2.5.04

dall'unità online de...

dall'unità online del 2\5\2004.


Bisogno di vita
di Luigi Manconi

Le “cose ultime” (vita/morte, libertà/cattività) fondano, nei momenti cruciali, le scelte cruciali. Per certi versi, lo dico con intenzionale essenzialità, quella di ieri in Piazza S. Pietro è stata una delle più importanti manifestazioni per la pace di questi decenni. Non per il numero dei partecipanti (ne abbiamo viste di cento volte più grandi) né per l'articolazione così diversificata delle presenze: grazie al cielo, quest'ultimo è un dato che ha connotato tutte le più recenti mobilitazioni. L'importanza della manifestazione di ieri sta altrove. Innanzitutto, nel suo carattere “assoluto”: e non mi riferisco, certo, alla contrapposizione, anch'essa in qualche misura logorata, tra pacifismo totale e ingerenza umanitaria. Mi riferisco, piuttosto, al fatto che la posta in gioco della manifestazione era ed è, nella sua radicale semplicità, la “nuda vita” di quei tre ostaggi. Questione, appunto, di vita o di morte: null'altro. Davanti a questo dilemma, tutto il resto risulta azzerato e ammutolito: le biografie dei tre sequestrati (che a qualcuno possono non piacere), ma anche la controversia su il ritiro (quando?) o il mantenimento (fino a quando?) delle truppe occidentali in Iraq. Anche la sorte crudelissima, e trascuratissima, di altri “ostaggi”, come la popolazione civile di Fallujah, non va messa sul piatto contrapposto di una indecente bilancia: impedire che prosegua, anche di una sola ora e di una sola vita, il massacro di civili di quella città non è altra cosa, ma la stessa - e perfettamente coincidente - questione. Nessuna “ossessione comparativista”, dunque (quali morti contano di più? i “nostri” o i “loro”?): dalla massima attribuita a Mao (”alcune morti sono leggere come piume, altre pesano come montagne”) dovrebbe essere passato un migliaio di anni, e molte catastrofi politiche e intellettuali. Ma così non è: e, tutti i giorni, si ripete quell'errore e si riproduce quell'orrore. Non è accaduto ieri. Per una ragione, innanzitutto: perché si è trattato, nella sua gran parte, di una manifestazione totalmente impolitica, tra le divise delle Misericordie e il canto della “Salve regina”, intonata da monsignor Giovanni Lajolo: ma quell'impoliticità non deriva da un rifiuto della politica, bensì da un “venir prima” della politica. Da qualcosa che prescinde dalle sacrosante competizioni dei partiti e dai sacrosanti conflitti sociali, e li precede: e quel qualcosa è il senso autentico della comunità umana, della reciproca obbligazione, del legame sociale. Che, poi, è ciò che fonda la politica nella sua costituzione primaria, più solida e più degna. Lì, davvero, la vita umana conta: e lì, in condizioni appunto “estreme”, il pacifismo scopre la sua forza originaria. I parenti di Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana non sono pacifisti “per amore” (degli altri, dei soldati e dei civili, dell'armonia universale e della “pace perpetua”). Sono pacifisti “per forza”: perché è la sola risorsa a loro disposizione per osare l'inosabile. Ovvero farsi soggetto che “negozia” con i sequestratori dei loro cari. Ma questo non rende il loro pacifismo meno intenso e meno vero (come non lo è, vorrei dire, quello di chi è favorevole, in determinate circostanze, all'ingerenza umanitaria). Al contrario: essere pacifisti per la “forza” di bisogni primari (la salvezza dei propri familiari), e non per ragioni ideali o ideologiche o religiose, rende più, e non meno, ineludibile quella domanda di pace. Guai se la politica non ne saprà cogliere il senso profondo.


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