21.12.15

Esploriamo il significato del termine: L’ISLAM IN ITALIA L’INCHIESTA Le nostre vite normali da musulmani «Ma non chiamateci moderati»


E' vero che  la  lingua si  evolve  , ma  è anche vero che le parole sono  importanti  come si diceva  un tempo 






Infatti   da  questo momento  farò il possibile  per  evitare  tale frase  \  espressione di cui si  parla sotto trattato dal corriere  della sera  del 17\12\2015   , speriamo di   riuscirci  come ho fatto  con l'espressione   donna  con le palle 








Le nostre vite normali da musulmani
«Ma non chiamateci moderati»
L'Islam visto dai musulmani tra riformismo, convinzioni e pregiudizi: «È un sistema di vita. Non è una barba o un foulard in testa. Chi non si comporta da buon musulmano non è praticante»

di Alessandra Coppola


Lo scrittore di orgini algerina Amara Lakhous, l'ingegnere italo-egiziano-sudanese Akram Idries, Youssry Alhoda (imprenditore di origine egiziana), La studentessa della Cattolica Shereen Mohamed, Il videoblogger veronese di origine pakistan Burhan Mohammad
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Si potrebbe forse provare con il «test del maiale»: chi lo mangia non è musulmano, oppure non lo è abbastanza. È una provocazione, una delle argute invenzioni che tessono i romanzi di Amara Lakhous (nello specifico, «Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario», e/o). Ma contiene una questione seria e attuale, sulla quale lo scrittore continua a interrogarsi: come si distingue un islamico moderato? «Nel caso di una donna, per esempio, non porta l’hijab? Fuma? Ha relazioni fuori dal matrimonio? Dice le parolacce? E se invece è velata e prega con regolarità, si tratta di un’integralista?». 
Nato nel 1970 ad Algeri, dove si è laureato in Filosofia, Lakhous nei suoi studi alla Sapienza si è dedicato anche alla comunità musulmana italiana. Ha scritto quattro romanzi sullo «scontro di civiltà» che alla fine è incontro di pregiudizi, manie e abitudini tra condomini, mercati e stazioni ferroviarie. Ha vissuto a Roma, a Torino, in Francia, e ora risponde al telefono da New York. «Il concetto di moderato è pieno di trappole - ragiona -. Perché è stato importato da un altro contesto, di relazioni internazionali. A un certo punto, i Paesi a maggioranza musulmana sono stati classificati come fondamentalisti o moderati. In base alle convenienze. L’Arabia Saudita, per esempio, fondamentalista nel senso peggiore della parola, è collocata tra i moderati perché ha appoggiato la guerra in Afghanistan contro i sovietici, e così via. Questo concetto ora è applicato ai musulmani tout court , ai quali viene chiesto di prendere una posizione moderata. Non ha senso. Perché mai dovrei giustificarmi per qualcosa che hanno fatto altri, lontanissimi da me?». 
Se il termine moderato risulta inadeguato, però, se sembra un’etichetta ritagliata per tranquillizzare le coscienze occidentali e creare un «musulmano su misura» dall’aspetto gradevole e poco dissonante, come si può correttamente riferirsi a chi, per esempio, non va in moschea e non si attiene rigidamente a tutte le prescrizioni del Corano, e alla fine rappresenta la maggioranza del milione e settecentomila fedeli in Italia? «Nato musulmano, non praticante», suggerisce Youssry Alhoda. Non è un intellettuale, ma è un uomo conosciuto a Milano per la sua straordinaria serietà e competenza, 53 anni e 5 figli, titolare di una ditta di ristrutturazione, responsabile delle attività culturali di uno dei centri islamici col timbro «moderato», la moschea di Segrate. «Per me è un dovere inserirmi nel modo giusto e regolare nel posto in cui vivo - spiega -: l’Islam è questo, non si limita a una preghiera. È ricevere aiuto e aiutare, è un sistema di vita. Non è una barba o un foulard in testa». Degli oltre seimila versetti, dice, la maggioranza indica come comportarsi da buon musulmano. E chi non lo fa alla lettera? «Non è praticante». 
Nulla di male, ma neanche un ragazzo giovane come Burhan Mohammad, arrivato bambino dal Pakistan a Villafranca di Verona, concede molto spazio alle sfumature: «Fino a due anni fa ero il tipico trasgressore, mi ubriacavo, andavo in discoteca, portavo le ragazze nei privé». In una vacanza in Tunisia è stato folgorato dalla frase di un amico, alla vista di un uomo anziano col turbante bianco sul ciglio della strada: «Guardalo, se morisse adesso non avrebbe problemi». Ha cominciato a riflettere, racconta, poi ha anche avuto dei guai, ha perso il lavoro da metalmeccanico, il papà è stato male: «Un momento di crisi, e non potevo parlarne con nessuno. Un conoscente mi ha proposto di andare in moschea. Fino a vent’anni non ci avevo messo piede». E da allora neanche una birra? Ride. «Non è che si possa essere praticante a metà...». Non è neanche che abbia smesso di divertirsi, sostiene. Ha trovato, anzi, un modo piuttosto originale di rendere pubblica la sua svolta: registra un video blog in cui scherza anche sui difetti degli islamici («Sempre pronti a puntare il dito contro i peccati degli altri») o cerca di smontare pregiudizi. «Che cosa non vuoi più sentirti dire come musulmano?». Con una certa tenerezza, uno dei suoi intervistati, adolescente, confessa: «Non voglio che i miei compagni di scuola mi gridino Allah u akbar ». 

Resta la questione più seccante per i fedeli di tutte le età oggi in Italia: dover continuamente spiegare di non avere contiguità coi terroristi. «Mi sento umiliata quando mi chiedono di dissociarmi - dice Shereen Mohamed -. Io lo faccio anche, ma in quanto essere umano dotato di logica. L’Islam non è l’Isis. È dura doverlo ripetere: io sono italiana, musulmana, europea». Nell’immagine ideale di islamico «moderato», Shereen rientra perfettamente: lodigiana, 22 anni, genitori egiziani, diligente studentessa all’Università Cattolica di Milano, anima uno spazio di confronto con coetanei copti (e non solo) che si chiama Swap ( Share with all people). Strano? Per nulla. Molti musulmani frequentano scuole cattoliche, tanti genitori non chiedono per i figli l’esonero dall’ora di religione, gli oratori milanesi sono pieni di bimbi musulmani. Secondo una ricerca dell’anno scorso, il 26,9% dei ragazzi di origine straniera che frequentano le parrocchie è islamico. E i momenti di preghiera comune, con cattolici ed ebrei, sono tanti: è facile che tra praticanti ci si intenda. 
Più faticoso pare, forse, lo spazio per i «laici», o «non praticanti», o ancora come propone Akram Idries, per i «riformisti». Ingegnere trentenne, italo-egiziano-sudanese, collaboratore del blog La Città Nuova sul Corriere.it , Idries rivendica di essere musulmano anche se la sua immagine non corrisponde allo stereotipo: «Gli islamici sono fatti anche come me...». Cioè fedele, ma critico: «Questo modello di Islam ha fallito, non c’è bisogno di essere a favore né contro, non ha senso parlare di moderati: servono riforme», che aggiornino una serie di partiche e consuetudini consolidate in tempi remoti. È una linea che non scandalizza l’orientalista Massimo Campanini, docente a Trento, massimo esperto di Islam e politica: «Il riformismo fa parte del Dna dell’Islam, e individua una corrente ben precisa di approccio innovativo alle fonti». Bocciata anche dal professore, invece, l’etichetta «moderato»: «Sarebbe come dire che l’Islam è violento, e poi ci sono i moderati che non lo sono...». 
Assodato che esiste una possibilità riformista nell’Islam, e che ha anche precedenti storici, chi potrebbe oggi realizzarla? Amara Lakhous ha una risposta: «La diaspora. Nel mondo musulmano esistono due poteri: dittature e fondamentalisti. Che sembrano avversari, ma alla fine sono giocatori della stessa squadra. Le riforme richiedono libertà, e la libertà si trova in Europa e negli Usa». È tra i musulmani «occidentali», dunque, che si producono le condizioni ideali per un Islam riformato, dice Lakhous. Ma attenzione, «tra partiti xenofobi e socialisti che vogliono forgiare il musulmano su misura, si perde anche questa opportunità».


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