27.2.23

Scandalizzano gli scatti con la De Filippi davanti alla bara di Costanzo: ma il selfie è ormai strumento quotidiano di molestia collettiva e caduta di civiltà

Lo so ho già parlato dei selfie della De flippi nel mio precedente post : << Io la conoscevo bene cosi starà dicendo da dov'è Costanzo di sua moglie >> e dovrei guardare oltre ed andare avanti, insomma parlare  d'altro   . Ma 



  l'articolo      di  https://www.open.online/2023/02/26/  che trovate  sotto    è  la  risposta  che  avrei  voluto  dare     rispetto  a  quella  che  ho dato  a    Daniele  .  qui  la  discussione  avuta  su  fb  


Celeste Addis
Maleducati ...irrispettosi...vergognosi...lei gentilissima ...quando provi un dolore forte e sei al funerale con tantissima gente...prendi le condoglianze come un automa ...
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Meno scandaloso ma altrettanto tossico è tartassare un calciatore alle sette del mattino imponendogli centinaia di autoscatti, fotografare il grande regista mentre lava le mani in bagno o rincorrere sotto l’ombrellone la velina di turno

La a notte in cui il selfie smette di essere un innocuo giochino personale e diventa un potente strumento di comunicazione di massa (e di molestia, come spiegheremo in questo pezzo) è quella del 3 marzo 2014, quando alla premiazione degli Oscar la presentatrice Ellen DeGeneres riunisce le star di Hollywood per un autoscatto e trasforma quella foto nell’inizio di un nuovo mondo. Da quel giorno, il selfie più condiviso della storia apre le porte a una nuova abitudine sociale: la foto con la star. Non è l’unico utilizzo dell’auto scatto, i selfie sono diventati un momento che ormai immortalata qualsiasi fase, ricorrenza o incontro della nostra vita, ma è certamente quello più tossico, invadente e corrosivo. Alzi la mano chi non ha chiesto, almeno una volta nella propria vita, a un personaggio famoso di fare
una foto insieme. Un gesto apparentemente innocuo e, soprattutto, considerato dovuto. Quei pochi “famosi” che rifiutano lo scatto vengono bollati come maleducati, presuntosi e ingrati.
Chi scrive ha avuto occasione, una mattina, di assistere a un frammento della vita di Francesco Totti in aeroporto. In attesa di imbarcare per un volo, si generò una fila di oltre 100 persone, ognuna armata di cellulare, e il paziente campione ha fatto tutta la trafila del check in sorridendo con degli sconosciuti; la fila è ricominciata dopo il decollo, in aereo, e all’arrivo è stata la stessa cosa. Quella scena mi ha consentito di visualizzare un concetto tanto banale quanto poco chiaro ai maniaci del selfie: non è “solo una foto”, è una forma di molestia pesante, ripetuta e invadente nella vita dei personaggi famosi, che si sottopongono ogni giorno a questa gogna solo per evitare di essere travolti dalle accuse di “tirarsela” troppo. Una perversione tanto molesta quanto inutile – cosa te ne fai di una foto estorta controvoglia a una persona che non ti conosce? – che non conosce sosta neanche davanti alla morte, come abbiamo scoperto in questi giorni quando degli incauti forsennati del selfie hanno chiesto a Maria De Filippi di fare una foto dentro la camera ardente di Maurizio Costanzo.

Da Sassoli a Pelè, la molestia collettiva

Una scena che ha fatto sollevare cori di critiche, tanto compatte quanto smemorate: ci siamo già dimenticati di cosa accadde quando scomparve il povero David Sassoli, con i politici impegnati a farsi i selfie nella camera ardente, oppure la triste scena dei vertici del calcio mondiale impegnati a farsi la foto con la bara di Pelè. E soprattutto queste critiche non hanno colto nel segno, perché si sono limitate a criticare non tanto la molestia del selfie, quanto – più semplicemente – la scelta del momento in cui è stato chiesto lo scatto. Dimenticando che è meno scandaloso, ma altrettanto molesto, tartassare di foto un calciatore alle sette del mattino imponendogli centinaia di autoscatti, fotografare il grande regista mentre lava le mani in bagno o rincorrere sotto l’ombrellone la velina di turno e così via. Insomma, bisognerebbe cogliere lo spunto da questa vicenda per affermare un concetto: i selfie con i vip sono sempre una forma di molestia collettiva, non ci sono sono selfie buoni e selfie cattivi, e bisogna avviare una campagna di opinione per farla finita con questa abitudine tossica. Può sembrare una piccola cosa, ma ogni forma di maleducazione collettiva genera fenomeni negativi, come dimostrano le foto scattate nelle camere ardenti, che abbassano il livello medio di civiltà di una comunità.

26.2.23

Io la conoscevo bene cosi starà dicendo da dov'è Costanzo di sua moglie

Non so cosa pensare, nonostante la mia sempre più crescente avversione, verso il genere umanoide ed ( me stesso compreso ) Ma non solo dell'idiota che chiede il selfie, pure di una vedova che, anziché cappottarli con un manrovescioo un calcio in 🤬😡😠🤧😤 , si presta all'abominio.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 3 persone e il seguente testo "CORRIERETV > AUN I fan chiedono i selfie a De Filippi mentre è alla camera ardente Le immagini dal Campidoglio"


per  chi  non  ci  crede  o  dice   : <<  Ma siamo sicuri che si sta facendo un selfie? forse non è l'unico caso? forse non sono informata. Ma può essere che le sta facendo vedere qualcosa?



per chi non  crede  o  afferma  : <<  Ma siamo sicuri che si sta facendo un selfie? forse non è l'unico caso? forse non sono informata. Ma può essere che le sta facendo vedere qualcosa ? >>  ecco la  prova    da  due  dei  più grandi  quotidiani italiani  








Premesso che non amo la De Filippi, così come non ho mai stimato Costanzo, a questi due esemplari di idioti adulti armati di telefonino, toglierei nell'ordine: il diritto di parola, il diritto di voto, la patente, la carta di identità, il diritto all'utilizzo dei mezzi pubblici, il diritto alla sanità pubblica ad esclusione della neuro. Li metterei su un pedalò e li abbandonerei nel triangolo delle Bermuda. Senza acqua, viveri e bussola. E se riuscissero a toccare terra, ce li riporterei sabotando il natante.
Quindi mi chiedo ma come tuo marito è morto da poco e ti fa fare i selfie o non sei lucida o non te ne frega niente . non so quali delle due ipotesi prendere in considerazione

Ma credo che la risposta più efficace sia quellla del mio utente Renato Montesano

Come era quel film? Ah sì, " Io la conoscevo bene"

Marco Carta, olbiese trapiantato a Verona e l’attenzione particolare per l’ambienteLa sua innovativa fabbrica di detergenti ha sistemi che riducono l’utilizzo di plastica

 «Con Mr.Carta 100 per cento Eco lancio la sfida alle multinazionali»

Olbia
Marco Carta da Olbia ha avuto tante vite. Se si vuole dividere in modo più semplice, il primo tempo è finito a 40 anni. Quando si è dimesso da manager in una multinazionale. «Lì è stato fischiato
l’intervallo, poi è iniziato il secondo tempo». Dalla candeggina in pastiglie all’ultima impresa, con il lanciò di una linea di detergenti plastic free. L’olbiese Marco Carta, 52 anni, fondatore di Smapu Group, azienda con sede a Verona specializzata nella produzione di beni di consumo nel settore della detergenza, igiene casa e cura della persona, con la nuova linea “Mr. Carta 100% Eco”, ha ufficialmente lanciato la sfida sugli scaffali dei supermercati alle più grosse multinazionali del settore. L’azienda, con meno di dieci anni di attività, compete con gruppi storici della distribuzione, già nel 2016 la candeggina in pastiglie Smapiù è stata eletta prodotto dell’anno, battendo la concorrenza agguerrita dei più importanti marchi del settore. Oltre la candeggina in pastiglie, realizzata in diverse profumazioni e formati, nello stabilimento veronese di Marco Carta si producono additivi e smacchiatori per bucato, sgrassatori per cucina e prodotti per il Wc, anticalcare, profumatori,

disinfettanti. Negli ultimi mesi del 2022 è stata lanciata una nuova linea dedicata al mercato del Pet, ma soprattutto è stata realizzata la prima linea di detergenti senza plastica con imballo esclusivamente di carta. «Il nostro piccolo barattolo di candeggina da 40 pastiglie è l’equivalente di un flacone di 5 litri di candeggina liquida e consente per ogni acquisto un risparmio di 500 grammi di plastica – racconta Carta –. Avendo prodotto e commercializzato circa 4 milioni di pezzi, questo sistema ha fatto risparmiare solo negli ultimi 3 anni 2 mila tonnellate di plastica al nostro pianeta, il nostro impegno è volto a migliorare l’ambiente che ci circonda, e oggi grazie al nuovo imballo Mr.Carta 100%Eco la plastica verrà totalmente eliminata». Gioventù olbiese Così il secondo tempo inizia a 40 anni, senza dimenticare la gioventù vissuta ad Olbia. «Sono legato a Olbia da splendidi ricordi, i compagni di bAsket, i tanti amici d'infanzia, i compagni di scuola, con i quali ancora oggi conservo uno splendido rapporto di complicità – racconta Marco Carta –. Figlio di Nicola e Giorgina, gli storici segretari del liceo Scientifico “Mossa” e del Classico “Gramsci”, oggi ottantenni, che vivono a Olbia, ho frequentato le scuole elementari a San Simplicio vicino alla casa dei miei nonni, le medie alla Pais e il diploma all’istituto Tecnico “Deffenu”. Dopo gli studi universitari in materie economiche e i master in comunicazione e marketing, sono arrivato a ricoprire importanti posizioni manageriali nel marketing di imprese conosciute e di riferimento nei loro settori». È stato a capo della direzione marketing di multinazionali del largo consumo, lavorando a Milano, Roma, Treviso e infine a Londra. Dopo quindici anni da dirigente si dimette, nel 2014 fonda Smapu Group realizzando i marchi Smapiù, AntesWC e oggi Mr.Carta 100% Eco. Il libro Ora la scelta di raccontare questa seconda vita in un libro intitolato “da Marco Carta a Mr. Carta”, dove rivela i segreti per aprire gli occhi davanti agli scaffali dei supermercati e anche la sua storia, l’infanzia, piazza Regina Margherita, l’epoca dei paninari, gli storici matinée in discoteca al “Nuovo Parco”, le serate invernali al Capricorno, le notti estive al Tartarughino, alla Bomboniera e al Sottovento. «Il libro racconta dei falsi miti della sostenibilità, dell’innovazione dell’industria del largo consumo, degli scaffali dei supermercati, delle multinazionali, di come le pubblicità condizionano quotidianamente le nostre coscienze – spiega – ma anche delle abitudini del consumatore e la mia sfida con la prima linea di detergenti senza plastica». Con Mr. Carta 100% Eco l’olbiese ha voluto sfidare l'abitudine, le credenze più radicate: per la prima volta, infatti, un packaging totalmente in carta racchiude detersivi in pastiglie di ogni genere. Quello per la candeggina ha ricevuto nel 2022 il premio per l’innovazione alla Plma di Amsterdam, la più importante fiera internazionale largo consum0

24.2.23

COME SI COMBATTE L'ODIO PER LE DONNE DIFFUSO ATTRAVERSO I SOCIAL? di Marisa d'amico

 

   Antefatto



sono diversi elementi che caratterizzano la terribile vicenda di Giovanna Bonsignore. La ferocia con cui l’uomo si è accanito contro la vittima, colpendola con decine di fendenti. Un evidente movente di genere. Il suicidio dell’uomo. E, ancora, la circostanza che, sui social network, attraverso alcuni post e contenuti minacciosi nei confronti della vittima, proprio l’omicida avesse manifestato in modo evidente un’indole pericolosa. Quest’ultimo elemento è denso di implicazioni: sempre più spesso le immagini e le comunicazioni diffuse nel mondo del web contribuiscono a creare un clima ostile alla parità di genere, creando dei veri e propri incubatori di violenza. A partire dal 2015 l’associazione Vox Diritti ha promosso un progetto, “La Mappa dell’Intolleranza”, con l’obiettivo di monitorare la diffusione dell’odio, in particolare su Twitter, nei confronti di alcuni gruppi tradizionalmente discriminati. In tutte le edizioni del progetto, le prime vittime dell’odio su Internet sono sempre state le donne. Nel 2021, ad esempio, il 49% dei messaggi esaminati presentava un risultato misogino. Simili dati confermano come la discriminazione di genere sia quella maggiormente radicata nella nostra cultura, riflettendosi nel linguaggio quotidiano e diventando pubblica sulle pagine dei social. Inoltre, l’odio online contro le donne presenta sempre più spesso una dimensione molteplice, agendo in ragione di più fattori di discriminazione: non sono più colpite solo le donne in quanto donne, ma le donne-ebree, le donne-islamiche, le donne-con disabilità e le donne-straniere. In aggiunta, le donne non sono più attaccate esclusivamente in ragione del loro aspetto "fisico (il cosiddetto “body shaming”), ma vengono prese di mira, quasi per paradosso, a causa delle competenze professionali e lavorative. In questo contesto, per prevenire la violenza, è allora necessario, oltre che assolutamente urgente, attivarsi a tutti i livelli, pubblici e privati, per favorire la diffusione, non solo online, di messaggi rispettosi della dignità della donna. È un impegno coerente con quanto messo in evidenza dalla Convenzione di Istanbul, la quale sottolinea la profonda connessione tra ogni tipo di comunicazione sessista e ogni tipo di violenza di genere.

Maria  d'amico  
 ordinaria di Diritto costituzionale Ha fondato l’Osservatorio violenza sulle donne” all’Università Statale di Milano

23.2.23

Medicina e nuove frontiere le scoperte di Enrico pretetto biologo rocker

 da  la  nuova  sardegna  del  23\2\2023

Medicina e nuove frontiere le scoperte del biologo rocker Enrico Petretto, sassarese, lavora
a Singapore alla Duke-Nus Medical School Con il suo team ha isolato il gene che “aggiusta” le patologie cardiovascolari

Il chitarrista sul piccolo palco fa vibrare le corde della sua Fender e oscilla avanti e indietro sull’assolo di Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Il pubblico di questo locale pieno di elementi di varia umanità
applaude con convinzione, mentre il musicista riemerge lentamente dall’estasi melodica e scambia uno sguardo d’intesa con un gruppo di coetanei seduti in un tavolo in prima fila. Singapore, tarda serata di un weekend come tanti, all’Heart Rock si esibisce uno dei soliti gruppi. Musica rock, pezzi conosciuti di gruppi molto famosi. Il chitarrista non è Jimmy Page, ma da queste parti il suo volto non è nuovo. Non solo perché ha già suonato in questo locale. Biologo in carriera Enrico Petretto ha 50 anni, viene da Sassari e in queste settimane il suo volto è passato in tv su uno dei canali più seguiti dell’intera Asia perché nella sua professione, che non è certo quella di chitarrista, è una cima. Fa il biologo genetista, a Singapore dirige il centro di Biologia Computazionale della Duke-Nus Medical School e di recente ha fatto una scoperta di grande rilievo: identificando un gene del corpo umano e studiandone il comportamento, ha aperto una nuova strada verso la prevenzione delle patologie di alcuni organi, in particolare il cuore. Quella del professor Petretto è una storia di successo, ma anche di talento, impegno e coraggio. «Sin da bambino sono stato appassionato di scienze – racconta -. A scuola ero un secchione, ma ho sempre coltivato tanti interessi, come la musica. Ho preso la maturità al liceo scientifico di via Monte Grappa e poi mi sono laureato in Chimica, sempre a Sassari, specializzandomi in genetica». Da quel momento in poi la carriera di Enrico Petretto è stata un crescendo continuo. Dopo un master internazionale a Pavia, un dottorato ancora a Sassari e uno studio sul Dna dei centenari dell’Ogliastra svolto per conto di una compagnia privata di Cagliari, la prima svolta: «Terminato il dottorato sono entrato all’Imperial College di Londra, dove sono rimasto per 11 anni, facendo tutta la carriera accademica. La prima considerazione che mi viene da fare oggi è che l’Italia mi ha formato, ma poi ho “prodotto” per un’università di fuori. Purtroppo negli atenei italiani il percorso è troppo accidentato e non sempre il merito viene premiato: spesso la cosa più importante è la fedeltà nei confronti del capo del dipartimento». Road to Asia Otto anni fa, una nuova svolta. «Avevo ricevuto interessanti offerte di lavoro ad Amsterdam e in Scozia, ma avevo deciso di puntare su un’esperienza diversa. Come Singapore. Io e mia moglie, italiana come me, siamo venuti per vedere la città pensando di trovare una specie di clone di Dubai, invece questa è città moderna ma con molto carattere, molto vivibile da tutti i punti di vista: buon cibo, ottimo clima, una bella combinazione tra tradizione e tecnologia. Venendo da un decennio a Londra, una città multiculturale molto viva ma difficile da vivere e con un clima pessimo, il miglioramento è stato notevole. Ci siamo innamorati di questa città: il risultato è che lavoro bene, viviamo bene e nel mio armadio non c’è più neanche una giacca: vivere con 30 gradi costanti non è affatto male».
Un sassarese a Singapore. «Mezzo secolo fa Singapore era un villaggio di pescatori – racconta il biologo sardo –, ora è una città importantissima sotto molti punti di vista. Qui investono tanto in tecnologia e ricerca, molto di più anche rispetto alla Gran Bretagna. Ci sono grandi opportunità dal punto di vista lavorativo, siamo immersi in un ambiente internazionale con colleghi competitivi e tanti world class leader. Tra gli amici con i quali vado a cena, o con i quali suono la chitarra, ci sono componenti della commissione che assegna il premio Nobel. Qua nei rapporti umani i titoli non contano e allo stesso tempo in ambito professionale c’è un grande spirito di collaborazione: piuttosto che farci la guerra a vicenda, collaboriamo. Singapore è piccola e deve confrontarsi con realtà molto più grandi. Per sopravvivere ed essere competitivi bisogna essere compatti. I finanziamenti per la ricerca vengono dati in modo che i progetti coinvolgano tante persone. Io lavoro da tempo in un progetto sul diabete, con me ci sono altre 25 persone che provengono da altre università e altri istituti. Il futuro? Lavoro già con un gruppo di San Donato Milanese, ho anche un lavoro in Cina. In generale non sto pensando di tornare in Europa, i fondi per la ricerca là stanno diminuendo, mentre qua tra alti e bassi i fondi non mancano. Ma soprattutto non riuscirei a riadattarmi all’ambiente accademico italiano». Per spezzare le lunghe e impegnative giornate di lavoro in laboratorio, Enrico Petretto si divide tra un viaggio con sua moglie («in un un’ora si arriva in Tailandia»), una pizza “sarda” («c’è un bravissimo pizzaiolo di Ozieri») e la passione per la chitarra, coltivata sin da ragazzo. «Suono spesso nei locali, addirittura a volte mi pagano. E quando posso faccio una rimpatriata sassarese». L’uomo in prima fila che applaude il chitarrista-biologo è Giuseppe Manai, un altro sassarese di successo a Singapore. Anche la sua è un è una storia che merita di essere raccontata.

22.2.23

Vince il duello di scherma grazie a una svista arbitrale.Ma vi ripete l'incontro per fair play ed accetta la sconfitta . il casoMariaclotilde Adosini, 17 anni,

IL GIORNALE  di Nino Materi  1 h fa  da https://www.msn.com/it-it/sport





Vince il duello in pedana (parliamo di scherma) grazie a una svista arbitrale. Ma lei, Mariaclotilde Adosini, 17 anni, bergamasca, decide per onestà di ripetere l'incontro. Che però poi perderà. Ma la scena che segue il verdetto definitivo vale ben più di una medaglia: il pubblico scatta in piedi e le riserva una standing ovation, mentre avversaria e giudici di gara si congratulano con la nostra connazionale.

Errore dell'arbitro. E il fair play di Clò incanta
Errore dell'arbitro. E il fair play di Clò incanta© Fornito da Il Giornale

È successo a Beauvais (Francia), durante la prova di Coppa del Mondo Under 20 di spada femminile. «Clò» non si sente un'eroina, regalandoci quella pillola di lealtà che dovrebbe essere prescritta a tutti i furbetti: «Ho fatto solo quello che questo sport mi ha insegnato». In tanti, troppi, col fair play si riempiono solo la bocca; in pochi, pochissimi, la «correttezza» la praticano sul serio. Molto dipende dalla propria indole, ma anche dall'educazione ricevuta. Siamo sicuri che l'atto della schermitrice italiana sia figlio del virtuoso mix fra questi elementi. Ed è giusto che venga indicato come modello virtuoso anche nei confronti di famosi e ricchi campioni, ma a volte poverissimi sul fronte della lealtà.
Ma torniamo al beau geste di Clò. L'arbitro - come riportato da Federscherma.it - sul punteggio di 13-12 per la transalpina, aveva assegnato due stoccate a Mariaclotilde, e non una soltanto. Nessuno, compresi Adosini e il suo staff, sul momento, si era accorto dell'errore. Solo successivamente le immagini video hanno confermato la svista, ma ormai era troppo tardi per rimediare. Il regolamento parla chiaro. Salvo che... Salvo che dall'altra parte ci sia un'atleta dall'etica affilata come una spada che decide di rinunciare alla vittoria. Accettando un duello-bis. In realtà ad essere ripetuto è stato solo il minuto fatidico in cui è avvenuto l'errore arbitrale. Ma tanto è bastato per invertire l'esito dell'incontro. Senza rimpianti da parte di Clò: «Giusto così. E lo rifarei ancora». Prima delle finali, Adosini è stata chiamata al centro del parterre accanto a un'icona dello sport francese come Laura Flessel (due volte campionessa olimpica, sei volte campionessa del mondo ed ex ministra dello Sport del suo Paese), per riconoscere pubblicamente il fair play di Clò. Chapeau.

18.2.23

Marcella Di Levrano, la storia di una donna che si ribellò alla mafia e di Melissa Bassi uccisa in attentato ed altre storie


In attesa delle  rituali    celebrazioni   del  8  (  festa  della  donna  )   e  del  21 (  giornata   delle  vittime  delle mafie  )  marzo  piuttosto e tanti spiegoni e tanta retorica , ed BLA ... BLA sul vicino 8 marzo preferisco raccontare anzi riportare questa storia . Perchè non fra le vittime di mafia e di collaboratori di giustizia si parla ( eccetto i casi eclatanti di : Piera Aiello , della sua cognata Rita Adria , Lea Garofalo ) si parla solo al maschile .Cosi pure    in ambito  della legalità    Infatti : << C’è la necessità di invertire la rotta rispetto alla memoria di Marcella, negli anni sempre un po’ bistrattata, - dice il poliziotto Roberto Belfiore, vicepresidente del Sap di Mesagne - quindi abbiamo scelto Marcella come simbolo di rinascita e della memoria, e abbiamo scelto di farlo con Libera perché a Mesagne rappresenta il riscatto sociale dei mesagnesi” prosegue Roberto Belfiore. “Masseria Canali è il luogo in cui la mafia ha perso e ha vinto lo Stato. Bisogna continuare a lavorare affinché le prossime generazioni possano sempre godere di una società libera>> ( da “Marcella Di Levrano deve tornare a casa”, la lotta di Libera, della Polizia di Stato e del Sap di brindisireport.it).
settimanale   giallo   in edicola  la  prima  

Caduta nella spirale della droga, si era legata alla Sacra Corona Unita, perciò i servizi sociali le portarono via la figlia appena nata. Il dolore fu tale che si disintossicò e poi rivelò ciò che sapeva dei loschi traffici dei padrini. Fu rapita e ammazzata a pietratrate  

di   Silvana Giacobini giornalista e scrittrice

Questa di Marcella è la storia vera di una giovane donna di 26 anni, che scomparve senza lasciare traccia l’8 marzo 1990 e fu ritrovata senza vita da un agricoltore il 5 aprile. Era nascosta sotto un mucchio di erbe e foglie secche nel bosco dei Lucci tra Brindisi e Mesagne. Aveva il corpo martoriato, il bellissimo volto sfigurato e reso irriconoscibile da colpi e colpi di un masso con cui gliel’avevano maciullato. Perché? Non solo aveva tutto l'aspetto di una vendetta tribale, il suo omicidio era il simbolico e terribile monito a chi avesse voluto mettersi contro la Sacra Corona Unita, l’organizzazione criminale che controllava i traffici illegali del territorio pugliese. I suoi “nemici” dovevano perdere non solo la vita ma anche l’identità del volto, essere cancellati dalla faccia della terra, e lei, Marcella Di Levrano, si era messa contro la Sacra Corona Unita dal 1987 collaborando con la squadra mobile della Questura di Lecce. Da tre anni era una referente della polizia. Marcella era stata contigua a quegli ambienti criminali e la conoscenza delle ritorsioni senza pietà dei clan rese ancora più encomiabile il suo coraggio di prenderne le distanze, anche perché in quegli anni non esisteva nessun vantaggio per i collaboratori di giustizia, nessun beneficio. La scelta coraggiosa Marcella l’aveva fatta per rifarsi una vita, e soprattutto, per ritornare ad essere una mamma degna di crescere la sua piccola Sara che i servizi sociali avevano allontanato da lei. L’attesa della famiglia di Marcella Di Levrano è durata trentadue anni, tanti ne sono dovuti trascorrere dal 1990 al 2022 per vederla riconosciuta dallo Stato “vittima innocente di mafia”. A sottolinearlo è stato l’avvocato Fernando Orsini di Mesagne che iniziò ben presto a seguire la vicenda umana e giudiziaria del riconoscimento. Torniamo quindi indietro nel tempo, agli anni ’80 e ’90, in cui la Caduta nella spirale della droga, si era legata alla Sacra Corona Unita, perciò i servizi sociali le portarono via la figlia appena nata. Il dolore fu tale che si disintossicò e poi rivelò ciò che sapeva dei loschi traffici dei padrini. Fu rapita e ammazzata a pietrate NEL 2022 È STATA RICONOSCIUTA COME VITTIMA INNOCENTE DI MAFIA MARCELLA PER AMORE DELLA SUA BIMBA
 IL SUO MURALE Mesagne (Brindisi).

Il murale dello street artist Frank Lamar intitolato nel 2021 a Marcella Di Levrano, raffigurata giovane e bella mentre chiede l’aiuto di tutti per fermare la ma!a. criminalità organizzata sfruttava il territorio brindisino per i suoi traffici di armi e prostituzione e spaccio di droga. Marcella Di Levrano aveva annotato su una agendina le sue conoscenze , con nomi, cognomi, alleanze, azioni malavitose. Ciò che aveva riportato segretamente negli appunti della sua piccola agenda e poi raccontato alla squadra mobile, la resero così scomoda e pericolosa per l’organizzazione criminale della SCU, la Sacra Corona Unita, tanto da decretarne il sequestro e la condanna a morte da eseguire con un crudele pestaggio.

 Marcella era nata il 18 aprile 1964, seconda di tre sorelle. La madre Marisa Fiorani era una donna forte e quando Marcellina aveva quattro anni, prese la decisione di allontanarsi dal marito violento che la metteva in pericolo insieme con le piccole figlie. Si trasferirono così da sole a Torchiarolo, un paesino nella provincia di Brindisi. Prima della classe alla scuola media, Marcella era una studentessa brillante e aveva scelto di proseguire gli studi a Brindisi frequentando l’Istituto Magistrale. Sognava di diventare insegnante e formarsi una famiglia felice tutta sua. Le foto ritraggono la bellezza e la delicatezza dei lineamenti della giovane donna e spiegano perché fosse molto corteggiata. Al secondo anno delle Magistrali fatale fu la frequentazione di giovani malavitosi che trasformò in incubo i suoi sogni perché Marcella cadde nel circolo vizioso della droga #no a diventarne dipendente. Le dosi costavano ed era sempre più difficile trovare i soldi e così Marcella per procurarsele stringeva sempre di più i rapporti con i giovani boss della Sacra Corona Unita. La madre Marisa e le sorelle lottavano per salvarla dalla dipendenza, ma Marcella dopo periodi di astinenza tornava di nuovo ad essere schiava dell’eroina. Rimasta incinta, per salvare la creatura che portava in seno cercò di disintossicarsi, ma era un  piccola Sara e Marcella, che non poteva contare sull’aiuto del padre biologico della bambina, aspirava a crescerla da sola, ma i suoi trascorsi di tossicodipendente indussero i servizi sociali ad allontanare la piccola dalla madre. Per Marcella fu uno strappo molto doloroso e così la giovane donna intraprese il viaggio più pericoloso, cominciò a staccarsi dall’ambiente dei clan della Sacra Corona Unita mentre cercava di liberarsi definitivamente dall’eroina. Ci furono i primi prudenti contatti con la polizia da parte di Marcella Di Levrano, decisa a rifarsi una vita come quella che da ragazza aveva sognato, e cioè prendersi il diploma, trovare un lavoro e farsi una famiglia riportandosi a casa la sua Sara. Una possibilità concreta per realizzare finalmente tutto questo, si profilò con la collaborazione con gli inquirenti della squasdra mobile della Questura di Lecce. Se per Marcella Di Levrano pesava un passato di tossica e doveva combattere contro i pregiudizi della gente, aveva però un capitale ed era quella piccola agenda dove aveva annotato tutto ciò che pensava fosse importante, i nomi dei componenti dei clan con i loro crimini sommersi, i carichi di droga e i loro spacciatori, il traffico di armi e la loro provenienza. Se l’avesse trasferito in Questura a chi di dovere poteva essere la sua àncora della salvezza. Marcella avrebbe dimostrato così che l’onestà non se l’era dimenticata, che era davvero cambiata anche se la paura della ritorsione era enorme. Arriviamo così alla data che segnò la "ne per Marcella, l’8 marzo 1990. Che fosse il giorno della Festa Internazionale della Donna rende ancora più infame il suo sacrificio, condannata a diventare vittima del disprezzo per la sua vita di donna e di madre da parte dei sicari della SCU.
La sequestrarono e la massacrarono di botte. Fu una vera e propria esecuzione compiuta a colpi di pietra anche sul volto per distruggerglielo e farla soffrire fino all’ultimo spasmo di vita. Non sono mai stati inquisiti e giudicati i mandanti e gli esecutori del suo assassinio, anche se per l’avvocato Orsini che si è occupato del caso di Marcella Di Levrano, erano attendibili le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.  Del suo status di vittima innocente di mafia, la cui richiesta di riconoscimento è stata respinta per due volte dal Ministero dell’Interno, se n’è occupata anche la Vicepresidente di “Libera”, Enza Rando. Fondata da don Luigi Cio!i, l’Associazione aveva incluso dal 2014 il nome di Marcella Di Levrano nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie che il 21 marzo di ogni anno vengono nominate nelle piazze italiane in loro ricordo. In primo piano, però, sostenuto proprio da Libera, c’è sempre stato l’assiduo impegno della madre di Marcella, Marisa Fiorani, che per decenni come una leonessa non ha mai abbandonato l’aspirazione e la lotta perché fosse onorata dallo Stato la memoria della #glia. È importante perciò ricordare le parole stesse di Marisa Fiorani che valgono come monito: «Spero di sapere tutta la verità, anche se cinque pentiti hanno raccontato chi e perché mi ha strappato mia #glia. Per un processo è troppo tardi ormai, ma per la Verità, no». E ha aggiunto: «Mi fa piacere il riconoscimento di mia #glia. Mi dà la speranza che si possa cambiare».


la seconda  

 da   Nove anni fa l'attentato a Brindisi: "Melissa viva nei nostri ricordi" (brindisireport.it)


RINDISI - Nove anni sono trascorsi dall'attentato alla scuola Morvillo Falcone. Stamattina (mercoledì 19 maggio), nell'anniversario di quel tragico giorno, una cerimonia in memoria di Melissa Bassi, studentessa uccisa dall'esplosione, si è svolta presso l'istituto di via Galanti. Presenti all'evento i genitori di Melissa e le massimi istituzioni locali. Nel video servizio,[  non sono  riuscito  a  copiarlo     lo  trovate  sul sito    citato ] le interviste alla preside, Irene Esposito, alla madre e al padre di Melissa, al sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, e a Massimiliano De Giorgi, presidente dell'associazione "Legalità e Sicurezza", che ogni anno organizza il memorial Melissa Bassi.   




Mentre  concludevo    questo  post  ho  scoperto  questa  storia 



Francesco Panzera, il prof calabrese che ha combattuto la mafia a scuola. Ed è stato ucciso per questo

L’insegnante calabrese fu ammazzato nel 1982 perché cercava di


proteggere i suoi alunni e di allontanarli dalle attività delle cosche. Ma sono proprio gli studenti, talvolta, a chiedere aiuto per affrancarsi da famiglie legate alla ’ndrangheta


«La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari». Lo disse lo scrittore Gesualdo Bufalino, dopo la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La scuola e la cultura fanno paura alle mafie, perché rendono più robusti i ragazzi contro ogni forma di prevaricazione, soprattutto in quelle zone dove il familismo crea una rete pericolosa e omertosa, dove i pochi rischiano di diventare nessuno. Perché si sa, la ’ndrangheta è una bestia che si vuole alimentare in silenzio. Giovanni Falcone raccontava quanto pesasse l’impianto familiare nelle organizzazioni criminali per mantenere integra l’immagine e la reputazione. Un ricatto molto difficile da cui affrancarsi, figuriamoci per un ragazzo a cui insegnano che «la famiglia viene prima di tutto, a prescindere da tutto». Anni fa fece notizia un liceo di Rosarno in cui gli studenti decisero di prendere le distanze dalle famiglie ’ndranghetiste. Il merito di questa rivoluzione culturale fu anche della dirigente scolastica Mariarosaria Russo che decise di gettare semi di legalità nella sua scuola. Uno studente appartenente alla famiglia Pesce di Rosarno, durante un’assemblea nel 2017, chiese coraggiosamente ai magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino in visita a scuola: «Come devo comportarmi per compiere un percorso di legalità? Devo rinnegare la mia famiglia?». I magistrati risposero che prendere le distanze da un familiare non vuol dire prendere le distanze dall’amore filiale, ma condannare la forma di illegalità. E qualcosa cambiò. «Sono stati gli studenti a rieducare le proprie famiglie e a non essere più coinvolti in quei circuiti di illegalità. Questo anche grazie alla collaborazione con diversi magistrati che hanno aiutato a far comprendere che anche per i figli dei boss ci sarebbe stata una seconda possibilità», racconta la preside. Insegnare è una missione, in casi come questi è una salvezza. Lo sapeva bene Francesco Panzera, professore di Matematica e vicepreside del liceo scientifico Zaleuco di Locri, una zona nota alle cronache per l’altissima incidenza criminale. La sera del 10 dicembre 1982 venne ucciso con otto colpi di pistola fuori casa a soli trentasette anni, dopo una gita in montagna. Contestava lo spaccio di droga che coinvolgeva i suoi studenti, fuori e dentro la scuola. Aveva osato ribellarsi al business in ascesa per le cosche: il traffico di droga. Voleva sensibilizzare i suoi ragazzi per proteggerli. Panzera era molto stimato, carismatico, poteva essere davvero ascoltato e diventare un disturbo per la ’ndrangheta: doveva essere fermato. Libera informa che circa l’80 per cento dei familiari di vittime non ha ottenuto una verità giudiziaria o ne ha una solo parziale, e molti di loro non hanno mai ritrovato il corpo di un figlio, di un padre, di un fratello. A quarant’ anni dall’omicidio del professore coraggioso di Locri non si conoscono i mandanti e gli esecutori del suo omicidio. Il liceo scientifico Zaleuco ha deciso di commemorarlo, insieme con i suoi ex studenti e i familiari, per dimostrare che più forte della morte è davvero l’amore per la verità e la giustizia.
Recuperare la memoria è l’unica arma da introdurre nelle scuole.



SITOGRAFIA  CONSIGLIATA



17.2.23

Welch e Radius, l'ultimo sogno di © Daniela Tuscano



Di Raquel Welch, scomparsa a 82 anni il 15 febbraio scorso, sapevo pochissimo. Quanto bastava. Che era bella e festosa, donna totale, più erede di Mae West o Rita Hayworth che antenata di Shakira.  Anche se si denudava, c'era qualcosa di pudico nel suo corpo, nel suo sorriso eburneo e meticcio. Qualcosa che l'accomunava alle tele rinascimentali, alle allegorie di Giacomo Serpotta, e, in fondo, alla famiglia.



Mentre lei spopolava con pellicole destinate a rimanere nell'immaginario collettivo benché non sempre memorabili ("Un milione di anni fa, il bikini in pelle!),  io trascorrevo la mia estate calda ad Arenzano in compagnia dei pupazzi Disney e di mio padre che si divertiva leggendo "Piccolissimo" del mitico Antonio Amurri :
  piccolissima, gustosa saga familiare grazie alla quale conobbi per la prima volta il nome di Raquel. Il protagonista, papà Antonio medesimo, trovava "inquietante" l'apprezzamento verbale - "fichissima'! - tributato all'attrice dai numerosi figli (allora i figli erano numerosi, in Italia). Raquel, bastava il nome. Ma come lo pronunciava Manuel Fantoni, nessuno. Nel monologo di "Borotalco" la descriveva tutta: seni-borracce, capezzoli-chiodi, "belli, rosa, da attaccarci un quadro". Alla faccia delle arditezze futuriste. Pronunciato con un'enfasi così vellutata che, lo capivi, gli bastava il sogno, e Manuel, un po' playboy un po' bambino, di sognare era capace. Ed è scomparso anche Alberto Radius. Non apparteneva ai miei anni spensierati, ma all'adolescenza tumultuante. Era metropolitano, 


Radius, un romano-milanese per la militanza con la Pfm e pure con Battisti, laziale atipico. Radius era "Nel ghetto", brano-manifesto di quel periodo militante e illusorio. 




Ma, se il tempo ha impolverato gli slogan, ha conservato intatte le schitarrate nervose, riconoscibili al primo attacco, come un Hendrix al calor bianco, figlie di un'epoca elettrica che non tornerà.

© Daniela Tuscano

Tigri romantiche, trapianti suini, bestemmiatori fatali, smemorati fedeli, babbi Natale atletici, docenti truffaldini e omicidi su Google

Il prof di Economia si laurea in Fisica sfruttando un errore e gli esami di un omonimo L’accademico dell’anno è il prof. Sergio Barile, doce...