16.7.22

per i 30 anni della strage di via d'amelio iniziamo ad evitare che falcone e borsellino siano solo dei santini pulicoscienza e a buttare via la retorica e a guardare l'abbisso

in  sottofondo
J.S. Bach: French Suites

  tra  3  giorni ricorre il  30   enale  della strage  di   via  d'amelio   che  dire   che non  stato   già  detto  o  scriito   ma  soprattutto  cadere    nella    retorica   ?   non concetrandosi solo  su  di lui  ma  anche  sulle   persone della sua   scorta  e far parlare  eo riportare   come   ho fatto io  nel post  : 


<<   La strage di via  d'amelio   19 luglio 1992 non  fu solo ucciso    Borsellino  ma  anche   Manuela  Loi  , Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina >>  interviste a familiari  dei  sui agenti  della scorta  , la  sorellla  di Emanuela loi  in  questoi  casoi   .  Un buon puti  di partenza  sarebbbe    di    provare     a  mettere in atto    questa  poesia di Salvo Vitale   di 


                                   Parole

"Siamo tutti bravi,

facciamo le manifestazioni,

ci mobilitiamo per ricordare i morti,

sì, la memoria è necessaria,

un popolo senza memoria

è un popolo senza storia,

e blablabla,

sapienti architetture di parole,

con fiocchetti, analisi,

interventi scritti, applausi,

giacca e cravatta sotto il sole torrido,

apprezzamenti per i successi conseguiti,

parate disparate,

presenza d’obbligo delle forze dell’ordine,

strette di mano, baci, targhe,

e più recentemente alberi,

rassegne dei tipi più squallidi,

in rappresentanza delle istituzioni,

il presidente, il deputato,

il sindaco, gli assessori,

il capitano, l’arciprete, i parenti,

apoteosi del cerimoniale,

passeggiate sul sangue dei morti,

scoramenti, scornamenti,

se ci va lui non ci vengo io,

verifiche dei partecipanti,

la città che non c’era,

Peppino è vivo,

non certo tra i compagni a pugno chiuso,

perché Peppino è morto

e non lotta più insieme a noi,

Paolo vive,

non certo tra i camerati a braccio alzato,

perché Paolo è morto nel caldo di luglio,

assieme ad altri di cui possediamo l’elenco

e ad altri ancora che non ne fanno parte,

e poi, dopo la morte l’imbalsamazione,

la tumulazione nel pantheon dell’immobilità

la cera nelle orecchie per non sentire le urla,

lo stupore, l’angoscia del mare della morte

che si chiude sulle loro teste per sempre,

dentro uno spazio senza tempo.

L’applauso è un addio che ci distanzia

dalla condivisione delle loro scelte.

Più amara l’apparenza dell’impegno

che nasconde un qualche interesse.

“Noi ci dobbiamo ribellare…”

E come?

Chi si permette di dirlo è un sovversivo"


 e   fare   come  suggerisce     quest  articolo  https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/05/23/falcone-e-borsellino-non-sono-dei-santini-buttiamo-via-la-retorica-e-guardiamo-labisso/6600913/  di Domenico Valter Rizzo  in particolare  : << [...] Due santini, avvolti nella carta velina della retorica. Gli “eroi antimafia” diventavano qualcosa di avulso dalla realtà. Si parlava del loro sacrificio, ma sempre meno del loro lavoro e si cominciava a trattare sempre con più sufficienza chi faceva e si faceva domanda sul perché erano morti. Complice una cultura da strapaese e una folta schiera di giornalisti innocui, che sostituivano l’analisi con l’aneddotica.E così comincia il grande mascariamento. Li abbiamo visti sfilare certi paladini dell’antimafia. Una schiera che incarnava, dandogli plastica fisicità, l’assunto, allora mal calibrato sull’obiettivo, di Leonardo Sciascia quando parlava di professionisti dell’antimafia. Eppure in questi trent’anni persino l’analisi di Sciascia non basta da sola a decifrare ciò che è accaduto. Sciascia indicava come obiettivo la carriera. Questo è valso per alcuni soggetti: poliziotti, giornalisti con passato ambiguo, qualche politicante, ma non può bastare a descrivere ciò che è avvenuto dietro i cartoni con l’effige di Falcone e Borsellino. L’antimafia che diventa sistema di potere con metodologia mafiosa. Che non usa i killer per ammazzare a colpi di pistola chi non si piega; tiene invece i fili di tanti burattini istituzionali, di magistrati, di poliziotti di uomini dell’intelligence che, più o meno ingenuamente, diventano gli strumenti per assestare colpi pesantissimi a chi osava opporsi al sistema di potere. .... >>   Ritornare  quindi alle  origini  della   lotta  alla mafia   e  ridare  dignita  al motto  “La mafia è una montagna di merda”,  come  diceva Peppino Impastato. Anche  se   prima  dirlo  a  Cinisi, sul finire degli anni Settanta significava morire. Dirlo   oggi  è  diventato   uno sport assolutamente innocuo ed era anzi il viatico per ricucirsi l’imene, dopo aver frequentato i peggiori postriboli. Infatti  Persino Totò Cuffaro, condannato per mafia ci prova con un certo successo a ripulirsi con un “la mafia fa schifo” scritto sui manifesti. Bastano pochi anni di prudente silenzio per ripresentarsi riverniciati, applauditi e rispettabili. Cuffaro ad esempio viene impudentemente chiamato, fresco di patria galera, a far da relatore ad un paio di corsi deontologici per i giornalisti siciliani, senza che nessuno, tranne un collega che, schifato, abbandonerà la sala, abbia avuto niente da ridire e ad oggi, insieme a Marcello Dell’Utri, altro ex galeotto, indagato a Firenze per le stragi del ’93, è uno dei grandi architetti del centrodestra in Sicilia. 
 <<  Bisogna  >>  come dice sempre Domenico Valter Rizzo  nell'articolo   de il fatto citato nelle righe precedenti <<   ricordarsi di quell’estate bastarda e di tutte quelle che sono seguite e ridare umanità, concretezza, realtà a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questo povero, sventurato Paese non ha bisogno di altri santi e santini. Non ha bisogno di eroi inarrivabili. Ha bisogno di far propria la dignità che ha perso. Le icone lavano la coscienza, deresponsabilizzano: è accaduto con la Resistenza con la quale il Paese si è lavato la coscienza dal servile ed entusiasta consenso al fascismo ed è accaduto con l’uso iconico ed innocuo delle sagome di cartone di Falcone e Borsellino. Basta una bella parata una volta l’anno e siamo autorizzati a voltarci sempre dall’altra parte.Allora buttiamole via le foto, le scritte, le frasi. Buttiamo via la retorica e guardiamo l’abisso, perché se non lo guardiamo l’abisso, non troveremo mai la forza per combattere il mostro che si annida dentro quell’abisso e dentro noi stessi.>>  Come  metterlo in atto  ?     lo  suggerisce    sia il gesto di fiammetta   Borsellino   (  figlia  di Paolo  )   che   Con una decisione carica di dignità, Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ha appena annunciato che non parteciperà alla commemorazione della Strage di via D’Amelio  sia    le  dichiarazioni di  Salvatore  Borsellino  ( fratello di paolo  )  ad Adnkronos.com  più  precisamente    qui

Per noi -prosegue Borsellino con l'Adnkronos  - la memoria non si riduce a una sola data, magari sovrapponendo anniversari di stragi diverse per lavarsi la coscienza più in
fretta. Per la memoria, la verità e la giustizia si lotta 365 giorni all’anno e stavolta, nel trentennale delle stragi, poiché si scateneranno i megafoni della retorica e si alzeranno anche le voci di chi -da tempo- ha perso il diritto di parlare, mentre si ripetono -da parte del Consiglio Superiore della Magistratura- gli stessi errori perpetrati a suo tempo con Giovanni Falcone, abbiamo deciso di celebrare il 19 luglio all’insegna del silenzio". 






Per la memoria, la verità e la giustizia si lotta 365 all'anno, non uno  soltanto  e  per  lo  più   ne giorno comandato  e  spesso  pulicoscienza  





Tom e la sua cagnolina Savannah fanno il giro del mondo a piedi... in 7 anni

da  https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/

Sei continenti e 38 Paesi, camminando per 48mila chilometri. Una "passeggiata" durata sette anni, resa speciale dalla compagnia di un amico a quattro zampe: una cagnolina di nome Savannah. E, infatti, è la prima impresa - iniziata nel 2015 e finita qualche giorno fa - riuscita da una coppia formata da un uomo e da un cane. È la storia di Tom Turcich, un ragazzo di 33 anni originario del New Jersey. L'idea è arrivata dopo la morte prematura di un'amica. 

                                                                 © Tgcom24


 "La vita è troppo breve per non viverla inseguendo i nostri sogni", questo lo spunto dell'impresa del Forrest Gump americano del New Jersey, con oltre 100mila follower su Instagram. Una sua coetanea, Ann Marie, era scomparsa all'improvviso dopo un incidente sugli sci e quell'evento aveva smosso qualcosa nell'animo del ragazzo. "Ho avuto la netta consapevolezza della fragilità della vita - ha raccontato - ed è stato come un risveglio".  L'impresa - Turcich è partito nell' aprile 2015, quando aveva 26 anni. Con il sacco a pelo in spalla, telecamera digitale, computer, fornelletto da campo, non si è più fermato. All'inizio era da solo. Poi, durante il viaggio, ha preso Savannah da un canile in Texas e con lei ha attraversato il mondo. Insieme hanno partecipato a matrimoni in Turkmenistan, feste in Canada e Panama, incontri lungo la strada in Azerbaijan, Croazia, Serbia, Francia, Portogallo. Ha attraversato tutto il Sudamerica, per poi fare ritorno a casa. Tanti gli scatti insieme al fedele amico a quattro zampe condivisi sui social dove ha scelto di chiamare il suo profilo "The world walk". "Una passeggiata di salute - ha detto - che mi ha messo in pace con me stesso".

14.7.22

Aurora Fochesato La Robin Hood delle freccette

 credevo che  il gioco delle freccette  fosse  un gioco da  uomini. Poi   ho letto  , su
www.repubblica.it (  da  cui ho tratto la foto affianco ) , vedere   il  video di repubblica  e   gli url  sotto, la  storia  di Aurora Fochesato  che   a  16 ed  le premesse  ci  sono  ,  sogna di essere la prima azzurra a qualificarsi per il primo turno dei mondiali. La  sua   come    raccontata  questo  video  è una  Passione di famiglia: il padre gareggiava con lei in braccio  




per  chi    volesse  saperne  di più siu  di lei    ecco  i  suoi   social  ufficiali 

AURORA FOCHESATO:

https://www.facebook.com/aurorafochesato180
https://www.instagram.com/au_.ry_
https://twitter.com/AuroraFochesato

https://winmau.com



Figurine che passione, ma sull'album a Montecchio si attaccano gli abitanti del borgo umbro

  da  repubblica online  


Una ragazza ha allestito la collezione dei suoi concittadini. Dal "Ceppetta" (l'immagine più rara) al "Lungo", in 428 sono finiti sull'album. Già vendute 150 copie e 13mila pacchetti in un centro di sole 1.600 anime. Il sindaco: "Che nostalgia, nell'elenco anche alcuni di noi che non ci sono più"




Terni - Non solo i campioni in pantaloncini corti della raccolta Panini. E' la figurina di “Ceppetta” una delle più ricercate sulla piazza di Montecchio: vale almeno tre figurine comuni. Al centro del borgo in provincia di Terni non si parla d’altro da giorni, da quanto un album di fotografie adesive ha riunito i paesani “storici” e quelli attuali nelle pagine di un’antologia che racconta vita, memoria e identità del
piccolo centro medievale inserito nel triangolo tra Todi, Orvieto e Amelia.
Quei 428 campioni
Quella sorta di Spoon River contemporanea, con un abito cucito sulla falsariga dei gloriosi album Panini, descrive con 428 volti della gente comune - divisi per rioni e per il ruolo ricoperto in paese - i connotati passati e presenti della collina affacciata sulla Valle del Tevere, famosa per l’olio e la sua necropoli etrusca. Il progetto grafico “Il paese” nasce da un’idea di Nadia Neri, 29enne nata nel borgo di 1.600 anime e diplomata in scultura e nuovi linguaggi espressivi all’Accademia di belle arti di Firenze. La giovane artista realizzato l’album in collaborazione con l’associazione culturale “L’Antica Torre di Melezzole” e con il patrocinio del Comune di Montecchio. “Il progetto è stato il seguito della mia tesi di laurea - spiega la promotrice - e nasce come ricerca delle radici nel nostro centro abitato, partendo dal concetto di famiglia e di appartenenza alla comunità”.

Gli ideatori dell'album al lavoro



Gli abitanti in posa per mesi

Per mesi gli abitanti di Montecchio e delle due frazioni di Tenaglie e Melezzole sono stati visitati, casa per casa, bottega per bottega, per posare per la raccolta di figurine che da sabato scorso è in vendita negli esercizi commerciali del paese, dal bar al tabacchi. “È stato un modo per ritrovarci dopo la pandemia, un faro per fare luce sulla nostra memoria storica, per coinvolgere i paesani che per motivi di lavoro o età non fanno vita sociale e rafforzare il senso di appartenenza e inclusione anche nei nuovi compaesani immigrati”, spiega Federico Gori, sindaco civico da otto anni di quello che, ci tiene a sottolinere, è uno dei borghi più belli d’Italia. “Raccogliere le foto e scambiare le figurine - aggiunge il sindaco- ci ha fatto ridere di gioia e piangere di nostalgia, perché nella raccolta abbiamo deciso di inserire anche alcuni paesani scomparsi, che hanno fatto la storia del nostro paese”.
Da mamma Simonetta a nonna Evelina
È così che accanto agli abitanti del presente, come Simonetta, madre dell’ideatrice dell’album che ha avuto l’onore della figurina numero uno, rivivono su carta e stickers patinati Alessandro Bartolomei, detto “il Lungo”, scrittore locale e animatore della banda santa Cecilia di Montecchio, Evelina, storica barista del paese, scomparsa di recente a 102 anni, fotografata davanti al bar del marito “Crispino”, e appunto “Ceppetta”, “che era una specie di custode del paese - ricorda il sindaco Gori - al quale potevi rivolgerti per qualsiasi necessità”.
“Celo, celo, mi manca”

La famiglia allargata di Montecchio si è ritrovata lo scorso fine settimana in piazza e nei bar, a reciate la litania del “celo, celo, mi manca”, che gli adulti non ripetevano da decenni e molti bambini del paese hanno sentito per la prima volta, come rito di iniziazione al magico mondo delle figurine. “Il progetto è stato accolto con entasiasmo e nel primo giorno di uscita le 150 copie dell’album sono andate esaurite, così come per buona parte dei 13mila pacchetti di figurine stampati”, racconta il sindaco Gori. “Adesso - assicura il primo cittadino - abbiamo già in programma una prima ristampa”.

13.7.22

Ferdinando Elia, a 99 anni tre volte a settimana in palestra: "Ho sempre cercato di essere indipendente



99 anni e non sentirli. Ferdinando Elia continua ad allenarsi, tre volte a settimana, nella palestra vicino casa. Una forza della natura! Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua storia... e i suoi segreti 
😃
 



Michele Agostinetto, 44 anni, di Treviso, ha iniziato il suo viaggio a maggio per raccogliere fondi per la ricerca sula sclerosi multipla

 riascoltando  un  classico   della musica  italiana   deglianni 90
In viaggio - Consorzio Suonatori Indipendenti - traccia 11 dell'album Ko de Mondo (1994).



  mi     è veuta  alla mente  questa  storia   letta  temo fa  


Agostinetto, duemila km a piedi
contro la sclerosi multipla

 corriee  della sera  
di Camilla Palladino

Michele Agostinetto, 44 anni, di Treviso, ha iniziato il suo viaggio a maggio per raccogliere fondi per la ricerca: «Sono stanchissimo ma soddisfatto

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Michele Agostinetto con Edward von Freymann (in carrozzella), il papà di Gaia, una delle due 16enni travolte e uccise a corso Francia (foto Giuliano Benvegnù)

Un itinerario composto da 87 tappe, per un totale di circa duemila chilometri a piedi. È l’impresa di Michele Agostinetto, trevigiano 44enne e affetto da sclerosi multipla, che lo scorso primo maggio si è messo in cammino per raccogliere fondi per la ricerca e per lanciare un messaggio di resilienza e di speranza diretto a chi, come lui, combatte contro la malattia neurodegenerativa.È partito da Valdobbiadene, in Veneto, città natale di suo padre. La destinazione è Santa Maria di Leuca, in Puglia, paese di origine della madre, che Michele conta di raggiungere il 22 agosto. Un «viaggio da sclero» (che è anche il nome del progetto) e una sfida fisica lunghi quasi quattro mesi. In questi giorni è arrivato a Roma, dopo essere entrato nel Lazio lo scorso 10 giugno e aver attraversato Civita di Bagnoregio, Montefiascone, Viterbo, Vetralla, Sutri, Campagnano di Roma e La Storta. Proseguirà passando per Castelgandolfo, Velletri, Cori, Sermoneta, Sezze, Priverno, Terracina, Fondi, Itri, Formia e Minturno, fino a sconfinare in Campania.A ospitarlo in zona Fleming mentre si trova nella Capitale è stato Edward von Freymann, il papà di Gaia, una delle due 16enni investite e uccise su corso Francia nel 2019. «Avevo comprato casa in questo quartiere dieci giorni prima della morte di mia figlia, proprio per starle più vicino. Ora voglio che sia un luogo di passaggio per trasformare il dolore in amore», spiega Edward. Il caso ha voluto che Michele venisse ospitato da un uomo costretto in carrozzina a seguito di un incidente stradale. «Guardo al futuro – sostiene Michele – so che un domani potrei ritrovarmi anche io su una sedia a rotelle. Con Edward abbiamo parlato soprattutto del problema delle barriere architettoniche in città».Michele lascerà Roma nella notte tra mercoledì e giovedì, dopo aver visitato il Campidoglio, fontana di Trevi, il Vaticano e il Parlamento. Ma le scene che gli resteranno più impresse sono il momento in cui nei pressi de La Storta è stato caricato da un gruppo di cinghiali, o quando alcuni agenti della Forestale l’hanno scortato a piedi per 22 chilometri per fargli compagnia e tenerlo al sicuro. «Nei primi mille chilometri percorsi ho incontrato persone meravigliose, Roma è il giro di boa. Sono stanchissimo – specifica – ma soddisfatto, perché ricevo tanti messaggi da persone che si sono rimesse in piedi dopo la diagnosi». I suoi occhi brillano mentre parla, è sorridente. Si soprannomina da solo «Forrest “Cramp”». Poi racconta la sua quotidianità: «Inizio a camminare alle 4 di mattina e mi fermo alle 10,30, percorrendo una media di 26 chilometri al giorno». L’orario è dettato dalla malattia. «Soffro il caldo 5 volte più degli altri – dice – e il mio cervello rischia di andare in tilt».La vita di Michele è cambiata nel 2020, quando gli è stata diagnosticata la malattia. A causa dei dolori fisici, ha dovuto chiudere il suo negozio di telefonia e informatica nel pieno della fase più critica della pandemia. Per un anno è stato costretto a muoversi solo con l’ausilio di stampelle e deambulatore, ma un giorno ha deciso di reagire. Ha iniziato ad allenarsi e a progettare il suo viaggio in solitaria, per dimostrare a se stesso e agli altri che poteva farcela. Chilometro dopo chilometro. Anche un’altra preoccupazione, tuttavia, l’ha spinto a partire: «Voglio visitare i luoghi che probabilmente non potrò mai più raggiungere in questo modo». In Puglia poi si ricongiungerà con la sua compagna di vita da 13 anni, Stella, e il suo cagnolino. «Loro sono un incentivo – conclude Michele – per arrivare fino in fondo»



Il viaggio di Michele, 2mila chilometri a piedi per combattere la sclerosi multipla  su fanpage  


Là dove ieri c’era la fogna della Storia da oggi ci sarà la bellezza e la dignità del lavoro e dell’inclusione la storia È la storia della “Locanda dei Girasoli”, una pizzeria gestita da una cooperativa di donne e uomini con sindrome di Down

https://www.facebook.com/LocandadeiGirasoli/
https://www.lalocandadeigirasoli.it/



da   https://www.facebook.com/lorenzotosa.antigone/



Questa è una storia di lavoro, dignità, bellezza. Dal finale straordinario.È la storia della “Locanda dei Girasoli”, una pizzeria gestita da una cooperativa di donne e uomini con sindrome di Down che, per 22 anni, ha animato con piatti di qualità e integrazione sociale il Quadraro a Roma, prima di essere costretti come tanti alla chiusura, nel gennaio di quest’anno.

dal  sito    della cooperativa 
La Locanda Dei Girasoli – Ristorazione inclusiva
Oggi, grazie allo sforzo della Regione Lazio, del Presidenze Zingaretti e di tante persone perbene, la notizia più bella: la Locanda dei Girasoli è salva, riaprirà i battenti. Non in un luogo qualunque ma nei locali Ater di via Taranto che per anni sono stati occupati abusivamente da Forza Nuova, prima di essere meritoriamente sgomberati dall’allora sindaca Raggi.Pensate che segnale, che messaggio politico profondo. Là dove ieri c’era la fogna della Storia da oggi ci sarà la bellezza e la dignità del lavoro e dell’inclusione.Non succede spesso, ma a volte la politica sa essere davvero bella.

La strage di via d'amelio 19 luglio 1992 non fu solo ucciso Borsellino ma anche Manuela Loi , Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina

L’autobomba che uccise Borsellino e 5 agenti il 19 luglio ‘92 (Ansa)
 Ero poco più di un bambino , avevo 16 anni , quando gli attentati a Falcone e Borsellino hanno stravolto l'Italia. Ho ancora in mente le immagini terribili del cratere sull'autostrada tra l'aeroporto di Punta Raisi e Palermo e quelle delle auto in fiamme in via D'Amelio . Ma posso dire che ci  sono notizie a cui non vogliamo credere, a cui non riusciamo a credere, che non vogliono entrare nelle nostre teste perché sono troppo dolorose, perché spengono sogni e speranze. Per me la notizia della morte di Giovanni Falcone prima e poi  di Paolo Borsellino   sono  state  il simbolo di quella sensazione di disperata incredulità. Ed è grazie  ad essa che ho  iniziato , anche  se nel mio limite  , ad  interessarmi
alla lotta  antimafia e   a parlare  di mafia . Ma  non  divaghiamo  ed   ritorniamo  al discorso originale  . Per quanto riguarda  la  strage  di via  d'Amelio  il mio  è un ricordo     di un  ragazzo di 16  anni  . Eroo  con mio padre  ed mio fratello a fe  una passeggiata   ed  a raccogliere  bacche  di mirto   , mentre mia  madre era  rimasta  con i miei nonni . Quando tornammo  a prenderla   , per  poi rientrare  a Tempio ,  vedevo  mia nonna  materna  scossa  e  sullo fondo le immagini   del palazzo sventrato  e  delle  auto bruciate  . Ed  li  che   apprendemmo   della  strage   di  via  d'amelio che vide la morte  del giudice  paolo borsellino  e  della sua  scorta .   
 Ora poichè   per le  celebrazioni del 19 luglio  si parlerà  di al 90  % di  Borsellino  ,  e  poco  dei suoi uomini  della scorta   voglio   riportare  dal  settimanale  oggi    della  scorsa  settimana   questa intervista     alla  sorella di manuela Loi (Cagliari, 9 ottobre 1967– Palermo, 19 luglio 1992) . Manuela è stata la prima agente di Polizia italiana adibite in Italia al servizio scorte, a restare uccisa in servizio.

  dal settimanale  oggi  

Sestu, una decina di chilometri a nord di Cagliari, c’è una palazzina rosa di tre piani. Il primo è disabitato da molti anni. Le persiane sono sempre chiuse. In una cameretta il tempo si è fermato 30 anni fa. Il letto è intatto, i pupazzi sono distribuiti con amore, la scrivania è in ordine. Le pareti sono tappezzate di fotografie che ritraggono una ragazza allegra. Si chiamava Emanuela Loi, aveva 24 anni, faceva la poliziotta. Il 19 luglio del 1992, alle 16.58, invia D’Amelio, a Palermo, un’autobomba piazzata all’interno di una 126 amaranto l’ha fatta saltare per aria assieme al giudice Paolo Borsellino e a quattro suoi colleghi della scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina). Emanuela è la prima agente donna rimasta uccisa in servizio. «Moltissime persone, in tutti questi anni, mi hanno chiesto di visitare la sua stanza, adesso voglio fare di più: per ricordare mia sorella creerò un museo in sua memoria».

PASSAGGIO DI TESTIMONE Sopra Emanuela Loi, 29, guarda la foto della zia da cui ha ereditato il nome. Figlia del fratello dell’agente


Non sapevamo che scortava Borsellino. Ci tranquillizzava dicendo che il suo lavoro non era a rischio

Mia nipote è nata quattro mesi dopo la morte di Emanuela. Darle il suo nome è stato naturale.

Ora è una poliziotta anche lei

È la promessa, svelata con voce commossa, della sorella Maria Claudia, 56 anni, che abita al piano superiore di quella che un tempo era “la casa di famiglia”.

Come sarà il museo?

«Sorgerà qui, nella mansarda. Ci sarà tanta luce, le teche con gli oggetti che hanno fatto parte della vita di Emanuela: i vestiti, le catenine, la sua divisa, il cappello. Esporrò tutto quello che in questi 30 anni ho ricevuto in regalo per lei da ogni parte d’Italia: lettere, poesie, targhe, quadri, pupazzi. Verranno anche proiettati dei filmati inediti. Finalmente, la gente potrà sentire la voce di Emanuela e capire come era».

Che rapporto avevate?
«Eravamo legate da un amore indissolubile. Io, timida e introversa

; lei, chiacchierona. Invidiavo questo suo lato. Emanuela era molto legata alla famiglia e alla Sardegna, la sua terra. Quando lavorava a Palermo aveva chiesto di essere trasferita vicino a casa nostra».






Lei è più tornata a Palermo?

«Per 25 anni non ho avuto il coraggio di andarci. L’ho fatto per la prima volta nel 2017, con la Nave della Legalità. Avevo quasi paura di calpestare lo stesso suolo che aveva visto morire Emanuela, poi ho superato il blocco. Quest’anno non sarò presente alla commemorazione, preferisco ricordarla a Sestu. Parteciperò a una cerimonia più intima, nei luoghi che lei amava e dove ha vissuto».

È cambiato qualcosa in questi 30 anni?

«Non abbiamo più paura di esporci, di dire no a Cosa Nostra, di scendere in piazza. Subito dopo le stragi del 1992, ricordo le lenzuola bianche appese ai balconi delle case di Palermo e la gente che partecipava alle fiaccolate. Prima di allora era impensabile, c’era molta omertà. Oggi scuotiamo le coscienze delle generazioni future. Io ci provo quando giro le scuole d’Italia e ai giovani parlo di Emanuela. I bambini di sei anni si avvicinano emi dicono: “Da grande voglio fare il poliziotto come tua sorella”. In questi 30 anni sono venute a trovarci centinaia di scolaresche, le portano i fiori sulla tomba, una scultura unica, fatta di specchi e acqua, il simbolo della vita».

Che cosa chiede oggi per sua sorella?

«Che si faccia chiarezza sui mandanti. Nonostante diversi processi e sentenze, ci sono ancora tanti punti oscuri su questa strage di stampo mafioso-terroristico. Sono una persona molto religiosa, se i colpevoli dovessero pentirsi in modo sincero, sentito, forse potrei perdonarli».

Dove era quel 19 luglio?

«Ero in vacanza sul Lago di Garda. Le avevo scritto una cartolina, non ricordavo il suo indirizzo, così chiamai mia madre per farmelo dare. Lei rispose al telefono con voce un po’ agitata, disse che c’era appena stata una strage a Palermo, di lasciare libera la linea di casa perché probabilmente Emanuela la stava chiamando per rassicurarla, cosa che aveva

fatto il giorno in cui era morto Falcone. La sua telefonata non arrivò mai. Poi la sera sentii la notizia e il nome di Emanuela pronunciato al telegiornale. Svenni».

Sapevate che scortava il giudice Borsellino?

«No, ci diceva che era al servizio di un uomo importante, ma quando provavamo a farle qualche domanda cambiava discorso. “Non faccio un lavoro a rischio, state tranquilli”, ci rispondeva».

E dopo quella strage?

«Troppi lutti. Via D’Amelio non mi ha tolto solo mia sorella. Dopo sono venuti a mancare i miei genitori. Mio padre per quattro anni ha avuto la febbre ogni giorno, le sue difese immunitarie si erano abbassate, eppure prima di morire era a Palermo per ricordare mia sorella. Mia madre se n’è andata per un tumore al fegato nel 2006. Nel 2010 mio nipote è morto in un incidente stradale, aveva 19 anni, e l’anno prima era morta, a 40 anni, sua madre, la moglie di mio fratello».

Chi le ha dato la forza?

«La fede innanzitutto. Sono sicura che i miei cari si trovano in una dimensione migliore di quella terrena. Proprio lì ci ritroveremo tutti insieme. E poi devo molto a mio marito, che mi è sempre stato vicino, e a quello che è rimasto della mia famiglia: mio fratello e mia nipote Emanuela. Si chiama come mia sorella ed è una poliziotta anche lei».

Ha seguito le orme della zia.


«È una donna sensibile, ma anche forte e tenace, mamma di una splendida bambina di 7 anni. Emanuela si sarebbe dovuta chiamare Azzurra, è nata quattro mesi dopo via D’Amelio, ma darle il nome della zia è stato naturale. Sin da piccola ha partecipato alle commemorazioni in suo ricordo, ha respirato il senso di giustizia».

Come era arrivata in Polizia sua sorella?

«Tra noi due ero io quella che voleva fare la poliziotta, lei sognava di diventare maestra perché amava i bambini, aveva anche partecipato al concorso, aspettava solo l’esito. Nel frattempo, la convinsi a sostenere il concorso in Polizia, lei lo superò, io no. Quando seppe di essere stata assunta come insegnante, non ebbe dubbi: decise di restare in divisa, era felice».

Si è mai sentita in colpa per averla spinta a fare questo lavoro?

«Questa è una domanda che mi fanno spesso i ragazzi delle scuole. No, non ho mai avuto nessun rimpianto. Emanuela amava il suo lavoro e quando ha avuto la possibilità di lasciarlo non lo ha fatto. Per lei era una missione».

Nonostante diversi processi e sentenze, ci sono ancora tanti punti oscuri su questa strage

L’ultimo ricordo che ha di lei?

«Qualche giorno prima di morire, era in vacanza a casa nostra, in Sardegna. Aveva la febbre, mia madre le aveva detto di non tornare in Sicilia, di aspettare che passasse. Lei disse di no: “Se non vado, il mio collega non potrà andare in ferie. Lui ha una famiglia, è giusto che stia con i suoi bambini”. Questa era Emanuela».

12.7.22

Lavoro e figli: un altro modo è possibile

    della newsletter  di repubblica   Scusi, Lei. 


Sono 500 fogli, uno sull’altro. Stampati tutti, con poche righe di descrizione o con lunghi racconti tutt’altro che burocratici. “Richieste di lavoro, certo, ma anche storie da condividere. E non è difficile: perché tante di quelle sensazioni le conosco bene”, Virginia Scirè in questi giorni non sa più come rispondere a tutti. A quei 500 curriculum arrivati in pochi giorni, a mail, messaggi, telefonate, dopo che aveva visto la stilista Elisabetta Franchi raccontare delle sue dipendenti “donne over 40 che possono lavorare h24 perché i figli sono grandi” e per questo aveva fatto un video su Instagram per dire che un altro modo è possibile.
Il team di WearMe, al centro Virginia Scirè 
 Senza immaginare cosa sarebbe successo. “Eppure se ci pensi quello che facciamo è la cosa più naturale del mondo: lavorare e crescere i nostri figli. Senza dover scegliere tra le due cose”. È una piccola imprenditrice di Castelfranco Veneto, due dipendenti più altre due che firmano in questi giorni e sei collaboratori – c’è anche un uomo, uno solo per ora – esterni che si occupano del marketing. E la sua azienda fa del lavoro agile una religione: orario di apertura dalle 9 alle 16, per avere il pomeriggio e la sera realmente liberi – “ma una di noi esce alle 15,30 perché l’asilo di suo figlio chiude alle 16, semplicemente al mattino arriva mezz’ora prima” – e fa niente se ci sono compratori che restano spiazzati, abituati a incontrare le aziende anche dopo le 18. La flessibilità è totale, si lavora sui progetti e non sul monte ore (che ovviamente però è scritto nei contratti), chi è nel periodo dell’allattamento può scegliere di lavorare da casa alcune ore e in ufficio altre. E quando le scuole erano chiuse e i bambini in Dad “li portavamo in ufficio: certo, quella giornata era sicuramente meno produttiva per noi, ma poi si recupera”. Della storia di Virginia Scirè, 43 anni, founder di WearMe – abbigliamento per portare i neonati, cioè non solo fasce e marsupi – ne ho letto sul profilo Instagram di Lia Quartapelle. Che è una deputata del Pd, ma è anche una (giovane) donna che mette in connessione altre donne. Nel post scrive: “Lia, devo portarti alcuni curriculum. Circa 500”. No, non è la storia di come si raccomandano delle persone a una politica. È la storia di Virginia Scirè, imprenditrice e fondatrice di WearMe. Ed è la storia di 500 mamme che vorrebbero lavorare in modo diverso. Virginia fonda WearMe quando si deve licenziare dall’azienda in cui lavorava perché si assentava troppo. Virginia doveva infatti lavorare e intanto prendersi cura di suo figlio, affetto da una malattia che richiedeva la presenza assidua della mamma in ospedale e durante le cure. A partire dalla sua vicenda, ha deciso che lavorare nella sua azienda sarebbe stato diverso: ha scelto di organizzare il lavoro secondo i tempi delle sue dipendenti, che sono tutte mamme, con orari di ingresso flessibili, la possibilità di smart working in base alle esigenze delle famiglie, e alle 16 si chiude. Dopo la vicenda di Elisabetta Franchi, il suo modo di lavorare, a misura di genitore, è stato raccontato da vari giornali e TV a dimostrazione che, per fortuna, non tutti gli imprenditori o le imprenditrici si comportano come Elisabetta Franchi. Con questo tam tam, più di 500 mamme hanno mandato a Wear me il loro curriculum. Sono mamme stanche, nervose, piene di senso di colpa, mamme che cercano di tenere tutto insieme e che “lavorano solo per lo stipendio”, ma che vorrebbero essere impiegate da aziende capaci di lavorare in modo flessibile, per risultati. Virginia mi ha consegnato simbolicamente i loro curriculum, che ho ricevuto come impegno a lavorare insieme per avere: il congedo di paternità obbligatorio; più servizi per la famiglia; più tempo pieno, per i bambini e anche per permettere alle mamme di lavorare. Costruire un’azienda che tenga conto delle persone e delle loro esigenze è possibile. Costruire intorno a queste aziende un paese che aiuta i genitori che lavorano non solo è necessario ma è anche giusto”.

Lia Quartapelle con Virginia Scir&egrave;
Lia Quartapelle con Virginia Scirè  

Virginia Scirè ha deciso di provare a costruire qualcosa intorno ai suoi ritmi quando questi sono cambiati. “Ho iniziato a lavorare in una società finanziaria a Castelfranco, poi nel 2008 è nato il mio primo figlio, che aveva dei problemi di salute e necessità di ricoveri. Ero ancora in maternità, avevo partorito da tre mesi quando la mia società mi ha comunicato che mi avrebbero trasferito a Verona, a 110 chilometri da casa”. Passa ancora qualche mese, la maternità finisce: “Ho capito che non sarebbe stato possibile conciliare quel lavoro con quelle condizioni e la mia vita ma non avevo alternativa: così mi sono dovuta licenziare. Ed è stata una rinuncia, non solo economica”. In quei mesi di maternità Virginia fa acquisti online per il suo bambino, e lì decide di provare ad aprire un negozio di abbigliamento per bambini su eBay, da lì passa a un sito di e-commerce e a un ufficio fisico “perché così non dovevo stare sempre a casa”, poi un piccolo capannone e i primi quattro dipendenti, “tra loro Tania, che è ancora con me”, fino alla seconda gravidanza, nel 2013. “Mia figlia non dormiva mai, se non quando la prendevo in braccia, di lavorare non se ne parlava. Fino a quando un’amica mi ha regalato una fascia: la svolta”. Il baby wearing diventa il suo lavoro, vende fasce e marsupi e, nel 2017 con una sorta di crowdfunding, riesce a produrre la prima giacca per portare i bambini, che adesso è uno dei punti di forza di WearMe. “Ma lavoravo tantissime ore, vedevo i miei figli al mattino e a sera tardi, mi sembrava di non fare bene l’imprenditrice, ma neanche la mamma”. In quel periodo Tania aveva avuto un bambino, “allora ho iniziato a riflettere su come impostare il nostro lavoro: in Germania tante aziende chiudono alle 16, chi mi impediva di fare lo stesso?”. Tania è stata la prima a sperimentare la flessibilità totale durante l’allattamento, e lo smart working per noi era una realtà prima della pandemia. Durante la seconda ondata, quando siamo tornati anche in ufficio, c’erano giorni in cui portavamo i bambini: loro erano in Dad, i nonni andavano protetti, la cosa migliore era quella”. Oggi WearMe ha triplicato il fatturato (dai 180mila del 2019 ai 610mila del 2021, quanto i primi sei mesi di quest’anno, è stata inserita nell’incubatore SocialFare come start up di impatto sociale e Virginia Scirè ha due dipendenti e sei collaboratori per il team marketing che lavorano in smart working, dalla Puglia e dalla Spagna. Tutte donne, tranne uno, e sono donne e madri anche le due nuove dipendenti che firmano in questi giorni. Madri come quelle che, dopo quel reel su Instagram, le hanno scritto: “Tante hanno perso il lavoro perché non potevano avere il part-time che serviva per la famiglia, hanno diverse professionalità, livelli di istruzione e storie. Tante altre lavorano ma con il costante affanno di vedere i figli solo quando tornano la sera di perdersi qualcosa”. Ma gli uomini esistono in questa storia? “Sì, ci sono, e ce ne sono molto presenti: ma se non ci sono servizi o nonni non bastano neanche loro. Infine: le madri e i padri dovrebbero avere entrambi la possibilità di crescere i figli

avremo un prege down ? Down e autistico, mamma Donatella racconta: “Emanuele era pieno di rabbia e picchiava, ora studia teologia”

https://luce.lanazione.it/lifestyle/down-autistico-emanuele/
11 Luglio 2022

Down e autistico, mamma Donatella racconta: “Emanuele era pieno di rabbia e picchiava, ora studia teologia”
Fiorentina, madre di 6 figli, quando un amico prete le chiese se volesse adottare un bambino abbandonato a Milano, con il marito rispose sì: "Abbiamo imparato a comunicare, siamo felici"
                                         Geraldina Fiechter


                                           Emanuele con i genitori



“Avevo sei figli, dico sei. Dai 5 ai 20 anni. Quando un amico prete mi ha chiesto se volevo adottare un bambino down abbandonato a Milano ho detto: sei matto, neanche per sogno. Ma ormai me lo aveva detto, il tarlo era entrato. E nel giro di pochi giorni siamo andati a prenderlo”.Emanuele con sua sorella Camilla

Dunque alla fine i matti sono stati loro, come disse ai genitori la figlia più grande, Camilla, che quando tornò a casa da un lungo viaggio trovò la sorpresa. Emanuele aveva 3 mesi, un’accentuata sindrome di down e – si scoprirà strada facendo – una grave forma di autismo. Oggi ha trent’anni e non parla, ma scrive pensieri che nessuno poteva immaginare e si è iscritto a teologia. “È un mistico”, ha detto di lui una professoressa. “La verità è che ci ha fregati tutti – dice Donatella Bing, la mamma di Ema – . Se avessimo creduto ai certificati e ai percorsi prescritti, mai avremmo scoperto cosa c’era dietro il muro”.
E allora osiamo: ogni comunità avrebbe bisogno di un Ema. Ovvero di una specie di alieno che esce da qualunque schema, che butta all’aria le dinamiche di una famiglia spingendola verso sentieri inesplorati, che vuole verità essenziali e affetto senza trucchi, che infine diventa il fulcro di una vita nuova da cui nessuno tornerebbe più indietro (e ci sarà pure un motivo). Parliamo con grandi sorrisi davanti a una famiglia (allargata) di alpaca, animali docili e morbidi che sono diventati il nuovo lavoro di Emanuele e di altri otto ragazzi parecchio complessi.
Emanuele e mamma Donatella

Donatella, è sicura di non essere una santa? Ha argomenti per convincerci?
“Potrei dire che molte volte ho detto: chi me lo ha fatto fare. I primi quattro o cinque anni sono stati faticosissimi. La casa era un campo di battaglia, Ema rompeva tutto, era pieno di rabbia, non comunicava, sputava addosso alla gente che non gli piaceva. E quando me lo portavo al supermercato c’era sempre qualcuno che brontolava perché faceva perdere tempo alla cassa. Sa quante volte ho sentito la frase: questi bambini dovrebbero tenerli a casa”.

Succede ancora?

“Eccome, ma ora non ci faccio neanche più caso. Oppure ne ricavo qualche soddisfazione: in metropolitana a Milano, stretti come sardine, una signora di una certa età ha detto la fatidica frase: dovrebbero tenerli a casa. E una signora accanto ha replicato: anche gli anziani”.

E quando c’è stata la svolta?

“Quando abbiamo trovato il primario di psicologia del Bambin Gesù a Roma, che ci ha dato la chiave per interpretarlo. Per esempio ci ha spiegato che la rabbia veniva probabilmente dall’abbandono e dovevamo dargli tempo. E un giorno avremmo dovuto parlargliene. Ha voluto seguire tutta la famiglia, non solo lui. Andavamo a Roma tutti e nove, con un pulmino. A volte venivano anche la sua baby sitter e l’insegnante di sostegno”.


Emanuele con la sorella Francesca

E il giorno della grande domanda è arrivata?

“Sì, quando ha cominciato a scrivere al computer. Un giorno ha chiesto di spiegargli la sua storia. E quando il babbo gli ha risposto semplicemente ‘avevamo saputo che c’eri e siamo venuti a prenderti’, ha battuto sui tasti la risposta: ‘Avete fatto bene’”.

È sempre andato in scuole pubbliche?
“Sì, e siamo stati fortunati. Alle elementari aveva una maestra tostissima, Sonia. Quando l’autista del pulmino che doveva portare la classe a una piccola gita si è rifiutato di far salire Emanuele, che secondo lui non aveva il permesso adatto, lei ha fatto scendere tutti i bambini e sono andati a piedi. È stata la prima sua vittoria: un bambino della classe, non un alieno isolato”.

Quando avete scoperto che poteva scrivere?


Emanuele con la sorella Camilla

“Alla fine delle elementari ha cominciato la musicoterapia con Giordania, maestra straordinaria, lei per prima ha capito che sapeva leggere perché suonava il tamburo su cui era scritta la parola richiesta. E allora ci ha parlato del metodo W.O.C.E., basato sulla comunicazione aumentativa con l’uso del computer: perché’ non provare a far scrivere Ema? Eravamo molto scettici, ma abbiamo detto: proviamoci”.

Ed è andata alla prima?

“Ci abbiamo messo parecchio tempo prima di convincerci. Non volevo crederci, mi sembravano tutte coincidenze, purtroppo anche noi genitori siamo vittime di pregiudizi. Quando poi l’insegnante mi ha fatto vedere che aveva individuato l’errore in una frase, cioè un più senza accento, allora ho detto ok, incredibile ma vero. E ci è cambiata la vita. È cambiata a lui, soprattutto, che ha potuto cominciare a scrivere i suoi pensieri, i suoi desideri, a relazionarsi”.

Scrive da solo?
“No, il progetto prevede un’assistente alla comunicazione, nel nostro caso Carolina, che segue Emanuele da oltre 15 anni e ha un bellissimo rapporto con lui. È con lei ha seguito i corsi all’università. Gli piace scrivere anche con mia figlia Camilla, che riesce a tirargli fuori anche i pensieri più nascosti. Una volta gli ho chiesto di farlo con me, lui mi ha scritto: “sarebbe bello, ma ci vuole pietà”. Come dire che non ho abbastanza pazienza”.

Che legame c’è fra voi due?

Emanuele alla batteria

“Fortissimo, siamo sempre appiccicati. E lui sa che lo vizio, quindi se ne approfitta e con me si impigrisce. Sta delle ore a ripetere i suoi gesti, a tirarsi giù la maglietta se secondo lui è troppo corta, a fissarsi su una scala mobile finché c’è qualcuno che scende. Devo essere molto categorica per farlo uscire dai suoi labirinti”.

E ora è anche uno studente di teologia, un miracolo dietro l’altro?

Con il Covid si è fermato. Ma all’ultimo esame aveva preso 30 e lode. Incredibile no? Quando ha finito l’istituto agrario gli abbiamo trovato un lavoro in un vivaio. Ma gli facevano riempire e vuotare i vasi di terra, e un giorno lui ci ha scritto: ‘Mio lavoro inutile non ci vado più’. E quindi? ‘Voglio andare all’università’, ci fece sapere. Ma figurati, la scuola è finita, gli ho detto. E lui: ‘Le mie sorelle l’hanno fatta, perché io no?’.”

E perché teologia?

“Un mistero. Una delle sorelle si era iscritta a teologia, prima di scegliere medicina. Chissà, qualcosa aveva captato e gli era piaciuto. In effetti ha superato un esame a domande multiple e lo hanno preso. L’anno dopo ha fatto un esame in cui doveva abbinare parole in greco antico ai passi del Vangelo. E ce l’ha fatta. Lo so che è difficile da credere, io per prima vengo continuamente spiazzata”.

Forse dovrebbe essere così con tutti i figli: sperare e credere fino in fondo nelle loro capacità, spes contra spem, per citare il famoso motto di San Paolo. E improvvisare in base a quel che accade. Si può dire cosi? Lei che ne ha sette, di figli, conferma?
“Confermo. Mai partire da aspettative o schemi fissi. Nel caso di Ema si aggiunge un passaggio: bisogna bussare prima di agire. Come dire: posso entrare? Ci sei? E aspettare che apra”.

Stiamo parlando in un parco alla periferia di Firenze dove nove ragazzi con diverse disabilità, fra cui Emanuele, si occupano di una famiglia di otto alpaca, animali da lana fra i più docili che esistano sul pianeta. È il loro lavoro. Come è nata questa idea?L’allevamento di alpaca alla periferia di Firenze: gli animali sono accuditi da nove ragazzi con diverse disabilità, fra cui Emanuele

“Con Carolina volevano trovare una soluzione di lavoro vero, un posto che desse a questi ragazzi speciali un vero scopo e una qualità di vita migliore. Abbiamo conosciuto Barbara, anche lei in cerca di qualcosa di bello per suo figlio, e la sua idea degli alpaca mi era sembrata perfetta: se non li accudisci tutti giorni soffrono, hanno bisogno di te, questo si che è un vero scopo, non un semplice passatempo. E a 70 anni mi sono messa a lavorare con fatture, buste paga, commercialista, non è mica stato facile”.

Cosa vi aiuterebbe?L’allevamento di alpaca alla periferia di Firenze: gli animali sono accuditi da nove ragazzi con diverse disabilità, fra cui Emanuele

“Avere la certezza che gli operatori della struttura vengano pagati e in modo adeguato: viviamo nella precarietà, andando a caccia di bandi, con piccoli contributi del Comune e della Regione. La stabilità ci aiuterebbe molto. Altro non chiediamo”.

Milano, è costretto a lasciare il lavoro per una malattia: i colleghi gli pagano i contributi fino alla pensione

E’ la storia di Benedetto Santangelo, 66 anni, una vita dedicata a lavorare per il gruppo Cofle, che si è ritrovato ad affrontare una malattia che gli ha impedito di proseguire la sua attività in azienda


Una malattia improvvisa lo costringe a ritirarsi dal lavoro a pochi mesi dalla pensione, ma la solidarietà dei colleghi corre in soccorso per evitare il licenziamento. E’ la storia di Benedetto Santangelo, 66 anni, una vita dedicata a lavorare per il gruppo Cofle, che si è ritrovato ad affrontare una malattia che gli ha impedito di proseguire la sua attività in azienda. Senza poter raggiungere la completa copertura economica per i restanti mesi. "Benedetto ha lavorato con noi per oltre trent’anni, non potevamo voltargli le spalle nel momento del bisogno”, ha spiegato la titolare dell’azienda.



Che appena è venuta a conoscenza della malattia, si è subito premurata di collocare Benedetto in una posizione di lavoro più tranquilla. L’azienda si trova a Trezzo sull’Adda, nel Milanese, ed è specializzata nella produzione di ricambi per auto dal 1964.
Grazie allo spirito di solidarietà dei colleghi, in collaborazione con l’azienda e le Rsu, è stata attivata una banca delle ore solidale. L’accordo prevede una donazione su base volontaria e a titolo gratuito di ore di Par (permessi annui retribuiti), in favore del lavoratore in difficoltà. Il combinato delle ore raccolte fra i colleghi e l’integrazione a suo tempo garantita dall’azienda per la quota mancante permetterà a Benedetto di raggiungere in piena serenità il traguardo pensionistico, previsto per febbraio 2023. L’azienda, che ha pubblicato su Facebook la foto di Benedetto assieme ai colleghi e titolari, con il racconto della storia a lieto fine, ha ricevuto tantissimi commenti di solidarietà e ringraziamenti.

11.7.22

Martina Evatore e la sfilata con gli abiti del tentato stupro. "Il vestito non c'entra"

Da profano  affermo   che  tale  gesto  di Martina Evatore, 20 anni, che Sfila in passerella con gli abiti che aveva quando provarono a stuprarla: sia  oltre  che  coraggioso  un buon metodo  per  sfidare   \  tenere testa   agli stereotipi  nell'ambito    del vestiario e della moda  .


  da    fanpage.it

Pantaloni larghi, sneakers, t-shirt nera e giacca militare. Si è presentata così in passerella Martina Evatore, la ragazza di 20 anni di Padova che venerdì sera ha sfilato a Jesolo in occasione del concorso Miss Venice Beach.Un'azione dimostrativa per rispondere a chi, nei giorni scorsi, le aveva detto che andando vestita in
un certo "una se la cerca": gli abiti indossati da Martina durante la sfilata sono infatti quelli che aveva quando un uomo tentò di violentarla qualche anno fa. Era la sera del 29 luglio 2019 quando un uomo l'aggredì mentre tornava a casa. Martina stava passeggiando nel quartiere dell'Arcella a Padova: un uomo la colpì alle spalle iniziando a molestarla e provando a violentarla. Con sangue freddo, e forte della sua preparazione acquisita durante un corso di difesa personale, la giovane riuscì a fuggire, colpendo il suo aggressore che scappò. Quell'uomo, nonostante la sua denuncia, non è mai stato trovato, ma Martina ricorda bene cosa indossava quella sera e per questo ha voluto cogliere l'occasione della sfilata per lanciare un monito a chiunque continui a demonizzare l'abbigliamento delle donne vittime di violenza sessuale, come se giocasse un ruolo nella scelta della vittima da parte dello stupratore, quando serve solo a far sentire in colpa le vittime. E così l'altra sera a Jesolo, Martina ha colto l'occasione per lanciare un messaggio importante e rispondere a un'amica che qualche giorno prima, preoccupata per quello che le era successo, l'aveva ammonita vedendola indossare un abito estivo lungo e attillato: “Se vai in giro vestita in questo modo, te la cerchi”, le parole rivolte alla 20enne padovana che ha capito le intenzioni della compagna ma ha sentito la necessità di fare qualcosa. “Le sue parole hanno fatto scattare in me il desiderio di raccontare che cosa ho passato – ha raccontato a IlGazzettino – e specialmente la volontà di sconfiggere questo maledetto stereotipo, al fatto che ancora adesso non poche donne non siano libere di vestirsi come vogliono perché un abito piuttosto che un altro potrebbe attirare le attenzioni di qualcuno, istigare ad una violenza”. Martina è riuscita a sfuggire al suo stupratore ma la ferita lasciata quel giorno è ancora viva e l'ha spinta a rivolgere un messaggio a tutte le donne che come lei hanno vissuto un'esperienza simile: “Voglio dire a tutte coloro che si sono trovate o si troveranno in una situazione come la mia, che devono denunciare. Non bisogna stare in silenzio. Non ci si deve vergognare. Noi siamo le vittime

e da

repubblica  11 LUGLIO 2022 ALLE 16:28


Un paio di pantaloni neri larghi fino alla caviglia, scarpe sportive bianche, una maglietta nera e una giacca verde mimetica. Questi abiti indossava una sera di due anni fa quando a Padova un uomo tentò di
violentarla. E questi stessi abiti Martina Evatore, 20 anni, ha scelto per sfilare in passerella sabato scorso al concorso "Miss Venice Beach" di Jesolo.
"Se vai in giro vestita così te la cerchi", le aveva detto una "amica" qualche settimana fa. E così Martina ha voluto dimostrare e dire a tutti dal palco che no, "non è l'abbigliamento che istiga alla violenza", che non c'è differenza tra una minigonna e un paio di pantaloni lunghi, che lo stupro non è mai colpa di come una ragazza si veste, di cosa una ragazza indossa, che non c'è abito che possa diventare un alibi per giustificare una aggressione sessuale.
Perché due anni fa la ragazza stava percorrendo il sottopasso del Sacro Cuore con quei pantaloni lunghi e larghi, un paio di sneakers, una maglietta coperta da una giacca quando per interminabili minuti le mani di un uomo l'hanno afferrata, toccata e hanno tentato di spogliarla. Martina ha urlato, alcuni passanti hanno sentito e non c'è stato stupro. Ma la violenza sì, una violenza che non si dimentica, che le ha fatto anche perdere due anni di scuola per lo shock, le paure, le ferite interiori: "Era buio - racconta la ragazza - ho visto solo questo 40enne che mi si è scagliato addosso e poi è fuggito. Nonostante un preciso identikit e la denuncia in Questura, di quell'uomo si sono perse le tracce".
Sulla passerella, come ha raccontato il Gazzettino, Martina Evatore ha deciso così di sfogare la sua rabbia e di raccontare il suo gesto: "Non è l'abbigliamento che istiga alla violenza - ha ripetuto al microfono - . Il mio vuole essere un attacco agli stereotipi, al fatto che donne non si sentano libere di vestirsi a loro piacimento perché questo, si dice, potrebbe attirare le attenzioni di qualcuno".
 

Quando il make-up diventa uno strumento di empowerment femminile, la storia di Beatrice Gherardini

 Fin ora   credevo che il  trucco cioè il make  up femminile  (  ovviamente  non  sto  vietando  niente  ogni donna   è libera  di  fare  qu...