25.7.22

La storia di Tyler Cohen, analista di DoorDash che dall’estate del 2019 ha inoltrato fino a quattro candidature al mese a Big G:alla fine ottiene il posto dei suoi sogni. E incanta LinkedIn



Google lo scarta 39 volte ma lui insiste: alla fine ottiene il posto dei suoi sogni. E incanta LinkedIn

La storia di Tyler Cohen, analista di DoorDash che dall’estate del 2019 ha inoltrato fino a quattro candidature al mese a Big G: la sua ostinazione è di ispirazione per molti di quelli che sognano un lavoro in un colosso techGoogle lo scarta 39 volte ma lui insiste: alla fine ottiene il posto dei suoi sogni. E incanta LinkedIn

 di Simone Cosimi

Lui si chiama Tyler Cohen, si occupa - anzi, si occupava fino a qualche giorno fa - di strategia e gestione delle operazioni a DoorDash, una piattaforma statunitense di consegna di cibo a domicilio. Ma il sogno di questo senior analyst con un trascorso nel colosso della consulenza EY e molte altre esperienze nel marketing era un solo: lavorare in Google. Solo che Big G, a quanto sembrava, proprio non lo voleva: l’esperto, laureato alla Northeastern University e con un curriculum di tutto rispetto compresa una limitata conoscenza del cinese mandarino, è stato infatti scartato ben 39 volte. La quarantesima, però, è stata quella giusta.

Una storia che insegna il valore della perseveranza, quella di Cohen, esplosa su LinkedIn, il social network professionale per eccellenza controllato da Microsoft. “C’è una linea sottile fra perseveranza e malattia - ha scritto l’uomo in un post di grande successo, condividendo una schermata significativa della sua posta elettronica - sto ancora cercando di capire quale mi appartenga”. In quello screenshot è racchiuso il lungo corteggiamento a Mountain View: si tratta dell’elenco di tutte le e-mail ricevute da Google in cui, con saluti e ringraziamenti, gli è stato detto che non era stato selezionato per le varie posizioni per le quali di volta in volta, a partire dal 25 agosto 2019, si era candidato. Fino all’ultima, datata 19 luglio 2022 ed emblematicamente intitolata “Welcome to Google!”. Obiettivo raggiunto.

Un risultato se possibile ancora più paradossale visto che arriva proprio in un momento in cui tutti i colossi del tech, Google e Apple inclusi, stanno rallentando il ritmo delle assunzioni programmate per i prossimi mesi (e presentando agli investitori conti non esattamente scintillanti) sull’onda delle incertezze geopolitiche, della crisi delle supply chain internazionali e dell’inflazione. E in certi casi procedendo a una serie di licenziamenti. Big G, parte della holding Alphabet, ha in particolare sospeso i nuovi ingressi per due settimane stabilendo oltre tutto un rallentamento per il resto dell’anno.

In un'email inviata pochi giorni fa ai dipendenti e visionata da The InformationPrabhakar Raghavan, vicepresidente senior di Google, spiegava tuttavia che la pausa delle assunzioni non avrebbe avuto ripercussioni sulle offerte già estese ai candidati (fra i quali, per il rotto della cuffia, dev’essere evidentemente rientrato anche il nostro Tyler Cohen), ma che Google non avrebbe formulato nuove offerte fino al termine della pausa. "Utilizzeremo questo tempo per rivedere le nostre esigenze di organico e allinearci su una nuova serie di richieste di personale prioritarie per i prossimi tre mesi” aveva scritto Raghavan. Per avere un’idea delle dimensioni del recruiting in questo genere di pachidermi, basti pensare che lo stesso Ceo Sundar Pichai all’inizio di luglio aveva certificato come nel solo secondo trimestre dell’anno fossero state assunte altre 10mila persone. Allo scorso marzo l’organico era di oltre 163mila dipendenti, che al momento saranno dunque sopra quota 170mila.

Cohen è dunque fra quelli che non si sono fatti scoraggiare dal vento che stava cambiando già da un qualche mese: d’altronde ha tentato consecutivamente di farsi assumere da Google per tre anni di fila anche con tre o quattro candidature al mese, puntualmente rigettate, per arrivare appunto al totale di 39 tentativi. Il suo era un desiderio che si lanciava oltre gli ostacoli macroeconomici o la situazione internazionale.

Su LinkedIn la storia del suo successo (o meglio, della sua ostinazione, il successo dovrà ora guadagnarselo sul campo) ha coinvolto qualcosa come 22mila persone e raccolto centinaia di commenti. Il più significativo dei quali proprio da parte dell’account ufficiale di Google: “Che viaggio è stato, Tyler! Era proprio ora”.

23.7.22

Firenze, strappa il burqa ad una donna incinta e la spinge fuori dal treno: "La gente come voi qui non ci deve stare

 



premetto  che  il  burqua  non mi  piace  sia che  sia  (  la maggior  parte  dei casi   obbligatorio    e  imposto  )   sia  che sia spontaneo \  scelta   dalla  donna  stessa  .   IO lo  considero poco  rispettivo  per

una  donna  ed   la  sua  dignità  , e  come  tale ne  va combattutto   l'uso  . Ma  non in queasto modo   altrimenti si finisce  d'essere  peggio di quelle correnti islamiche   che lo impongono alle donne .

  da repubblica  23 LUGLIO 2022 ALLE 11:15 

Il fatto davanti a molti testimoni tra cui il capotreno. La giovane mamma, che ha denunciato il fatto alla Polfer, era accompagnava un altro figlio di 11 anni che è scoppiato a piangere. Identificato l'aggressore



Prima strappa il burqa dal volto a una donna incinta, poi la strattona e spingendola fuori dal treno le intima di non provare a salirci più. "La gente come voi qui non ci deve stare, hai capito?”. Questo è quello che si sarebbe sentita gridare, il 15 luglio alla stazione di Calenzano (Firenze), una donna di origini marocchine al settimo mese di gravidanza e con appresso il figlio di 11 anni. A scatenare la rabbia verso la donna, e il burqua da lei indossato, un 35enne originario di Vaiano (Prato), che accortosi di lei sulla banchina intenta a salire con il figlio su un treno regionale l’avrebbe raggiunta per inveirvi contro.
L’agguato però non si è limitato alle solo offese verbali. L’uomo infatti ha afferrato, spintonandola, la donna finendo per fuori dal treno, ancora fermo in stazione. L’intera scena si è consumata sotto gli occhi spaventati del figlio della donna che per la paura è scoppiato a piangere. La donna poi, sotto shock, è scappata temendo per l'incolumità sua e del bambino. Ad osservare la scena erano presenti anche il capotreno e diversi testimoni.
Una volta allontanatasi dal suo aggressore, la donna e il bambino sono riusciti a salire su un altro treno, scendendo alla stazione di Campo di Marte a Firenze dove la mamma ha sporto denuncia alla polizia ferroviaria. L'aggressore, un pendolare che tutti i giorni prende lo stesso treno per recarsi a Firenze al lavoro, è stato individuato, e il giorno seguente, identificato dagli agenti.

Bari, apre Dick Factory: tutti in coda per la pasticceria sexy. "Così sfatiamo i tabù"

da https://www.telebari.it/attualita e da repubblica video


In vetrina non ci sono simboli fallici e immagini osé, che avevano fatto storcere il naso ai commentatori più pudici. L’effetto sorpresa, però, è senza dubbio assicurato, ed è stato rivelato nel pomeriggio del 20 luglio alle 18, quando in corso Vittorio Emanuele 64 ha aperto al pubblico la prima pasticceria ‘sexy’ di Bari.
da https://www.quotidianodipuglia.it/

L’annuncio corre sui social ed è arrivato il pienone, perché il locale di venti metri quadri aspetta di accogliere decine di curiosi e golosi anche da fuori Bari. Dick Factory apre dunque i battenti, a una manciata di metri dalla centralissima via Sparano e dai palazzi del governo della città.

 Sul web la curiosità è incontenibile e sui social i follower aumentano.A curare il restyling del locale e la scelta
dell’arredamento è stato Marcello Ritella, progettista e general contractor, molto conosciuto tra i ristoratori baresi per avere messo la firma su operazioni riuscite, come anche questa sembra essere. Il nuovo “Dick Factory” si prepara a diventare punto di riferimento per addii al celibato e nubilato da tutta la regione.Casse automatiche super tecnologiche, arredamento con luci a neon rosa, fenicotteri, poltrone zebrate, piume, e anche un semaforo. Niente peni e vagine in vetrina o nell’insegna. “Non vogliamo fare facile scandalismo – assicurano dal locale – la nostra è semplice e simpatica goliardia”.Dick Factory nasce sulla scia di locali simili diffusi in tutta Europa: in Italia è stata Mr Dick a fare da apripista, inaugurando a Milano la prima pasticceria sexy specializzata in cupcake e waffle. Il locale barese proporrà proprio i gustosi dolci a cialda, croccanti fuori e morbidi dentro, a forma di peni e vagine, come ‘spoilerato’ da giorni sui profili social. Si partirà con il menù a base di waffle, ma presto arriveranno anche i gelati.Dick Factory, la chiacchierata pasticceria sexy made in Puglia, dopo un’intensa e animata campagna social (qui la curiosa call per la ricerca del personale), ieri pomeriggio ha ufficialmente aperto i battenti a Bari, in corso Vittorio Emanuele.Niente simboli fallici e immagini osé in vetrina, come avevano anticipato a Telebari i gestori dell’attività (leggi qui), ma tanti doppi sensi e molti sorrisi da entrambi i lati del bancone.In fila per curiosità, per divertimento e anche per sfatare qualche tabù. In pieno centro a Bari, in corso Vittorio Emanuele, apre la pasticceria sexy Dick factory. E si rivela subito un successo: nel pomeriggio inaugurale sono oltre cinquanta, in media, le persone in fila costantemente davanti al locale. Da Dick factory si possono acquistare waffle a forma di pene o vagina – chiamati “Lui” o “Lei” – da condire con diversi topping al cioccolato, granelle e praline.



E gli addetti alla preparazione dei dolci scherzano con i clienti giocando con i doppi sensi. "Abbiamo aperto una pasticceria sexy perché volevamo strappare un sorriso – dice uno dei soci del locale, Luca Pisanò – Spesso questo argomento viene trattato con molte riserve e timidezza, invece può essere affrontato con allegria, simpatia, leggerezza e goliardia"

22.7.22

Polifemo e gli altri i tesori dell'arte salvata., Il paese groppodalosio in lunigiana di 10 abitanti ora ha un bimbo in più ., Un gruppo di amici ha deciso di invecchiare duemila bottiglie di vino Doc dell'Etna inabissandole ai piedi del vulcano nell'Area Marina protetta Isole Ciclopi.



Rubati dai tombaroli e arrivati dall'altra parte del mondo grazie al mercato nero: i reperti recuperati dalla Guardia di Finanza ora hanno una nuova casa a Roma.


                                di Francesco Giovannetti








Museo Dell'Arte Salvata
Museo

Sito Web

Indicazioni

Via Giuseppe Romita 8, Aula Ottagona Del Museo Nazionale Romano - 00186 Roma (RM)
telefono 06 477881


incuriosito    da  quyesto  video    ho  cercasto  in rete  ed  ecco cosa  ho  trovato  sul  sito  ufficiale  del  museo

Opere d’arte trafugate, disperse, vendute o esportate illegalmente e poi, finalmente, riportate a casa, per ricucire quel tassello rubato alla storia e al patrimonio nazionale.


Fatto salvo il principio che ogni opera debba tornare al suo territorio di provenienza, il Museo dell’Arte Salvata vuole essere un luogo dove questi beni potranno transitare ed essere esposti al pubblico per un periodo di tempo delimitato.
Le restituzioni dovute alla diplomazia culturale o a seguito delle indagini del Comando Carabinieri TPC e del lavoro dei Caschi blu della cultura, il ritrovamento tra le macerie dei terremoti e in seguito agli interventi in caso di calamità naturali e conflitti, i salvataggi grazie ai grandi restauri, senza contare i recuperi fortuiti di antichità o dovuti agli scavi di emergenza per lavori pubblici e privati, i capolavori restaurati dall’Istituto Centrale per il Restauro (ICR): tutte queste opere d’arte troveranno nel Museo dell’Arte Salvata un approdo per un periodo durante il quale saranno esposte al pubblico prima di essere ricollocate nei musei di appartenenza.
L’allestimento del nuovo Museo, composto da teche e pannelli modulabili a seconda delle necessità delle opere, permetterà ogni volta di cambiare la disposizione all’interno dell’Aula che diventerà uno spazio espositivo ad hoc per accogliere sempre nuovi tesori rendendoli fruibili dal grande pubblico. L’incessante recupero di opere d’arte permetterà un turnover regolare: mentre i pezzi esposti saranno collocati nei musei di pertinenza, nuove opere recuperate saranno esposte al fine di rendere continuo l’aggiornamento sul magistrale lavoro di recupero costantemente in corso. [....]
Dal 16 giugno al 15 ottobre 2022
In occasione dell’apertura al pubblico del Museo, saranno esposti i recenti ritrovamenti frutto delle attività di contrasto al traffico illecito di beni culturali svolta dal Reparto Operativo Tutela Patrimonio Culturale, sempre sulle tracce dell’arte. L’esposizione si fonda sugli oggetti che il Reparto Operativo TPC ha fatto rientrare dagli Stati Uniti d’America in un arco temporale compreso fra il dicembre 2021 e la scorsa settimana: un corpus imponente di opere con numerosi pezzi di archeologia di varie civiltà.
Sono reperti che risalgono a diverse attività investigative condotte dai “Carabinieri dell’Arte” in collaborazione con le Autorità statunitensi, sequestrati presso direzioni museali, case d’asta e collezioni private in varie località d’oltreoceano. Avevano sopportato la consueta trafila dei traffici illeciti di settore: scavi clandestini, ricettazione, esportazione illecita. La restituzione all’Italia è avvenuta il 15 dicembre 2021 presso il Consolato generale di New York, ove alcuni pezzi sono rimasti in mostra per qualche mese.


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Nel borgo di Groppodalosio, in Lunigiana, da 16 anni non si vedeva un fiocco appeso a una porta.


 
Ora i cittadini sono diventati 11, grazie all'arrivo di Federico.


di Margherita Cecchin



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Un gruppo di amici ha deciso di invecchiare duemila bottiglie di vino Doc dell'Etna inabissandole ai  ai piedi del vulcano nell'Area Marina...
Scendere in cantina 40 metri sotto il mare
piedi del vulcano nell'Area Marina protetta Isole Ciclopi.





un ottima  idea    da quel poco  che ne  capisco  di  vini 

21.7.22

Lei, lui e l'altro ma senza segreti: con il poliamore la coppia dimentica la monogamia di Francesco Cro Psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale, Viterbo

leggi prima




Una relazione stabile con più di un partner in cui tutti sono al corrente della presenza dell'altro. Secondo una ricerca internazionale una persona su cinque sperimenta questo tipo di rapporto nella propria vita
21 LUGLIO 2022 ALLE 07:30 



La monogamia è la forma di rapporto amoroso più diffusa nelle società occidentali e in generale in tutto il mondo. Tuttavia una quota crescente di coppie sta sperimentando altri modi di essere consensualmente in relazione con più di un partner. Parliamo di poliamore, la possibilità di avere relazioni stabili con più persone. In genere c'è un partner principale e un secondo, il cosiddetto 'amante'. Ma la differenza è che tutti sono al corrente della situazione e l'hanno accettata. Non ci sono segreti. Un'utopia? Non sembrerebbe.
Secondo la psicologa americana Rhonda Balzarini, che ha coordinato una ricerca effettuata dai dipartimenti di Psicologia di varie università statunitensi e canadesi su oltre 1.300 persone impegnate in relazioni non monogame consensuali, fino a una persona su cinque sperimenta una situazione del genere nella propria vita.
Le coppie non monogame risultano ugualmente soddisfatte e coinvolte dal loro partner rispetto a quelle monogame e anche alcuni parametri come la gelosia, la frequenza dei rapporti sessuali, la longevità della coppia, il grado di felicità o di depressione non sembrano variare significativamente.
Come cambia la monogamia
Il poliamore è una forma particolare di non monogamia, nella quale i membri della coppia non sono genericamente 'aperti' ad altre esperienze sentimentali e sessuali, ma stabilmente e intensamente coinvolti in una vera e propria relazione amorosa con più di un partner, in genere due.
Talvolta i due partner vengono percepiti diversamente: c'è quello 'primario', con cui si convive (spesso è il coniuge), si condividono progetti e finanze ed eventualmente la cura dei figli, e un partner "secondario", con il quale c'è minor coinvolgimento per quanto riguarda la vita quotidiana ma c'è una maggiore intesa sessuale.
SALUTE AMORE
La gelosia tuttavia sembrerebbe essere più spiccata verso il partner primario, soprattutto per le donne, che tendono maggiormente a pensare che il loro partner primario non le ingannerebbe mai. Non tutte le situazioni di poliamore prevedono questa sorta di gerarchia tra i diversi partner, e il sesso non è sempre centrale nella costruzione di nuovi legami sentimentali fuori dal matrimonio.
Coppie stabili
La monogamia è una questione sociale e culturale ma anche biologica: alcune specie animali sono portate a formare coppie stabili che durano anche oltre l'allevamento della prole e altre no. La biologa Sue Carter, docente emerita di biologia presso l'Università dell'Indiana a Bloomington, ritiene che il comportamento monogamico delle singole persone non abbia tanto a che fare con l'amore ma più con alcuni fattori neuro ormonali specifici, in particolare variazioni individuali nella sensibilità all'azione dell'ossitocina, ormone prodotto in occasione degli stimoli affettuosi che favorisce l'attaccamento a un partner, della vasopressina, prodotta durante i rapporti sessuali e che favorisce l'aggressività maschile verso i rivali in amore, del testosterone e dei glucocorticoidi, ormoni dello stress che riducono la mascolinizzazione e favoriscono il comportamento sociale accudente.
Il conflitto interiore
La consuetudine monogamica, fondata su basi biologiche, sociali, culturali ed etiche, può rappresentare un motivo di grande conflittualità interiore per le persone coinvolte in una relazione poliamorosa e diventare una sfida anche per i terapeuti di coppia, le cui convinzioni morali potrebbero interferire con la valutazione e il trattamento psicologico delle persone impegnate in relazioni non monogamiche.
La maggior parte delle ricerche sul tema dimostra che le coppie non monogamiche possono essere altrettanto stabili e soddisfatte di quelle monogamiche. La comunicazione sincera e il consenso reciproco sono però fattori decisivi perché tutti i componenti della relazione possano raggiungere benessere e soddisfazione. In questo modo anche il problema della gelosia potrebbe essere attenuato o superato: in un'ulteriore ricerca su oltre 3800 persone coinvolte in una relazione monogama o poliamorosa Balzarini ha notato che le reazioni all'interesse del proprio partner per un'altra persona possono anche essere positive, soprattutto quando la coppia ha già attraversato un'esperienza di poliamore.
Amore mi sono innamorata di un altro
Comunicare al proprio partner 'primario' la presenza di un'altra persona può essere molto difficile, soprattutto quando la coppia è partita da una relazione monogamica e il desiderio di aprirsi ad altri rapporti riguarda solo uno dei due membri. A ricordarcelo anche il divertente film del 1969: 'Amore mio aiutami' con Alberto Sordi e Monica Vitti. Sono passati anni dall'uscita di quella pellicola, ma le cose non sono molto cambiate: in amore non accettiamo facilmente la condivisione. Vogliamo essere "gli unici", ma qualcuno però è di opinione diversa e sceglie il poliamore.
I consigli
Ma cosa fare se vogliamo prendere questa strada e temiamo di ferire chi ci sta accanto? Sarebbe opportuno comunicare quanto prima al partner il proprio coinvolgimento emotivo o sessuale in un'altra relazione, perché quanto più dura la clandestinità di un amore tanto più è difficile superare il risentimento del partner per essere stato ingannato, soprattutto se è lui a scoprirlo. La fedeltà, poi, non è esclusa dalle relazioni poliamorose: esiste infatti il concetto di 'polifedeltà', secondo il quale i membri del rapporto di poliamore sono fedeli tra di loro, differenziandosi così dalle coppie aperte e da quelle che cercano al di fuori del matrimonio gratificazioni sessuali.
La morale tradizionale non aiuta, perché la riprovazione genera sensi di colpa e può spingere a nascondere o a negare il fatto che a volte si possono realmente amare due persone contemporaneamente e che, molto più spesso di quanto vogliamo ammettere, un solo amore non ci basta.

Psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale, Viterbo

I carabinieri in alta uniforme salutano l’unione civile tra Claudia ed Elena, vicebrigadiere a Roma Elena e Claudia hanno detto il loro sì a Cefalù, provincia di Palermo


  colonna  sonora 
Hallelujah -  Jeff Buckley
L'AMORE MERITA- Simonetta Spiri, Greta, Verdiana e Roberta Pompa

 IL paese reale è ( anche se non completamente visto che ancora non c'è il matrimonio lgbt , e le unioni non valgono cioè i contraenti non hano gli stessi diritti di chi contrae matrimonio ) è più avanti della imbelle classe politica . Infatti : << .... Lo Stato maggiore della Difesa ha imposto già dal 2017 le linee guida sulle celebrazioni dei militari anche dello stesso sesso", spiega l'avvocato cagliaritano Giorgio Carta, "e l'Arma si è dimostrata più avanti di altre istituzioni: il matrimonio tra persone dello stesso sesso nn è un tabù ....  segue  su YouTG.NET - Picchetto d'onore (e colpo di sciabola) per il matrimonio della carabiniera con la sua sposa >>. E storie come quella riportata sotto presa da https://www.fanpage.it/ del 20\7\2022 sembrano dimostrarlo

Elena, vicebrigadiere del servizio radiomobile Cassia di Roma, si è unita civilmente all'imprenditrice Claudia. Il 18 luglio scorso hanno pronunciato il loro sì a Cefalù, provincia di Palermo. Per festeggiare
le due donne, i colleghi carabinieri di Elena hanno fatto un picchetto d'onore in alta uniforme. Al passaggio di Claudia ed Elena i carabinieri si sono messi sull'attenti e hanno fatto un colpo di sciabola. Tantissimi i commenti e le congratulazioni pubblicate sotto i video della cerimonia postati su Facebook. "Che belle che siete! Tanti auguri", ha scritto per esempio Anna. "Un'emozione unica e indescrivibile", ha detto Francesco. "Augurio di ogni bene futuro ‘piccola' Claudia nel cuore", le congratulazioni di Maurizio.





I carabinieri sull'attenti all'arrivo del vicebrigadiere Elena All'arrivo del vicebrigadiere, si vede nei video della cerimonia, i militari si sono messi sull'attenti sulle note del tema ‘Gabriel's Oboe' di Mission, composto da Ennio Morricone. Elena indossava l'alta uniforme dei carabinieri, mentre Claudia indossava il tradizionale abito bianco. Quest'ultima ha fatto il suo ingresso sulle note di ‘Hallelujah', il famoso
brano del cantautore Leonard Cohen.La prima unione civile gay nell'Arma La prima unione civile tra un carabiniere e il suo compagno è stata quella tra Paolo e Nunzio. La cerimonia è stata celebrata nel 2018 a San Rufo, un piccolo paesino del Vallo di Adriano. Il militare lavora nella compagnia di Castellammare di Stabia e, come Elena, anche lui ha indossato l'alta uniforma da carabiniere per pronunciare il sì insieme al suo compagno e attuale marito.


e da repubblica

Elena Mangialardo è vicebrigadiere del nucleo radiomobile della compagnia Cassia: si è unita con l'imprenditrice romana Claudia De Dilectis

Camminano sottobraccio sotto il ponte di sciabole deimilitari in alta uniforme. Lei, Elena Mangialardo, vicebrigadiere del nucleo radiomobile della compagnia Cassia, indossa l’alta uniforme dei carabinieri, la moglie Claudia
De Dilectis, imprenditrice romana che lavora al Pam, in abito bianco. Scene da un matrimonio. Le due donne si sono dette “si” il 18 luglio scorso a Cefalù, in Sicilia. IL momento
del “si” è stato accompagnato dalle note di Gabriel's Oboe di Ennio Morricone, dopo il passaggio sotto un ponte di sciabole dei carabinieri invitati al matrimonio che hanno atteso il loro passaggio mano nella mano. Una passione sbocciata a Cefalù, la città natale di Mangialardo: otto anni fa l’inizio della relazione, che il 18 luglio è stata ufficializzata con il matrimonio.

concludo  non solo augurando   ogni bene  alla  coppia  ma  anche    con  la stessa  domanda    che   si  pone  il  sito https://www.youtg.net/ (    trovate  il link  all'articolo nele riche  precedenti ) 




Non è mancato nemmeno un gesto che di recente è finito al centro delle polemiche: il colpetto di sciabola sul sedere della sposa, mentre si inchina a raccogliere il cappello dello sposo (in questo caso sempre sposa era) che un collega ha provveduto a far cadere poco prima. "Una pratica maschilista che va abolita", ha dichiarato l'avvocato Carmen Posillipo, matrimonialista del foro casertano di Santa Maria Capua Vetere, già nota per le sue battaglie in favore del rispetto delle donne.E proprio in risposta all'avvocato la pagina Facebook "Puntato, l'app degli operatori di polizia" ha pubblicato il video del matrimonio [lo  trovate  sopra  ] tutto al femminile tra la vicebrigadiera e l'imprenditrice: "Ma il gesto è maschilista anche se sono Due Donne a farlo? Arma dei Carabinieri al passo con i tempi, giustamente riconosce il diritto di amare", si legge nel testo a corredo, "Ma ora verrebbe da chiedere a quel famoso avvocato che contestava il colpo di sciabola come gesto maschilista, e se sono 2 donne a fare questo gesto?", è la domanda provocatoria. 


con  questo  è  tutto    alla  prossima   “Sperando  che tali matrimoni  ( in  realtà unioni  civili    )  sia solo un monito per tutti ad avere il coraggio di amare. e  che  diventi    normale  e  non  slo  un  fattom eccezionale .  M'auguro che tutto ciò possa servire a far vedere semplicemente la forza dell’amore nonostante tutto” questa la “chiamata al coraggio” delle due ragazze.

20.7.22

La letteratura è un lungo viaggio fra te e il mondo di nicola la goia fatto quotidiano del 19\7\2022

  canzoni consigliate

  • in quieto - Csi
  • In viaggio  - Csi

 

Vorrei provare a fare un breve elogio della letteratura attraverso la sua capacità di colmare le distanze, cioè di viaggiare. Non un viaggio fisico, ma uno stupefacente viaggio interiore.Solo che il viaggio che la letteratura ci propone (alla sua essenza) non è un viaggio fisico, ma uno stupefacente viaggio interiore. Al tempo stesso si tratta di un viaggio che avviene salendo a bordo di una scialuppa molto particolare: il mezzo di navigazione più sofisticato e veloce fino ad ora a nostra disposizione: il pensiero, la mente umana. Certo, potremmo dire che la letteratura occidentale

nasce nel nome del viaggio e della guerra. Anzi: della guerra e del viaggio, attraverso l’iliade (la guerra) e l’odissea (il viaggio). Attraverso le gesta di chi incarna l’istinto primordiale della guerra (Achille, la forza fisica) e chi incarna l’astuzia e l’intelligenza di cui deve armarsi chi intraprende un viaggio verso l’ignoto (Ulisse). Sarebbe bello poter dire (Iliade vs Odissea) che il viaggio a cui siamo destinati (il nostro vero ritorno a casa) è un viaggio iniziatico attraverso il quale siamo chiamati a mettere da parte tutta la nostra aggressività, la nostra arroganza, la nostra violenza, in modo che il ritorno a Itaca ci trovi molto diversi. Pacificati, liberi dalla violenza. Ma temo che questa sia una prospettiva molto rassicurante. La storia della letteratura è piena di viaggi pericolosi che sembrano non portare a niente. Il Viaggio al termine della notte di Céline, per esempio: un viaggio al cuore del Novecento, dove si trovano fondamentalmente guerra, colonialismo, miseria, ingiustizia. Oppure il viaggio che Conrad ci fa intraprendere in Cuore di Tenebra, lungo il fiume Congo, alla scoperta del lato più oscuro e vergognoso dell’animo umano.

Ma non è questo il cuore del problema. Non è che per far viaggiare il lettore la letteratura deve raccontare per forza di viaggi. Il viaggio, con la letteratura, viene intrapreso per il semplice fatto di aprire un libro e cominciare a leggere. “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura...” ed ecco: stiamo già viaggiando! Ma anche: “Quasi tutti pensavano che l’uomo fossero padre e figlio”. Anche qui: stiamo già in viaggio. Chi sono questi due individui che forse sono padre e figlio, ma forse non lo sono affatto ed è in questo fraintendimento che nasce il dramma? In quest’ultimo caso si tratta dell’incipit de Le notti di Salem di Stephen King.

SE CI PENSIAMO, LA SCRITTURA

è la forma più sofisticata di comunicazione tra mente e mente (o tra spirito e spirito). Prima cioè che la telepatia diventi possibile, se mai sarà possibile (o magari un giorno sarà possibile addentrarsi nella mente di un’altra persona attraverso la tecnologia), abbiamo il linguaggio. E il linguaggio letterario più che ogni altro tipo di linguaggio. Vorrei provare a spiegare com’è possibile questo miracolo: il viaggio tra mente e mente, il viaggio interiore attraverso la lingua letteraria. (...) Quando noi diciamo: “Un’intera nottata / buttato vicino ad un compagno massacrato / con la sua bocca digrignata / volta al plenilunio / con la congestione delle sue mani penetrate nel mio silenzio / ho scritto lettere piene d’amore / non sono mai stato tanto / attaccato alla vita”. (...) Quando noi recitiamo questi versi stiamo ripercorrendo mentalmente la stessa strada, o meglio stiamo doppiando gli stessi circuiti mentali, o meglio ancora stiamo facendo aderire la nostra mente (o il nostro spirito, a seconda di cosa sia la mente) alla mente di Giuseppe Ungaretti quando, l’antivigilia di Natale, nella notte del 23 dicembre del 1915, si ritrovò durante la Prima guerra mondiale sul Monte San Michele, a Cima Quattro, accanto a un compagno d’armi morto in trincea (reale o ricordato non importa), e dunque davanti alla morte, reagì in questo modo meraviglioso. Noi non stiamo semplicemente immaginando Ungaretti che mette in fila queste parole, noi siamo quella parte della sua mente che presiede a quel tipo di organizzazione del linguaggio, che a sua volta è il più fedele portatore di quelle emozioni. Il Monte San Michele è un rilievo del Carso, in Provincia di Gorizia, nel Friuli Venezia Giulia. Ma oltre che linguisticamente, immaginiamolo per un attimo anche biograficamente. Immaginiamo il Giovane Giuseppe Ungaretti, a 27 anni, che l’anti-vigilia di Natale, soldato, forse in seguito alla morte di un commilitone, su frammenti di carta recuperata esercita l’operazione letteraria suprema: dà una forma a ciò che prima non ce l’ha. Quello che è caos, dolore, solitudine, freddo, inquietudine, magari anche panico davanti al mistero insuperabile della morte (e davanti al mistero altrettanto insondabile della stupidità umana nella sua manifestazione suprema: la guerra), tutto questo nella poesia assume una forma (...). Il poeta o lo scrittore mette in una forma chiusa tutto questo informe e lo rende trasmissibile, non come si trasmette una notizia o una statistica, ma come si trasmette un sentimento, un moto dell’animo, un movimento dello spirito la cui complessità e le cui sfumature sono infinite rispetto a quelle di una semplice notizia. O di una semplice comunicazione. Ecco. Il contrario della letteratura è la comunicazione. La letteratura ci fa “viaggiare”, la comunicazione no. E tutto questo Ungaretti lo riesce a fare mettendo delle semplici parole in fila l’una dietro l'altra, tutto qui.

E tuttavia, di cosa ha bisogno, Ungaretti? Di cose molto concrete. Qui stiamo parlando di poesia, non di prosa, ma questo per dire che persino la poesia, che è in apparenza più astratta della prosa, si basa su cose molto concrete, e non restituisce mai un sentimento attraverso l’enunciazione di un altro sentimento. Rileggendo la poesia di Ungaretti c’è una scelta molto precisa delle parole che servono a contestualizzare. C’è un elemento diciamo così, cronologico, ma continuato: non una notte, ma “un’intera nottata”. E poi, “buttato vicino ad un compagno massacrato”. Ecco, in due versi c’è già un'immagine fortissima. Per un’intera notte l’io narrante giace, da vivo, accanto a un morto, che non è il suo nemico ma un suo commilitone (“un compagno”). Poi arriva il capolavoro linguistico che rende questa poesia immortale. “Con la sua bocca digrignata / volta al plenilunio”: quindi c’è lontanissima da una parte la luna piena, e della parte opposta c’è una bocca digrignata di un ragazzo morto (...) e le due cose sono messe in comunicazione tra di loro (...). La bocca digrignata di un ragazzo morto in qualche modo è in comunicazione – lo è per noi che leggiamo – con la luna, cioè con un satellite che sta oltre l’atmosfera, con un astro freddo e luminoso. “Con la congestione delle sue mani penetrate nel mio silenzio”. Quindi le mani gonfie e livide per il ristagno del sangue (una cosa concretissima) sono penetrate in una cosa pure in un certo senso concreta ma intangibile (“il mio silenzio”). E poi, dopo tanta torsione linguistica, c'è la liberazione molto semplice, quasi naif: “ho scritto lettere piene d’amore / non sono mai stato tanto / attaccato alla vita”.

Voi pensate la potenza del linguaggio poetico, che da una fredda notte del 1915, oltre 100 anni fa (tra le dita di un ragazzo che scriveva, in cima a un rilievo, l’antivigilia di Natale), ha fatto un viaggio di 100 anni e di alcune centinaia di chilometri (o di migliaia di chilometri se fossimo in Cina) per ricalcare nelle nostre menti capaci di leggere il linguaggio, e compiere lo stesso percorso che seguì la mente del giovane Giuseppe Ungaretti.

Presto sapremo chi siamo: a questo serve (forse) la letteratura. Molto spesso, nella nostra vita, non ci ritroviamo più. Molto spesso la nostra parte più autentica, il nostro nucleo irriducibile è lontano anni luce da dove siamo noi. La letteratura può forse, certe volte, consentirci di intraprendere questo viaggio, di colmare cioè la distanza (a volte enorme) che ci separa da noi stessi. Ecco: adesso siamo davvero pronti al viaggio.

Sardegna, a 90 anni fanno la loro prima gita in mare Una coppia di Galtellì in gommone nel Golfo di Orosei: "Grotte e spiagge meravigliose, mi sono già prenotata per la prossima escursione"




ROMA - Sono nati e cresciuti a Galtellì, un paese a pochi chilometri dal mare nel Golfo di Orosei, nella costa centro orientale della Sardegna, ma non avevano mai fatto un giro in barca per ammirare la costa.Il desiderio montava da tempo in Antonietta Cambone, 83 anni, e così la donna ha trascinato il marito, Giuseppe Chessa di 90 anni, in una bellissima avventura in gommone tra le spiagge e le grotte del Golfo."Ho dovuto aspettare prima di realizzare il loro desiderio. Le condizioni del mare dovevano essere ottimali, data la loro età", ha raccontato all'Ansa Giuseppe Chessa junior, il nipote, che noleggia imbarcazioni a Cala Luna. "La nonna era quella più impaziente, il nonno era riluttante anche se alla fine delle tre ore di navigazione anche a lui brillavano gli occhi".

Nonna Antonietta e nonno Giuseppe, 60 anni di matrimonio, hanno otto figli, dodici nipoti e cinque pronipoti. Antonietta Cambone è figlia di un pescatore, suo padre negli Anni Sessanta realizzava le capanne in frasca nella spiaggia dove la famiglia trascorreva l'estate. "Avevo voglia di conoscere la costa ed è stato meraviglioso quello che ho visto - racconta -, siamo stati nelle Grotte del Bue Marino, nella spiaggia di Cala Luna e a Cala Sisine, dove ho visto paesaggi da sogno. Mi sono già prenotata per il prossimo viaggio perché vorrei arrivare fino ad Arbatax".

Dice, ancora: "Alla nostra età con la volontà si può fare di tutto. Io coltivo l'orto e mi sto preparando per vendere i dolci e i liquori che confeziono alla Notte bianca di Galtellì".

Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto Marotta&Cafiero

 

Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto

Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto
Il volume pubblicato da Marotta&Cafiero Editori sarà presentato sabato 11 giugno alle ore 18 a Palermo nel corso di Una Marina di libri a Villa Filippina


09 GIUGNO 2022 ALLE 19:53 2 MINUTI DI LETTURA





Quel 19 luglio, in via D’Amelio, esattamente trent’anni fa, le vittime non furono sei. Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, certo. Ma non soltanto loro. Perché a distanza di un migliaio di chilometri, in uno squallido appartamento del quartiere Tuscolano, quel giorno cominciò a morire anche una ragazzina trapanese di nemmeno 18 anni, figlia e sorella di mafiosi uccisi nella terribile faida di Partanna, che a Borsellino aveva affidato la sua vita di collaboratrice di giustizia. Si chiamava Rita Atria, il 19 luglio del 1992 capì che per lei non c’era più alcun futuro.
“Io sono Rita, la settima vittima di via D’Amelio”, pubblicato da Marotta&Cafiero Editori, la casa editrice indipendente open access di Scampia, non è soltanto un libro che ripercorre il calvario di quella ragazzina, fuggita dalla sua famiglia, da una madre che la voleva chiusa in casa, un fidanzato spacciatore nelle mani della mafia, gli sguardi di un paese che non sentiva più suo. No, si tratta piuttosto di una contro-inchiesta giudiziaria fatta sulle carte ingiallite della Procura che, finalmente, sono venute fuori grazie alla determinazione di tre donne: Giovanna Cucé, giornalista del Tg1, Nadia Furnari, fondatrice e vicepresidente nazionale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e Graziella Proto, direttrice della rivista antimafia Le Siciliane/Casablanca.

Rita Atria Documenti e verbali inediti e una serie di dubbi sui quali, con ogni probabilità, regnerà per sempre il mistero. L’unica impronta ritrovata nell’appartamento del Tuscolano e mai nemmeno comparata con quelle di Rita dopo il suicidio della ragazza avvenuto il 26 luglio del ’92, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. L’agendina di Rita, con tanti numeri “sensibili”, fatta sparire con una semplice richiesta - senza un nome né un cognome - al magistrato incaricato dell’inchiesta quando la giovane trapanese era ancora all’obitorio dell’ospedale, i suoi spostamenti senza protezione, i venti giorni in un liceo classico della capitale dove era stata trasferita dall’Alto Commissariato antimafia, le indagini sulla morte della ragazza chiuse – forse – un po’ troppo in fretta.
Non ci sono accuse ma solo una minuziosa ricostruzione di quella settimana terribile conclusa con quel corpo che si lascia cadere dal settimo piano di una palazzina anonima del Tuscolano. Dove, peraltro, Rita era riuscita a trasferirsi solo da qualche giorno, dopo aver convissuto per mesi con la cognata Piera Aiello – oggi parlamentare – anch’essa collaboratrice di giustizia dopo l’uccisione del marito Nicola.
“Se dovessi morire non devi piangere, anzi, brindare, perché, finalmente, raggiungerò le persone che ho veramente amato, mio padre e mio fratello”, è il saluto inaspettato che Rita rivolge a Piera quando gli agenti la accompagnano nella sua nuova – ultima – dimora di via Amelia. “Ho preso una decisione importante, ma non posso dirti niente, te lo dirò al tuo ritorno”.

Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto “Ci sono storie che non sbiadiscono, storie che racchiudono in sé tutti i fotogrammi di una tragedia antica ed al contempo raccontano anche la nostra triste attualità – scrive nella prefazione del libro Franca Imbergamo, sostituta procuratrice nazionale antimafia - La storia di Rita Atria, la ragazza che ancora minorenne raccontò a Paolo Borsellino ed alle sue sostitute procuratrici, i segreti della mafia di Partanna, è in realtà un percorso dentro la vita di una famiglia mafiosa e di un’intera società”.
“Questo libro, scritto con autentica sincerità ed impegno civile – continua Imbergamo - ci porta a conoscere uno spaccato di vita siciliana, ci rende visibile l’essenza del dominio mafioso. Ed è anche la storia della passione di chi mette in gioco tutto in solo momento, quello della decisione di collaborare. Una passione che la porterà ad un gesto terribile, un esito tragico maturato nella solitudine vergognosamente inflitta ad una ragazza non ancora maggiorenne senza che le istituzioni chiamate a proteggerla si fossero curate della sua fragilità e della necessità di adeguato sostegno”.

Il libro



Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio

di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto

Marotta&Cafiero

18.7.22

Nessuno pagherà per la strage di via D’Amelio, ma l’Italia è troppo scossa dal dramma Totti-Blasi per indignarsi

  leggi prima 
Il 1992 è in balia della corrente, si allontana lento ma inesorabile, trascinando nell'oblio tutti i misteri di uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica.

“Non parteciperemo agli anniversari di via D’Amelio. Ci asterremo fino a quando lo Stato non ci spiegherà cos’è accaduto davvero“. Così Fiammetta Borsellino, figlia del giudice assassinato insieme alla sua scorta, ha annunciato la volontà di disertare tutte le cerimonie previste in ricordo del padre. Avreste il coraggio di darle torto? A maggior ragione ora, che da poche ore il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse per due dei tre poliziotti imputati di aver depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio. I due, accusati di calunnia con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, avrebbero indotto e forzato le false confessioni di Vincenzo Scarantino, l’uomo che nel 1992 mentì sulla sua partecipazione all’attentato, dando luogo a un depistaggio che avrebbe portato alla condanna di persone innocenti.
In altre parole, come troppo spesso accade, anche stavolta nessuno pagherà. Vite e destini annientati da quella prescrizione che nessuno, dalle parti di Roma, ha mai avuto davvero intenzione di riformare.“A parte che ho ancora il vomito per quello che riescono a dire, non so se son peggio le balle oppure le facce che riescono a fare“. Così dice Ligabue e noi conosciamo fin troppo bene che tipologia di faccia occorra per riempirsi la bocca di Falcone e Borsellino, per sfoggiarli su t-shirt e mascherine, per poi sostenere un referendum come l’ultimo aberrante sulla giustizia.
Una chiamata alle urne dove (alla faccia di chi proprio come Borsellino diceva che “un politico in odor di mafia, anche se non condannato, non va candidato“) sono stati in grado di chiederci di abolire la legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza da ruoli politici per le persone condannate, tra gli altri, proprio per reati di mafia e terrorismo.
E anche se non è andata come lor signori avrebbero voluto, non possiamo spacciare per una nostra vittoria il mancato raggiungimento del quorum. Dei leader politici veri, degni di questo nome, non avrebbero mai strizzato l’occhio all’astensionismo, ma invitato apertamente e senza paura a votare contro, toccando le corde giuste. Un Paese con un minimo di memoria storica avrebbe dunque sotterrato il quesito sulla Severino sotto milioni di “no”, in onore degli eroi che hanno dato la propria vita nella lotta alla criminalità organizzata e alle sue perverse ramificazioni nei palazzi del potere.
La sete di verità da noi è fonte inesauribile di frustrazione, la ricerca di giustizia in Italia è un’eterna lotta contro i mulini a vento, dove chi vuole sopravvivere spesso deve farlo da solo, destreggiandosi tra menzogneri di professione, politicanti da passerella e indifferenti cronici. E ogni 23 maggio, così come tutti i 19 luglio, sfumano i confini tra social e vita reale: su quella passerella tanto cara a chi si nutre di salotti, voti e sondaggi, a sfilare, puntuali, sono sempre e solo parole vuote, quelle dal like facile. Dai microfoni e dagli smartphone sgorgano i soliti patetici appelli a “non dimenticare”, quelli con scadenza a 24 ore.
Il 1992 è in balia della corrente, si allontana lento ma inesorabile, trascinando nell’oblio tutti i misteri di uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica. 30 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio: avremmo potuto, avremmo dovuto presentarci meglio a questo triste appuntamento. C’era chi nutriva una speranza, c’era ancora chi aspettava una sentenza che restituisse dignità al dolore di appartenere a un Paese che continua imperterrito a nascondere la parte migliore di sé.
Non tutti sanno che subito dopo l’attentato, Lucia Borsellino, l’altra figlia di Paolo, volle a tutti i costi vedere ciò che era rimasto del padre e che non si limitò a questo. Decise di ricomporlo e infine lo vestì all’interno della camera mortuaria. Poche ore dopo avrebbe sostenuto un esame universitario, lasciando incredula l’intera commissione.Dobbiamo ammetterlo. Avremmo un po’ tutti bisogno di mettere da parte, anche solo per un attimo, la separazione tra Totti e Ilary Blasi o le avvincenti lezioni di una perfetta sconosciuta che vuole insegnarci a parlare in corsivo e ritrovare quella voglia di saperne di più. Di mettere insieme i pezzi mancanti, di focalizzarci sugli “influencer” che contano davvero, semplicemente di imparare dalla dignità disarmante e dalla forza di Lucia Borsellino.

come i social ti fanno morire e resuscitare

foto  simbolo 
 L’altro giorno è successa una cosa strana. Sull'acount FB di una mia compaesana  ho letto un messaggio in cui dei suoi  "amici "  (    capirete  leggendo il perchè uso le  virgolette    ( dicevano che lei aveva avuto un grave incidente e che era in terapia intensiva. Sulla sua pagina Instagram invece c’era un video di una macchina cappottata con la scritta  *****is dead” ( ***** è morta). Ho pensato che si trattasse di un hacker-cretino, ma pur sempre hacker perché, mi sono detto, una persona non può avere degli amici così stupidi che su Instragram la danno per morta, su Facebook la danno per quasi-morta. O se  li ha    sono delle merde   come  quelli che   anni  fa   mi  chiesero il cell  per  giocare  e  poi  mandavano messaggi  di  pessimo gusto ad  i miei  contatti  , ma  questa  è un altra  storia 
Non avendo    il suo numero   e   la  vedo sempre  meno  visto  che   s'è  trasferita  nella penisola    per  lavoro  mi  sono spaventato      tsnto  che stavo per  contattare  la madre  e    chiedere  informazioni  . Ma  poi   ho preferito aspettare   perchè  è meglio   che lo  sappiano da  fonti ufficiali che    dal web  .  Nel frattempo, sotto il post di FB qualcuno la incoraggiava a riprendersi, qualcuno, scettico, provava a chiedere informazioni più dettagliate circa il suo ricovero per accertarsi che il post fosse veritiero. Io mi sono comportata da spettatrice, però in effetti è stata una notizia che mi ha tenuta impigliato e  preocupato  per un paio d’ore.Fino a  quando  on  è  intervenuta la  vera  lei   a  spiegare    il tutto .  La verità ? Lei ha veramente avuto un incidente, la sua macchina si è veramente cappottata, ma non è morta né finita in terapia intensiva.  ha   solo  avuto  uno  " schiaffo    dall'aiberg  " . Qualche ragazzo o adulto, chissà, ha ben pensato di entrare nella sua macchina cappottata, rubarle il cellulare e cominciare a diffondere false notizie attraverso i social, sia in pubblico, sia privatamente a familiari e amici. Che vivessimo in un mondo malato già si sapeva prima che la macchina di **** si cappottasse, ma a me vengono i brividi  e m'incazzatura   se penso che qualcuno (maschio o femmina, grande o piccolo) abbia potuto fare una cosa del genere: rubare il cellulare a una donna,  in questo caso ,  che è dentro una macchina cappottata e utilizzare i suoi profili per diffondere falsità sul suo stato di salute, arrivando addirittura a inviare in privato foto di lei dentro la macchina cappottata dicendo che fosse morta. Saranno stati ubriachi? Drogati? Annoiati? Probabile.Ma più che ubriachi drogati annoiati io li chiamerei con il loro vero nome: dei gran pezzi di merda a cui nessuno ne   genitore  ne  prof  ha insegnato la differenza fra vita reale e virtuale, tra videogiochi e realtà. La vogliamo chiamare “una ragazzata”? No. Una ragazzata è quando passi per le vie a suonare i citofoni e te ne vai. Una ragazzata è quando metti il dentifricio in faccia a un tuo amico che dorme. Una ragazzata è una chiamata anonima simpatica. ecc Questo è un gesto criminale che ha tenuto con il fiato sospeso i familiari e gli amici stretti di ****. e, devo dire, un po’ in pensiero anche me che non sono  cosi  intimo   \  stretto  con lei. Mi son chiesto quale possa essere la punizione esemplare per questi esserini che, dopo qualche ora di divertimento a scapito di persone che stavano rischiando un infarto, hanno buttato il cellulare da qualche parte con la spocchia di chi sa che la farà franca.Non so quale sia la punizione esemplare: forse qualche giorno in terapia intensiva da spettatori? Forse degli schiaffi? Non lo so, non sono un giudice e   non  mi va   d'esserlo .So solo che più mi guardo attorno e più credo fermamente che la vera pandemia che stiamo vivendo è quella legata all’uso malato e  acritico degli smartphone, dei social, di questo calderone di finzione  \  realtà, interessi, passioni, autobiografie, minchiate e buongiornissimi caffè ,e  buonattitssime ,   gattini  ., ecc .****  come  dicevo prima  , sta bene, ha preso solo uno schiaffo dall’airbag e se l’è cavata con un grande cerotto: morta e risorta più velocemente di Gesù Cristo! Per fortuna la realtà ci ha regalato una bella notizia quando ancora gli schermi mentivano.


17.7.22

Morto dopo aver salvato un amico rivive la storia del minatore Rassu . La tragedia avvenne nel 1960 a monteCanaglia. argentietra ( sassari ) Consegnata una medaglia al figlio

  dalla nuova  sardegna  del 17\7\2022

L’11 aprile del 1960 Dionigi Rassu e Gavino Milia entrarono in una galleria della miniera di Canaglia per liberarla dai detriti causati da alcune esplosioni Milia si sentì male per via delle esalazioni Fu salvato dal collega Rassu, che invece morì poco dopo La loro storia è stata raccontata in un incontro all’Argentiera. 
 Il convegno «Argentiera, una miniera di ricordi», promosso dal presidente del consiglio 
comunale Maurilio Murru, ha richiamato numerose persone. I relatori sono stati due figli di 
Nella foto grande Maurilio Murru con Angelo e Costanza Rassu
Accanto Dionigi Rassu
minatori: Gianfranco Madarese, che ha parlato della figura del minatore, e Claudio Demontis, che si è concentrato sugli aspetti sociali della vita dei minatori, sull'organizzazione del lavoro e sul concetto di “famiglia”. «È stato un incontro particolarmente bello e commovente – commenta Maurilio Murru –. La nostra intenzione è quella di lavorare sull’identità dell’Argentiera e della vita in miniera.
 Una vita che voleva dire sofferenza e fatica. Ci   siamo concentrati anche sull’aspetto sociale di quella realtà. Credo proprio che quella di  venerdì sia solo la prima iniziativa di questo genere, ne organizzeremo altre». Presente  all’Argentiera anche l’assessora comunale alla Cultura, Laura Useri, mentre il sindaco Nanni Campus non ha potuto partecipare per via di un di un impegno. Presente, tra gli altri, anche Mario Antonio Faedda, primo cittadino di Olmedo

 Sassari  
Il buio profondo e opprimente della terra appare come il punto più vicino all’inferno. La testa che scoppia, le gambe che tremano, le orecchie che avvertono soltanto un fischio affilato e continuo: nell’oscurità di una galleria della miniera di Canaglia, Gavino Milia è ormai allo stremo. Ma con lui c’è un collega, Dionigi Rassu, che nel corpo conserva ancora un po’ di energie: così prende l’amico per un braccio, lo tranquillizza, lo aiuta ad arrampicarsi sulle scale che portano verso l’uscita del tunnel. Gavino Milia, raggiunta la pensilina su cui poggia la scala superiore, a un certo punto perde i sensi:
da  https://www.sassarioggi.it/sassari
sviene, ma si salva. Invece Dionigi Rassu  (  foto a  sinistra  ) , dalle profondità di Canaglia, non uscirà vivo. Le esalazioni di gas prodotte dalle esplosioni di alcune mine non gli lasciano scampo. E così muore da solo, senza che nessuno possa in qualche modo dargli una mano. È l’11 aprile del 1960 e alla lunga storia delle miniere si aggiunge il capitolo nero di una nuova tragedia. Un fatto che venerdì sera, a 62 anni di distanza, è stato raccontato nei dettagli in un incontro organizzato nella miniera dell’Argentiera davanti a un pubblico composto in particolare da familiari di minatori. E per  l’occasione c’erano pure loro, i figli di Dionigi Rassu e Gavino Milia, stretti in un grande abbraccio che ha commosso chi ha ascoltato in gran silenzio la storia dei loro padri. Il ricordo È stato il presidente del consiglio comunale Maurilio Murru a organizzare il convegno «Argentiera, una miniera di ricordi». Un modo per raccontare la storia delle persone che hanno lavorato in miniera e della comunità che ruotavano attorno. E così si è parlato anche di Dionigi Rassu, originario della frazione sassarese La Pedraia, morto dopo aver salvato un collega. Insieme erano entrati in una galleria della vicina miniera di Canaglia per liberarla dai detriti causati dallo scoppio di alcune mine. Le esalazioni, però, furono fatali. Rassu morì a 34 anni lasciando così una moglie di 29 anni, Natalina Zingo, e sei figli: Lorenzo, Angelo, Graziella, Costanza, Antonio e Amelia,
il primo di 10 anni e gli ultimi due, gemelli, di neanche uno. «Ai tempi avevo 7 anni, quindi ho pochi ricordi di mio padre – racconta uno dei suoi figli, Angelo Rassu, presente all’iniziativa di venerdì –. I miei familiari, però, mi hanno sempre parlato di lui. Era un grande uomo, volenteroso e altruista. Mi sono emozionato nel vedere tutta quella gente all’Argentiera. Tanti parenti di minatori proprio come me. Ringrazio Maurilio Murru e tutta l’amministrazione per aver organizzato un convegno così importante per noi». L’incontro E infine il momento più toccante. Nel corso del convegno di venerdì all’Argentiera, Angelo Rassu, insieme alla sorella Costanza, ha anche incontrato Salvatore e Nino Milia, i figli di Gavino, il minatore che Dionigi Rassu salvò poco prima di morire asfissiato nella galleria della miniera di Canaglia. «È stato un momento ricco di emozioni – confessa Angelo Rassu –. Rivedersi lì, in una miniera, per ricordare quella tragedia: mi ha fatto un certo effetto. Sono grato a tutti». All’Argentiera il presidente del consiglio comunale, Maurilio Murru, ha raccontato passo dopo passo la storia dei due minatori basandosi basandosi sulle cronache di  allora, pubblicate sulle pagine della Nuova Sardegna. E poi, durante la serata, ha anche consegnato ad Angelo  Rassu una medaglia in memoria del padre Dionigi e, simbolicamente, in ricordo di tutti i lavoratori che, nelle  oscurità delle miniere, hanno  lasciato  la  vita 

BIBLIOGRAFIA
"L'ARGENTIERA il giacimento, la miniera, gli uomini" di Luciano Ottelliqui alcuni estratti 

Quando il make-up diventa uno strumento di empowerment femminile, la storia di Beatrice Gherardini

 Fin ora   credevo che il  trucco cioè il make  up femminile  (  ovviamente  non  sto  vietando  niente  ogni donna   è libera  di  fare  qu...