscola. E invece dentro c’è il corpicino senza vita di una bimba vera, una bimba che fino a qualche settimana fa, dormiva, mangiava, sorrideva (poco). È al

centro di una chiesetta altrettanto piccola di Ponte Lambro dove i presenti sono per lo più giornalisti o sconosciuti che hanno voluto partecipare così il proprio sgomento e dolore per questa tragedia. Eccola qui la collettività, la comunità, quella che si rivolta atterrita di fronte a un crimine aberrante, ma non si fa scrupolo a guardare dall’altra parte quando qualcosa non va. La bambina assente e immobile nel passeggino di Alessia Pifferi l’hanno vista praticamente tutti. Hanno commentato, forse, così come avveniva per le stramberie della Pifferi, per le sue menzogne, le sue invenzioni. Di Alessia erano tutti concordi nel dire che mentiva su ogni cosa, che non era possibile in nessun caso capire se dicesse o meno la verità. Ebbene, questo non è un elemento sufficiente per segnalare le proprie preoccupazioni sul genere di tutela e di accudimento esercitati sulla bambina? Perché quando era viva, Diana, nessuno l’ha protetta? Leggo molti commenti in questi giorni in cui si dice che non possiamo fare i poliziotti segnalando i comportamenti degli altri, che siano genitori o no. Ma perché leggere l’intervento legittimo a tutela di un minore come un modo di ficcare il naso, di non farsi gli affari propri? Perché non leggerlo come un gesto di amore e protezione nei confronti di una bimba che vive nel nostro quartiere, condominio, nella nostra comunità? Sarebbe finalmente giusto e utile se comprendessimo che occuparci delle negligenze o difficoltà degli altri, reali o presunte, nelle dovute sedi e con i giusti mezzi, è un gesto di altruismo e civiltà, non un’interferenza molesta. Avrebbe molto più senso che andare al funerale di una bimba che ci siamo limitati a osservare da lontano, scuotendo la testa.


io   non  riesco ad essere  diplomatico 

festival dell'ipocrisia e della falsità . se dicono che non l'hanno mai abbandonata perchè la bambina era solo per giorni ? se la madre lo aveva già fatta perchè non l'hanno segnalata ai servizi sociali o cazziata , o chiesto loro di prendersi cura della piccola ? #lacrimedicoccodrillo #indifferenza #ipocrisia #Omerta #silenzio #piccoladiana

a piedi dalla baviera a barletta stesso percorso del padre ex deportato militare nei lager nazisti ed altre storie

 chi mi  dice   che  per  post  come questi  debbano essere  pubblicati  solo  il  il  27 genaio    non  sa che  .....  sta  dicendo  .  certe  vicende  non  hanno  (  in teoria  non dovrebbero  avere  )    date  fisse   ,  vanno  soprattutto  quando c'è  ancora  gente  che  lo nega  e coltiva ancora  certe  ideologie    già  condannate  dalla  storia  

"Un'idea nata nella notte della grande nevicata del 1956, mio padre mi parlò per la prima e ultima volta di questo lungo viaggio. Quelle notizie me le sono portate addosso per 66 anni e ora che lui non c’è più da 34, voglio ripetere quel percorso". Pasquale Caputo ha 73 anni, è di Barletta e il 6 maggio partirà dalla Puglia per ripercorrere le orme paterne: rifare a piedi la strada da Monaco a Barletta che diede a suo padre, un deportato di guerra in Germania, la libertà. 1700 chilometri per 68 tappe che lo riporteranno a casa a luglio. Pasquale dall’età della pensione a oggi ha già corso 25 maratone. Per tutto il suo cammino, sarà monitorato da strumenti innovativi di telemedicina messi a disposizione da AReSS Puglia

Pasquale Caputo ha 73 anni. E’ partito lo scorso 8 maggio da Monaco di Baviera per rivivere il viaggio che suo padre Francesco e migliaia di soldati italiani fecero al termine della seconda guerra mondiale per tornare nelle loro case. Un viaggio per riflettere e fare memoria. Oggi l’ultima tappa a Barletta, la sua città



«Durante le notti passate in Baviera ci sono stati dei temporali. Mi svegliavo all’improvviso e pensavo ai miei “ragazzi”, li sentivo vicino». Pasquale Caputo non trattiene la commozione. Il suo viaggio sta per terminare, eppure dentro di lui echeggiano ancora i passi che dall’8 maggio lo accompagnano in questo lungo percorso alla scoperta del passato. Ma dentro di sé esplodono anche i passi di coloro che lo hanno preceduto, che hanno compiuto il suo stesso, identico, percorso, molti anni prima. Perché Pasquale, che di anni ne ha 73, ha ripercorso il tragitto che suo padre, Francesco, compì alla fine della seconda guerra mondiale da un campo di concentramento tedesco alla sua casa di Barletta. Come suo padre e le migliaia di soldati italiani che al termine del conflitto tornarono a piedi alle proprie abitazioni, anche il pensionato è partito da Monaco di Baviera per rivivere la loro esperienza percorrendo 1700 km, suddivisi in 68 tappe che lo hanno fatto passare per i luoghi della Resistenza italiana al nazifascismo. In tutte le città ed i presidi in cui è stato, in particolare nelle sedi dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ha ricevuto accoglienza e riconoscimento per l’iniziativa che ha intitolato “Sulle orme di mio padre e di tutti gli Internati Militari Italiani”.




«Mio padre ha perso dieci anni della sua vita tra il 1935 ed il 1945, tra il servizio militare, il richiamo, l’entrata in guerra ed i due anni trascorsi nei campi di concentramento» racconta Pasquale Caputo nella tappa che lo ha accolto nella sua Puglia, a Foggia. «Non mi rendevo conto della forza che aveva avuto per tornare a casa in quelle condizioni. I soldati erano stracciati, ammalati, denutriti ed ho compreso in quali condizioni disumane si trovavano ed il coraggio che hanno avuto per fare ritorno dai loro cari». Anche per questo, Pasquale ha documentato con foto e parole sulla pagina facebook del progetto tutto il viaggio. Suo padre Francesco nacque a Barletta il 21 maggio 1917. Da soldato, era in forza al Reggimento di Cavalleria di Ferrara. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fu catturato a Verona e deportato nei campi di prigionia tedeschi, andando a far parte di quella schiera di IMI (Internati Militari Italiani) ritenuti traditori dall’ex alleato nazista. Dopo la detenzione nei campi di Moosburg, Memmingen e Kaufbeuren nei dintorni di Monaco di Baviera, il padre di Pasquale e gli altri sopravvissuti iniziarono un lungo cammino a piedi per tornare nelle loro città.




Francesco Caputo giunse nella sua casa paterna di Barletta il 27 luglio 1945. Ma non tutti riuscirono a tornare a casa. Molti persero la vita nei campi di concentramento, durante il difficile viaggio per tornare a casa, spesso affrontato in condizioni di salute assai precarie. Per questo, il viaggio di Pasquale, oltre a raccontare attraverso il ritmo dei passi la vicenda di suo padre, vuole essere un’occasione per fare memoria, per riflettere sul tema della guerra, delle discriminazioni razziali, delle persecuzioni e dell’immigrazione. Tutte tematiche ancora tristemente attuali.
«Questo lungo percorso mi ha fatto pensare anche a tutti i popoli che oggi sono in marcia per cercare un futuro migliore, a chi attraversa il Mediterraneo, a chi il deserto africano per finire nei lager libici, al popolo ucraino in fuga dalla guerra. E’ stato un modo per essere vicino a tutta questa gente». Dopo oltre 70 giorni di cammino, Pasquale deve affrontare l’ultima tappa. Gli ultimi metri di un percorso che gli ha provocato un misto di emozioni e sentimenti. Oggi arriverà a Barletta, la sua città, la terra di suo padre da cui tutto ha avuto inizio. Ad accoglierlo ci sarà tutta la sua comunità e, probabilmente, confuso tra la folla, anche il sorriso del padre con le braccia aperte per abbracciarlo.



Superstite di Auschwitz incontra i nipoti del soldato che la salvò 

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Di euronews
Superstite di Auschwitz incontra i nipoti del soldato che la salvò
Diritti d'autore  Richard Drew/Copyright 2019 The Associated Press. All rights reserved.




Ottantacinque anni dopo l'esperienza del campo di sterminio di Auschwitz una sopravvissuta incontra i nipoti del militare statunitense che le regalò un biglietto di auguri. Lily Ebert venne prelevata coi suoi dalla loro casa in Ungheria e portata in Polonia. Stessa sorte di centinaia di migliaia di ebrei, rom, omosessuali e oppositori politici, finiti nella mostruosa follia nazista."Quel soldato mi augurò buona fortuna, fu una cosa straordinaria, non me lo aveva detto nessuno". Un messaggio di speranza rimasto scritto su una banconota tedesca, che Lily ancora conserva. "Per la prima volta qualcuno ascoltava la mia storia e non voleva uccidermi, ma solo ascoltare: questo ha fatto una grande differenza".

Alla liberazione di Auschwitz, da parte dei soldati dell'Armata Rossa, Lily aveva 16 anni. Nel campo da cui lei è uscita viva, i nazisti hanno ucciso milioni di persone. "Nessuno pensava che saremmo state liberate, da quel posto si poteva uscire solo attraverso il forno".




A far incontrare la donna e i nipoti del suo salvatore è stato uno dei suoi nipoti, che ha pensato di pubblicare la sua storia su una rete sociale. "Mi ha toccato il cuore quel messaggio, sono solo dieci parole: "Inizia una nuova vita, buona fortuna e felicità". Che emozione scoprire un gesto di gentilezza".
Il soldato statunitense non ha vissuto abbastanza per ricontrarsi con Lily. I suoi familiari lo hanno fatto al suo posto, trasformando un semplice gesto di cordialità in una notizia. Settantacinque anni dopo questa donna ha potuto ringraziare i discendenti del soldato che scrisse il suo nome su una banconota. Un inconro casuale in tempo di guerra, un messaggio che ha viaggiato nel tempo, e due famiglie che ora vogliono rtornare a vedersi.

Bartolucci chiude bottega, Geppetto si arrende alla crisi: addio al Pinocchio d’autore., L'erede dell'antica arte dei carretti siciliani Michele Ducato è l'ultimo decoratore L'erede dell'antica arte dei carretti siciliani Michele Ducato è l'ultimo decoratore., Alber donati e il cottage letterario in un paese di 180 anime tra le colline della Garfagnana,

Le botteghe di Firenze e Roma erano lì dal 1996 e dal 2002. Nel loro spazio profumato di cirmolo in pieno centro storico sono passate generazioni, tra ricordi e nostalgia di una manifattura fiabesca. Anche Michelle Obama, durante la visita ufficiale a Roma del presidente Barack, accettò che le figlie, con la nonna, andassero a conoscere Pinocchio. Un mese dopo al manager dello store romano arrivò una lettera con il sigillo della Casa Bianca: "Grazie per tutto quello che hai fatto - scriveva Michelle - le mie figlie sono state felici. I ricordi del nostro tempo a Roma resteranno con noi a lungo".
Un pezzo di storia se ne va. I due negozi chiuderanno nel fine settimana, a meno che il curatore fallimentare non disponga una proroga di alcuni giorni. "Mi sono trovato spiazzato - racconta Bartolucci - perché la pandemia ha fermato tutto. Siamo rimasti gli unici a non produrre in Cina sottocosto, facciamo tutto a mano con i nostri operai. Solo così si ottiene l'autenticità di un oggetto, che si sente al tatto, con la levigatura di certe rifiniture".




Dalla vecchia falegnameria del mastro alla fabbrica dei sogni. In mezzo il flusso di ricordi, come la costruzione del Pinocchio per la fiction omonima con Bob Hoskins nei panni di Geppetto, dove al centro del palco c'era il banco con i pochi attrezzi necessari, manuali e originali degli anni '40, un trapano, seghetti e uno scalpello curvo.
"Con la ripresa del pagamento dei mutui la situazione è diventata drammatica - racconta Mariagrazia Stocchi, amministratrice delegata dell'azienda e moglie di Francesco -. Per risollevare il fatturato due anni fa avevamo preso anche un locale in affitto in Corso Vittorio a Roma, ma è stato aperto solo quattro giorni, poi c'è stato il lockdown. Lo avevamo allestito con tanta speranza. Invece sì è rivelato un boomerang".
L'agonia è stata lunga, una trattativa durata un anno con un'azienda cinese interessata all'acquisto non è riuscita a cambiare le sorti. "Ora stiamo pensando di cessare ogni attività nel giro di un paio di settimane: dopo Urbino, toccherà al negozio di Firenze, poi Roma. Anche l'e-commerce è sospeso da giorni. Rimangono alcune giacenze dai nostri rivenditori tra i quali Dubai, Madrid, San Francisco, Malta e Atene", confessa Mariagrazia.





Eppure Pinocchio ne ha fatta di strada. Da una favola all'altra, da burattino parlante venduto in più di un milione di pezzi a un impero con 150 punti vendita nel mondo. Ma anche un salto dal passato al futuro, dalla falegnameria di Geppetto al marketing esperienziale: negli angoli adibiti a museo era stata ricreata la bottega antica per mostrare ai clienti la sapiente arte dell'intaglio. Anche per questo, una prestigiosa rivista Usa ha inserito l'azienda tra i primi 15 negozi di giocattoli al mondo e le figlie di Walt Disney hanno chiesto alcuni esemplari da esporre nel loro museo di San Francisco.

La chiusura dell'attività è il grande dolore di Bartolucci: "Mi piaceva vedere la gente emozionarsi, era come passare davanti a un forno e sentire l'odore del pane. E poi le notti a lavorare al banco, quando mi sembrava che i burattini mi parlassero. Era come stare in mezzo ai bambini. Quei negozi per me erano figli". C'era una volta un pezzo di legno.








Un Paese dei Balocchi senza giochi

Sul Pinocchio di Collodi a leggerlo c'è da stupirsi perché si sfatano un paio di miti. La prima riguarda il Paese dei Balocchi. Giochi, sì; ma pochissimi i balocchi. Nel meraviglioso elenco collodiano che dipinge a parole un animatissimo Bruegel compaiono delle spade di cartapesta, cerchi, palle, cavallini di legno e poco altro. Per il resto gli abitanti della gaia contrada si azzuffano, si sbeffeggiano, corrono, saltano, ballano e sono in pratica i parossistici balocchi di sé stessi. L'altro mito è proprio quello delle bugie. Pinocchio ne dice pochissime e il naso gli si allunga anche quando non ne dice. La prima volta è quando si accorge che la pentola in cui spera di trovare di che mangiare non è vera ma è dipinta sul muro. La verità è che Pinocchio "resta con un palmo di naso" - naso che appunto gli si allunga - quando si imbarazza e dall'emozione l'animo gli si ingorga sino a sconvolgergli il sembiante.

E ora solo burattini Made in China

La falegnameria dei Pinocchi acquistabili ora chiude e ci si dovrà consolare con esemplari di produzione cinese e di qualità fatalmente inferiore. Quella di Geppetto però resta dov'è, nei primissimi capitoli di un libro che ricordiamo in modo impreciso, poiché lo abbiamo presente più nella fallibile memoria collettiva che sui nostri scaffali. Apriamolo, ritroviamo quegli "occhiacci di legno". La sua voce tornerà subito a canzonarci, ma anche a ridirci chi siamo.



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L'erede dell'antica arte dei carretti siciliani


Michele Ducato è l'ultimo decoratore della bottega fondata dal nonno a Bagheria nel 1895. Storia, rinascita e curiosità di questa lontana tradizione.


una  tradizione    che resiste  ed    ha  avuto  uno  splendido  splendore    come dimostra  quest'altra storia  




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Quando


Quando decise di aprire un cottage letterario in un paese di 180 anime tra le colline della Garfagnana, Alba Donati venne presa per pazza. Ma il tempo  ed  il   libro  (  foto  a  sinistra  )  in  cui   racconta  la  sua  vicenda  ovvero     di  Una libreria microscopica in un paesino di180\200 persone sperduto sulle colline toscane, ma portentosa come una scatola del tesoro. Dai bambini che entrano di corsa alle marmellate letterarie, da Emily Dickinson a Pia Pera, le giornate nella Libreria Sopra la Penna sono ricche di calore, di vite e storie, fili di parole che legano per sempre: una stanza piena di libri è l'infinito a portata di mano. E che ha subito un incendio ma grazie al Crowdfunding ha riaperto . il resto della stroria nei diue video sotto








28.7.22

Condannato perché picchiava la moglie, ora gli spetta l'eredità. Le figlie: "E' un'ingiustizia"

di cosa  stiamo   parlando  \ in  sintesi 


ma  prima d'iniziare  a parlaere  di lei    ecco la  sua    Petizione · #MoleStato - è così che si difendono le donne? · Change.org

    da  https://pocketnews.it/  e   da  repubblica.it


desireè  gullo  con la  madre scomparsa  da
poco 
È una vicenda triste che, visti gli attuali sviluppo, diventa ancora più triste. È quella di Desiré Gullo, l’educatrice di Corsico che assieme alla sorella Simona ha lanciato una petizione su Change.org affinché al padre, condannato per maltrattamenti e abusi sessuali in famiglia, vengano tolti i diritti di successione nei confronti della moglie, morta lo scorso gennaio di Covid.La cronaca riporta alla fine degli anni Novanta. In quel periodo le due sorelle avevano sei e dieci anni. Ad accorgersi che qualcosa non andava erano state le insegnanti delle ragazze. Un’inchiesta della magistratura aveva confermato i sospetti. Nel 2003 è arrivata la prima sentenza con cui i giudici hanno condannato il padre a tre anni e tre mesi di reclusione per abusi sulle figlie e maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie e della figlia più grande.Accuse che l’uomo ha sempre respinto.  Quelle – secondo lui – erano carezze, erano gesti affettuosi. I suoi avvocati difensori avevano fatto ricorso alla Corte d’Appello, che nel 2008 ha confermato la sentenza di primo grado, riducendo però la pena a un anno e nove mesi.I genitori delle due ragazze erano separati da una ventina d’anni. Non avevano mai divorziato e quindi ora a lui spetta la pensione di reversibilità circa 900 euro al mese e l’eredità, condivisa con la figlia, di un appartamento che la ex moglie era riuscita a comprare e su cui grava ancora un mutuo.


La  richiesta di Desirè e Simona, che oggi hanno hanno 31 e 35 anni, si  scontra però con le norme in vigore. La legge sulla cosiddetta ‘indegnita’ ereditaria’ si applica per omicidio e tentato omicidio, tra gli altri reati, ma i diritti alla successione vengono conservati quando si è stati condannati per reati di violenza domestica. Con la raccolta firme arrivata a oltre 35mila sottoscrizioni, le due donne chiedono la modifica dei tempi di ricorso, divorzio automatico, perdita diritti successori con condanna per violenze, retroattività delle norme.Nell’appello Desirè si rivolge al ministro della Giustizia Marta Cartabia, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al premier Mario Draghi.  “Faccio tutto questo per una buona causa, per mia madre – queste le parole della 30enne di Corsico, – perche’ lei ci ha insegnato a combattere e vorrei finalmente giustizia per me e per tutte le persone che si trovano in una situazione come la mia”. Che cos'è la legge sull'indegnità morale e quando si applica Se la legge sulla cosiddetta "indegnità ereditaria" si applica ai casi di omicidio e tentato omicidio, per esempio, non si ha invece la perdita dei diritti successori quando si è stati condannati per reati di violenza domestica. Da qui l'appello della ragazza rivolto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al premier Mario Draghi e che ha già raccolto quasi 36mila firme. "Faccio tutto questo per una buona causa, per mia madre, perché lei ci ha insegnato a combattere e vorrei finalmente giustizia per me e per tutte le persone che si trovano in una situazione come la mia".

27.7.22

nei programmi dei politici manca la parola femminicidio di Patrizia cadau


 Valentina Di Mauro, poco più di trent'anni, uccisa stamattina in un paese del Comasco dal proprio compagno, Marco Campanaro.

È morta di coltellate, all'addome e alla schiena.Il registro è sempre lo stesso.È una notizia uguale e identica a centinaia di notizie uguali in questo paese in cui il bodyshaming subito da un politico potente, o il divorzio di una coppia famosa sono cose più importanti di Valentina e di tutte le donne come lei, sommerse o sopravvissute. Oggi la politica, con la p minuscola, comincia il proprio circo di dichiarazioni: parlano di agende, di atti rivoluzionari, di protocolli futuristi da cui però sono scomparse le donne.Nessun accenno alle condizioni in cui vengono lasciate le donne, in pericolo, nessuna preoccupazione futura.La violenza, seppure così sistemica e radicale, la disuguaglianza di genere, la disoccupazione femminile e altre disgrazie contemporanee, la solitudine delle madri davanti a dinamiche di stato efferato, non troverà spazio in nessuna agenda.Com'è sempre stato.

turismo on the road

 


da pirata a guardiano la storia dell’ex hacker diventato “buono”: «Combatto i pirati della rete» Emilio Pinna, ingegnere informatico sassarese esperto in cybersecurity «Per anni pagato per scardinare sistemi digitali, ora insegno a proteggerli»

Avete presente quei film americani dove c’è un hacker che a un certo punto viene assoldato dalla CIA, oppure da qualche altra agenzia o articolazione del governo, per stare dalla parte dei “buoni”? Ecco, è più o meno quello che è successo a un esperto di cybersicurezza di Sassari. Lui si chiama Emilio Pinna, ha 38 anni e una storia avvincente da raccontare che inizia quando era appena adolescente. A 16 anni Emilio mangiava pane e Linux nella sua cameretta e ha imparato a scardinare server e siti di mezzo mondo. Poi è cresciuto, si è laureato in Ingegneria informatica, è stato il primo dipendente di Abinsula e
dopo qualche anno si è trasferito a Londra dove le banche più blasonate lo hanno pagato per “scassinare” i loro sistemi informatici. Ora Emilio Pinna è passato dall’altra parte: ha fondato una start up che insegna ai programmatori ad evitare i problemi alla fonte, perché prevenire è sempre meglio che scassinare per riaggiustare. Il piccolo hacker Come in ogni storia di successi informatici che si rispetti, tutto comincia sempre in un garage o in qualche angolo di casa. Non è stato molto diverso per Emilio Pinna, che da ragazzo passava ore in cameretta a smanettare su computer e sistemi operativi che all’epoca erano davvero accessibile per pochi, come Linux. E vivendo tra righe di comando, shell e bash, ha acquisito competenza a palate. La sua specialità? Scardinare i sistemi digitali. Tant’è che ha cominciato a farsi notare negli hackmeeting in giro per l’Italia, roba per nerd puri. «In quegli anni la cybersecurity non era l’industria da 140 miliardi di dollari che è ora – racconta Emilio Pinna – l’ambiente era più simile a un far west e le informazioni erano difficili da reperire e ci si avvicinava perché affascinati dalla filosofia open source e dalla scena underground hacker». La crescita Pinna ha affinato all’Università le conoscenze acquisite nell’underground: ha scelto la facoltà di Ingegneria informatica col corso a distanza del Politecnico di Torino a Scano di Montiferro e poi la specialistica in sede, in Piemonte. «Conclusi gli studi – racconta Emilio – sono stato il primo dipendente di Abinsula, la start up nata a Sassari nel 2012. Ho contributo a mettere le basi della loro offerta cybersecurity e ho lavorato per il comparto automotive di Torino. Poi come tanti ho sentito il richiamo dell’estero per fare nuove esperienze: ho lasciato la Sardegna e ho vissuto e lavorato tra Copenhagen e Londra. In pochi anni sono approdato nel settore finanziario
londinese lavorando per Barclays e JPMorgan». Red team Nelle sue numerose esperienze lavorative l’ingegnere ha fatto parte dei cosiddetti red team. «L’industria informatica ha preso questo termine in prestito da quella militare – spiega Pinna – per indicare un gruppo di persone capace di attaccare i sistemi di difesa dell’azienda allo scopo di testare la validità delle protezioni. Il lavoro consiste nel fare operazioni di adversary emulation lunghe mesi, durante le quali si conduce un attacco ai sistemi dell’azienda committente dall’inizio alla fine. Ogni operazione ha un obiettivo finale ben definito, come sottrarre denaro infiltrandosi nei circuiti bancari, manipolare transazioni elettroniche, rubare documentazioni interne o dati dei  clienti». Il gatto e il topo Gli operatori del read team che devono occuparsi di portare avanti l’attacco lo fanno in tutti i modi possibili. I componenti della squadra hanno infatti diverse specialità che variano dal puro hacking informatico, al social engineering di chi sfrutta le debolezze umane per ottenere accessi non autorizzati: per esempio Kevin Mitnick, tra gli hacker più famosi della storia, era un genio in questo aspetto. E poi si arriva fino al physical red teaming, cioè gli operatori si infiltrano fisicamente negli uffici per compromettere le reti interne ad alta sicurezza, collegando alle prese di rete apparati che gli consentono di acquisire i diritti di amministratore di sistema. Le stesse organizzazioni allestiscono anche un blue team, ovvero il team di difesa, il cui scopo è scovare gli attaccanti prima che facciano danno. «È il gioco del gatto e del topo – conclude l’esperto in cybersicurezza – che ha lo scopo finale di misurare quanto l’organizzazione è resiliente ad attacchi informatici e non, e cosa si può migliorare nella rilevazione e prevenzione di attacchi esterni». Dall’altra parte Dopo anni passati a lavorare come hacker delle più grandi multinazionali, Emilio Pinna ha deciso di utilizzare le sue conoscenze per insegnare ad altri come ragiona e agisce un hacker: ecco allora SecureFlag , la app nata per creare «sistemi più resistenti e un futuro  più sicuro 

  e  sempr e dalla  nuova  sardegna  


26.7.22

intervista alla scrittrice Silvia Ranfagni: “A 13 anni mi disse: sono non binario. Era mia figlia Alba, oggi si chiama Alex”

repubblica  26\7\2022

Intervista alla scrittrice: "È stato un temporale estivo, mi credevo
progressista e mi sono scoperta conservatrice. Ma quando ho capito che aveva pensieri suicidi, la priorità è diventata accogliere. Quanto al padre, sulle prime ha detto: ti amo come sei. Ma in segreto ha ammesso: fosse stato il fratello a sentirsi mezza femmina non ce l'avrei fatta"

La sua esperienza non è affatto una tragedia, ma è iniziata come spesso accadono le tragedie, in modo tranquillo e del tutto inaspettato. "Mamma, sono trans. Anzi,
sono non binario" è la frase che è piombata addosso alla scrittrice Silvia Ranfagni un anno fa, mentre scolava gli spaghetti. Di fronte a lei un tredicenne che credeva "figlia" e che lentamente ha imparato a chiamare "figlio", Alex. 
Ranfagni, ricorda le parole di suo figlio?
"La metafora che ha usato è stata questa: "Mamma, hai presenti i binari di un treno? Sono due, come maschio e femmina. Io sono come un terzo binario in mezzo che fa come un serpente che si avvicina ora dalla parte della femmina, ora dalla parte del maschio. A volte mi sveglio più maschio, a volte mi sveglio femmina, non lo so nemmeno io da cosa dipende. Mercoledì, per esempio, ero maschio".
Lei come ha reagito?
"Quelle parole hanno avuto per me la violenza del temporale estivo, quello che non ti aspetti. Improvvisamente non ero più sicura di niente, neanche della mia capacità di essere madre. Possibile che non avessi mai capito l'intima natura di Alba, che non l'avessi mai vista, davvero? Chi c'era dietro quella maschera che diceva "ho preso nove in Italiano", "buono il purè". E poi, davvero faceva sul serio? Una settimana prima voleva essere un vampiro".
E allora cosa ha fatto?"Gente più antica di me avrebbe detto: 'Due schiaffoni e via'. Io invece continuavo a domandarmi: quanto un genitore deve contenere e quanto accogliere? Ho trascorso ore su internet e ho divorato libri americani. Poi un'amica mi ha indirizzato al Saifip, il servizio di un ospedale romano dove la dottoressa Maddalena Mosconi e il suo team, da trent'anni, accompagnano bambini e adolescenti con disforia di genere e le loro famiglie".
Quali sono state le cose più difficili da accettare?
"Forse sono state due: la prima albergava proprio dentro di me. Fino a quel momento mi reputavo una donna progressista, di mentalità aperta, avevo scritto un film sui trans, letto molto, incontrato persone. E invece ho scoperto delle resistenze. Quando si tratta di modificare la percezione del proprio figlio c'è sempre in agguato un'ottusa conservatrice". 
L'altra difficoltà?
"Quando mio figlio mi ha detto: "Adesso il mio nome è Alex". La scelta del nome è una cosa importante, identitaria. Suo padre e io avevamo impiegato mesi e cura per individuarlo. È stato invano? Credo che la nostra sia la prima generazione in cui, a scegliere i nomi, non sono più i genitori ma i figli stessi. Una rivoluzione copernicana. Cambia l'asse di rotazione".
Lei ci è riuscita?
"A pronunciare il nome di Alex, sì. Anche se non subito. Però ancora oggi non so se chiamarlo figlio o figlia, mi ingarbuglio. Mi hanno consigliato di usare l'asterisco alla fine, oppure la u, oppure di non usare la vocale finale. La storia del non binarismo non è affatto semplice". 
E il padre di Alex, in questa storia?
"La sua prima reazione è stata wow: "Sei mia figlia, ti amo e ti amerò sempre. Questa è la tua vita e hai il diritto di viverla come sei". Poi però ha aggiunto che lui di binari non capisce e non ne vuole sapere nulla. In segreto, infine, mi ha confidato: "Se fosse stato suo fratello a sentirsi mezza femmina non ce l'avrei fatta, ma siccome così è più maschio... E vabbuò". Un distillato di patriarcato".
E a scuola?
"Esperienza stupenda. Alle medie Alex aveva un professore che faceva con i ragazzi una cosa speciale, "Il cerchio della fiducia": ognuno a turno parlava di sé, a patto che nulla trapelasse dal cerchio. La sofferenza di Alex è emersa lì per la prima volta. Quel docente era convinto che nella scuola occorra uno spazio di parola che consente una libertà senza conseguenze".
Ora come va?
"Nonostante sia trascorso un anno, io ancora arranco, mi sento smarrita, persa in una selva di nomi, categorie, etichette. Ma l'aver scoperto che Alex maturava pensieri suicidi ha stravolto le urgenze: accogliere è diventato l'unico imperativo. Ammetto però che alcune domande mi tormentano ancora".
Quali?
"In questi mesi mi sono più volte interrogata sulle possibili ragioni di questo suo sentire, essere. Poi un giorno Alex mi ha chiesto: "È un problema come sono, mamma?". La risposta è stata secca: "No, non è un problema". È solo che è tutto nuovo per me".
In che senso?
"I ragazzi oggi si affacciano a un mondo dove il corpo non è un dato fisso, ma è modificabile con la chirurgia, e hanno imparato a concepirsi come "modificabili"; la progressiva conquista di zone di parità tra donne e uomini ha poi reso obsolete categorie millenarie. Alla velocità della luce ogni nostro punto esclamativo si è trasformato in un punto di domanda. Io, invece, ho bisogno di più tempo. Forse non sono l'unica. Perciò, quando Alex esce, io prego. Ci metto tutta la mia speranza laica in questa preghiera: "Che nessuno mai possa farsi scherno di te"".



chi lo dice che la vecchiaia sia una tomba ? Viareggio, la prima patente la prese quando l'Italia era monarchia: ora Mario Bonetti , 102 anni, ha ottenuto il rinnovo

Un paio di mesi fa l'arzillo nonnino ha ottenuto l'autorizzazione per poter continuare a guidare la sua Panda



Quando Mario Bonetti ha preso la patente l'Italia era ancora una monarchia. Più di ottanta anni dopo, Mario Bonetti la patente addirittura la rinnova. Adesso ha la veneranda età di 102 anni e viaggia

tranquillamente a bordo di una Panda per Viareggio, la sua città. Se non è un record poco ci manca: Mario ha rinnovato il documento di guida pochi giorni fa, due mesi dopo aver spento le centodue candeline sulla torta. Mario inoltre è fratello di Uberto Bonetti, indimenticato autore di Burlamacco, figura indiscussa della festa più famosa di Viareggio, il Carnevale.
L'utilitaria di Mario Bonetti viaggia proprio verso la Cittadella del Carnevale e si nota in giro per la città. La nipote Adriana Bonetti, figlia di Uberto, spiega: "Ha rinnovato da poco la patente a Viareggio, è un uomo pieno di vita, una forza della natura. Capisce tutto, scherza, è intelligente e ancora ogni tanto fa qualche lavoretto".
Anche i medici al momento del rinnovo sono rimasti stupefatti, come continua la nipote Adriana: "Gli hanno detto 'lei è perfetto, nonostante l'età' e gli hanno permesso di montare ancora sull'auto. Certo, non fa grandi viaggi e deve rimanere dentro a Viareggio, ma comunque ha una vista perfetta e i riflessi sono a posto". Dove va il signor Mario con l'auto? "Spesso è col nipote carrista Luigi, alla Cittadella, è molto prudente alla guida".
Un passato da geometra alle spalle: "Ma era quasi un architetto, era uno dei più bravi della città" afferma la nipote. Bonetti prende spesso le sue quattro ruote, specialmente in estate, mentre in inverno utilizza la macchina più di rado. "Quando ci ho parlato mi ha detto 'cosa faccio senz'auto? Non c'è nessuno in giro, mi annoio e la gente è sempre davanti al pc, devo muovermi'. Un portento vero" continua la nipote.

La mafia è anche ... di blindflowers

  Da https://www.facebook.com/blindflowers


La mafia non è soltanto propria di coloro che uccidono la giustizia fisicamente nella persona di un giudice o di una vittima, ma mafioso è anche colui che vota il politico che promette un posto al figlio che non vuole studiare, scavalcando altri; mafioso è chi pensa che con la raccomandazione ci si sistemi per sempre in barba agli altri;

 mafioso è chi fa parte di salotti e consorterie di casta; mafioso è il giornalista che si sottomette alla regola di tacere se il padrone glielo impone e di mentire se il padrone glielo ordina; mafioso è il recensionista che recensisce solo libri che gli ha imposto il giornale e poi ti scrive in privato dicendoti che il tuo libro gli é piaciuto ma non scriverà un rigo per te perché tu non sei la casta. Mafioso è il professore universitario che dice che chi non ha soldi all’università non ci deve andare (sentito con le mie orecchie). Mafioso è quel docente che copia  sil lavoro degli studenti sapendo che tanto così si usa da secoli e tutti stanno zitti; mafioso è lo scrittore tesserato che sta in tv facendo propaganda di partito e fingendo di combattere contro la mafia. La mafia non è solo propria del mafioso di professione che fa oltretutto una vita di mer...a, ma di tutti coloro che hanno una mentalità mafiosa nel loro piccolo quotidiano.

25.7.22

Così un battaglione di 1.600 "soldati" anatra è diventata l'arma segreta di un viticoltore

 L'industria vinicola sudafricana impiega circa 270.000 persone e produce alcuni dei vini più ricercati al mondo. Ma non tutti i lavori sono lasciati agli esseri umani. Fuori Città del Capo, sulle rive del fiume
Eerste, il Vergenoegd Löw The Wine Estate ha riproposto una pratica secolare mettendo in campo un battaglione di anatre per tenere i suoi vigneti liberi dai parassiti. Ispirandosi alle anatre utilizzate per rimuovere insetti infestanti dalle risaie in Asia, l'azienda vinicola si avvale dei servizi di circa 1.600 anatre per rendere la produzione del vino più sostenibile. "Le anatre sono i soldati dei nostri vigneti", spiega l'amministratore delegato Corius Visser. "Mangiano gli afidi, le lumache, i piccoli vermi... mantengono i vigneti completamente liberi dai parassiti". 



Le anatre pattugliano il Vergenoegd Löw The Wine Estate fin dagli anni '80. La specie, l'anatra corritrice indiana, non è in grado di volare, ha una particolare posizione eretta e un olfatto molto sviluppato. Le "ferie annuali" delle anatre avvengono durante la vendemmia, altrimenti mangerebbero l'uva. Durante questo periodo, le anatre si nutrono in pascoli aperti, nuotano in un lago vicino e si sottopongono a un allevamento selettivo, spiega Visser. Le anatre non vengono consumate nel ristorante del vigneto: "Sarebbe come mangiare un collega", spiega Gavin Moyes, responsabile della sala di degustazione della tenuta.

Rahma contro l’Algoritmo: una ragazza tunisina contro gli stereotipi dell’AI

da https://it.insideover.com/   Rahma  ha quindici anni, lunghi capelli neri ricci e occhi scuri. La faccia pulita, senza trucco né inga...