12.4.22

Ho detto sì alla cresima a un trans. Tutti hanno posto nella casa di Dio" Parla Don Antonio Borio, parroco torinese delle Stimmate di San Francesco d’Assisi ..

repubblica  11\4\2022

Aveva avuto il battesimo come una bambina, ma chiede la cresima come uomo. La

Diocesi di Torino autorizza il sacramento al fedele che ha affrontato un percorso di transizione sessuale. E Don Antonio Borio,  parroco torinese delle Stimmate di San Francesco d’Assisi, racconta perchè e come è stato contattato dal ragazzo.

 

Quando il ragazzo l'ha chiamata per cresimarsi, cosa ha fatto?

"Non conoscevo questo ragazzo. Quando mi ha contattato, ho chiesto alla Curia come procedere a livello burocratico. Così mi hanno risposto con un link che fa riferimento a una dichiarazione della presidenza Cei del 2003".

 

Qual era il problema per cui ha avuto dubbi?

"È un fatto giuridico. Il problema è che il nome al momento del battesimo non si può cambiare, va registrato così come è scritto sul certificato, se maschio o se femmina. Parlo della registrazione".

 

Quindi nessun dubbio legato al sesso?

"La scelta di ricevere alcuni sacramenti, come Comunione, Confessione e Cresima non dipende dal sesso. L'importante è restare nelle regole, tra queste che quelle che poi richiedono di registrare con nome originale. Poi certo tutti i sacramenti prevedono fede, ma non possiamo misurarla se una persona viene da noi e sente di essere a posto con Dio. Di certo non ci sono discriminazioni davanti al Signore per il sesso che uno ha. Lo diceva San Paolo, "Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna"". 

 

Ha sentito di recente il ragazzo?

"No, sono diversi mesi che non lo vedo più. So che ricevere il sacramento faceva parte di un suo cammino di fede ma ancora non l'ho cresimato, prima dovrà fare un cammino di preparazione, lo aveva iniziato ma poi interrotto. Non si è più fatto vedere e non ci siamo più parlati". 

 

È la prima volta che riceve una richiesta così?

"Dal '74 sono prete, ho 75 anni, l'età in cui si va in pensione. In passato sono stato a lungo a Caramagna, una bella comunità, ora da tempo sono a Torino e non mi era mai successo ma credo che siano episodi che capiteranno sempre di più. Dovremmo guardare soprattutto le persone, il mio compito è accompagnarle ed essere in contatto con loro, tutti hanno posto nella casa di Dio. Giuridicamente ci atteniamo alle regole che sono altre questioni ma la misericordia di Dio è per tutti. Per il resto ci vuole discrezione e rispetto per le scelte personali".

 

Può essere l'occasione per riflettere?  

"Sì più che parlare di scandalo potrebbe essere davvero il momento per fare una riflessione. Ma intendo una riflessione a livello teologico e giuridico. Rispettando, ripeto, le persone. Bisognerebbe avere sensibilità". 

Anche le donne hanno un ruolo nella costruzione dello stereotipo intorno al quale si è costruita una certa idea di maschio. E allora emerge l'esigenza di sfumare i confini e parlare di persone e tossicità di genere



leggi anche   
Mascolinità tossica, cos'è e perché è importante parlarne di BENEDETTA PERILLI15 Gennaio 2020

  da  repubblica  11\4\2022




Indefinito ma potente ed evocativo. Il concetto di mascolinità tossica sembra davvero comodo per contestare le vecchie idee di virilità, quelle che rimandano a comportamenti aggressivi e distruttivi ma anche offensivi e banalizzanti nei confronti delle donne. C'è davvero ancora tanto da riflettere. Potremmo chiederci però se questa formula così popolare basti per rappresentare i significati complessi che promette, se effettivamente aiuti le nostre conversazioni, se non sia diventata una specie di etichetta
generica per spiegare qualunque problematica legata alla mascolinità andando così a semplificare la complessità del reale. E allora emerge l'esigenza di sfumare i confini e parlare di persone e tossicità di genere
L'idea stereotipata del maschio
Nel tentativo di promuovere interventi volti ad aiutare gli uomini a liberarsi del peso della gabbia di genere, nel 2018 l'American Psychological Association ha indicato una serie di tratti tossici legati alla mascolinità tradizionale: sopprimere le emozioni e mascherare la vulnerabilità, apparire autonomi, capaci, competitivi e dominanti, usare l'aggressività per dimostrare di essere maschi, sentirsi portati ad accedere al corpo delle donne come segno di virilità, essere ipersessuali, eterosessuali e tendenzialmente omofobi.
Anni di ricerca hanno suggerito che in effetti l'ideologia maschilista è psicologicamente dannosa, non solo per le donne. La tossicità è riferita a quei valori, quelle credenze, quelle aspettative che ruotano intorno allo stereotipo del maschio, che si infiltrano così bene nel modo in cui uomini e donne stanno in relazione, che silenziosamente fiancheggiano la disparità, negano, minimizzano e normalizzano la violenza.
Che le donne del resto possono essere banalizzate, svalutate, oggettivate, ridicolizzate, toccate, prese, aggredite, violentate sono pensieri che stanno dentro la cosiddetta vita normale.
Quando le donne sostengono la tossicità
La tossicità però non sta solo nei fatti di cronaca orribili. Esiste un serbatoio enorme di tossicità subdola ed endemica, intrinseca ai rapporti tra i generi, in ogni ambito. Anche noi donne ne siamo spesso complici senza rendendocene conto. Quando assumiamo atteggiamenti complementari a quelli tossici maschili oppure li imitiamo per sentirci libere. Quando diamo per scontato i loro privilegi perché così è sempre stato, quando ci appropriamo spavalde di qualche vantaggio e ci sentiamo per questo tanto emancipate. Quando bolliamo come poco di buono una donna e come farfallone, cacciatore, seduttore, don giovanni, latin lover, playboy un uomo che fa le stesse cose. Quando ridiamo di un amico poco prestante, quando pensiamo che un maschio gentile, sensibile ed empatico sia gay, quando crediamo di non essere niente di più del nostro corpo, quando commentiamo una donna per come è vestita e non per quello che dice. Quando ci concediamo al nostro compagno senza volerlo perché lui ha dei bisogni, quando pensiamo che se ci ha messo le mani addosso è perché è geloso e ci ama tanto. Quando usiamo la nostra condizione per ottenere agevolazioni. Quando ridiamo a battute da spogliatoio, quando ci alziamo da tavola per servirli, quando sorridiamo se un sconosciuto ci dice bellezza, cara, tesoro, quando ci guardiamo allo specchio con gli occhi degli uomini e ci valutiamo sulla capacità di attrarli sessualmente, quando accendiamo la tv e ci sembra normale vedere belle ragazze-cornice che sgambettano sorridendo. Quando diciamo a nostra figlia che è una principessa e a nostro figlio di non fare la femminuccia, quando aspettiamo un uomo che ci svolti la vita. Quando è ovvio che, tra me e lui, sia io a rimanere a casa e a rinunciare alla carriera. Sono solo degli esempi.
Cosa si rischia parlando solo di mascolinità tossica
Così, inutile forse farne un esclusivo marchio maschile. La tossicità sta nella nostra quotidianità, nei nostri pensieri, nella nostra cultura. Se da un lato quindi questo concetto permette di puntare l'attenzione su fenomeni inquietanti e per questo è importante, dall'altro potrebbe banalizzare il discorso sulla mascolinità, riproducendo oltretutto, invece di smantellare, stereotipi. Possiamo dire forse che parlare di mascolinità tossica, sotto certi aspetti, è fare un discorso sessista perché è come dire che un dato gruppo sociale pensa in un dato modo ed è portato a fare date cose per il fatto di avere un dato corpo. Che esiste quindi un destino biologico. Mentre la scienza ci spiega molto bene che maschi e femmine agiscono in modo diverso non a causa delle caratteristiche biologiche ma delle rigide norme sociali create attorno alla femminilità e alla mascolinità.
Inoltre, come solleva Manolo Farci, professore di sociologia della comunicazione e dei media digitali presso l'Università degli studi di Urbino Carlo Bo in un articolo online sul sito Il Tascabile, l'espressione mascolinità tossica rischia di diventare un "concetto bulldozer", una scorciatoia concettuale sfruttata per spiegare qualunque fenomeno che intercetta la mascolinità, impoverendo così il dibattito pubblico. Suonando come un'accusa, un rimprovero, una critica, tra l'altro, può portare a polarizzare ancora di più gli atteggiamenti che vorremmo cambiare. E di allontanare gli uomini dal problema, Io non sono violento, la cosa non mi riguarda. È una formula che rischia di far passare l'idea che le cose possono migliorare solo se gli uomini cambiano il loro comportamento sviando da una riflessione più ampia sui limiti strutturali imposti da secoli di cultura patriarcale, espressione vecchia e sorpassata ormai in disuso ma ancora tanto attuale.
Del resto potremmo chiederci se quando gli uomini esibiscono tacchi e unghie smaltate stanno davvero combattendo contro la disparità, se depotenziare il macho, rendendolo più morbido e sensibile, voglia dire farlo diventare più aperto alla parità. Certi atteggiamenti provocatori possono aiutare a scalzare idee stantie, senza dubbio. Ma parlare solo di mascolinità da risanare, di femminilità da potenziare, di quale sia, tra i due mondi, il migliore non aiuta a cambiare del tutto le cose perché non prescinde appunto dai mondi. Anzi consolida modelli di genere, perpetua l'idea che esistono giocattoli, abiti, libri, bevande, comportamenti, gusti, pulsioni, parole, preferenze, emozioni, pensieri per uomini e per donne. Forse dovremmo parlare di narrazione tossica dei generi, sfumare i confini più che ridefinirli, pensare che ci sono persone, e non maschi e femmine, a fare le cose. Rinunciare all'idea che genere, orientamento sessuale ed espressione di genere coincidono. La realtà è molto più sfumata dei nostri pensieri.

Vittoria 42-0 per vincere il campionato provinciale dei giovanissimi

   sembra  una  fake news    invece   come dimostra  la  schermata  sotto presa da https://www.tuttocampo.it/Sardegna la notizia  è  reale  ed  vera

 tale  risultato clamoroso nell'ultima partita del campionato provinciale di giovanissimi di Nuoro durante nella partita Fanum Orosei - La Caletta con la formazione di casa che vince 42 a 0. 

Ecco che A scuotere il calcio non sono solo i casi di razzismo, i bilanci taroccati dei club, le liti in campo tra giocatori, le risse verbali tra dirigenti o le proteste esagerate verso gli arbitri. Fanno notizia, eccome se la fanno, anche vittorie con punteggi che assumono proporzioni improbabili per il mondo del pallone. Ancora di più se questo succede a livello giovanile, dove lo sport dovrebbe essere vissuto come divertimento, senza l’assillo del risultato, ossessione di un mondo professionistico dove si deve fare business.
I fatti. Campionato provinciale giovanissimi del comitato Figc di Nuoro. La partita è Fanum Orosei-La Caletta. La formazione ospite schiera solo dieci giocatori, tutti della categoria esordienti (di due anni o più più piccoli degli avversari). Vince la squadra di casa 40-0. Agli oroseini sarebbero bastate 35 reti per conquistare il primo posto a spese della Lupi di Goceano Bono. Questo perchè le due squadre hanno finito la stagione a pari punti (33), con un successo per parte negli scontri diretti e con la stessa differenza reti negli scontri diretti. Così la differenza reti generale è diventata fondamentale per assegnate la vittoria. La settimana precedente erano stati i “Lupi” a dilagare con la Caletta: 22-0. E già questo “strano” risultato aveva scatenato le prime polemiche.
Richieste. Le due società in lizza – questa la loro versione –, avrebbero chiesto al comitato di competenza di giocare uno spareggio per decidere la vincente del campionato. Risposta: «Il regolamento non può essere cambiato in corsa». La Fanum dice anche di aver chiesto scusa in anticipo agli avversari, e il giorno precedente aveva pubblicato su Facebook un post nel quale invitava tutti al campo per incitare i ragazzi, “costretti” a segnare una valanga di gol.
La Figc regionale. Il referto della partita è arrivato ieri mattina sul tavolo di Gianni Cadoni. Il presidente non l’ha presa bene e pare intenzionato a coinvolgere la Procura federale perchè proceda ad avviare un’indagine e accertare come sono andate le cose. Questo significa che saranno convocati i presidenti delle società coinvolte, e gli educatori. Meglio chiamarli così a questi livelli, e non allenatori. Dovranno dare delle spiegazioni convincenti se vogliono evitare pesanti provvedimenti.
Parla Cadoni. Il numero 1 del calcio sardo ha trascorso una mattinata movimenta al telefono. Ha cercato di assumere più informazioni possibili su un episodio inusuale. «Quanto accaduto è gravissimo – le parole di Gianni Cadoni – perchè va contro la normalità del calcio. Lo sport a questo livello deve andare oltre il risultato, va vissuto in modo ludico. Rispetto, divertimento e cultura devono stare al primo posto. Già qualche settimana fa in un campionato femminile regionale c’è stato un 21-0. Anche in quel caso mi sono molto alterato. Su questa storia è necessario fare chiarezza».
La notizia ha fatto rumore e provocato le reazioni più disparate sui social. Chissà i bambini che in due partite hanno subito 60 gol, senza segnarne nemmeno uno, come reagiranno. Se ora scegliessero un altro sport sarebbero da capire.

E' vero  che  non è bello    e  che   come dice il  commento   sempre della  nuova  Sardegna    d'oggi 

[..]Ed è stata la sconfitta di un intero movimento, mentre dopo la nuova eliminazione dai Mondiali l’Italia del calcio si domanda cosa ci sia di sbagliato, a partire dai settori giovanili. E arriva la peggiore risposta possibile. È stato un tiro al bersaglio, neanche il videogame dei marzianetti era così crudele. E’ stata la giostra del pallottoliere, sia per il Bono che ne aveva segnati 20, sia per la Fanum che ha raddoppiato, per aggiudicarsi il titolo grazie alla migliore differenza reti complessiva.[... ]


Infatti  Sì, si sono scusati i vincitori ma ne sono usciti tutti sconfitti, a parte i bambini della Caletta che continueranno a tirare calci al pallone ricordando sempre quel giorno, domenica scorsa. Si sono appellati a un regolamento sbagliato, hanno detto di non aver potuto fare altrimenti e invece avrebbero eccome. Avrebbero potuto  se  solo  avessero avuto più  coraggio e    rispetto non giocare, rifiutarsi. Sport e sportività sono altra roba. Avrebbero potuto fare entrambe un passo indietro mettendo la Federcalcio davanti al fatto compiuto  costringendola  per  il  futuro  a  cambiare  il regolamento   e   non ipocritamente a  minacciare provvedimenti  per    colpe  che   legalmente    non hanno    


Il regolamento   è sbagliato? Non siamo in guerra, disobbedire si può e in questi casi si  sarebbe   potuto almeno moralmente  . Ancora, avrebbero potuto cucinare un “biscotto”, che nel calcio non piace   a  tutti    quando lo si  deve  fare o stato fatto in competizioni importanti mondiali ed  Europei ( vedere  collegamento citato righe  precedenti )  . Ma ai ragazzini sì, accordandosi per segnare ciascuna i (pochi) gol necessari per costruire una parità perfetta  senza umiliare  che  vince     e  chi perde   e che ci pensasse la Federazione, che a questo livello gli allenatori si chiamano educatori, che il calcio soprattutto   a quel età dev’essere gioco. E poi, a lui non ci pensa nessuno, a chi ha dovuto fare il contabile e non l’arbitro. Ma dove li segni in quel piccolo taccuino tutti quei gol.


11.4.22

effetti delle mafie sui ragazzi . i suicidio di Vittorio Maglione 13 anni figlio di un camorrista che non vuole diventare come il padre

  effetti  delle  mafie   sui  ragazzi  . i  suicidio   di   Vittorio Maglione  13  anni figlio di un  camorrista  


  da  https://www.facebook.com/leonardocecchi1991 

Vittorio Maglione aveva 13 anni quando si impiccò nella sua cameretta, a Napoli, il 10 aprile 2009. Lo scrisse su messanger, dicendo addio a tutti, fuorché al padre, un camorrista. A lui disse solo questo: “Io non voglio diventare come te. Me ne vado, non ti scoccio più”. Vittorio aveva perso il fratello maggiore pochi anni prima, ucciso perché aveva rubato il motorino alla persona sbagliata. E da anni “scocciava” il padre e la famiglia, perché nonostante avesse 13 anni tutto voleva fuorché una vita da delinquente, a cui pure a causa del contesto dove viveva sembrava destinato. Si tolse la vita in questo giorno. Un ragazzo che studiava alla scuola dedicata a Giancarlo Siani e che voleva un futuro lontano dalla malavita. Ricordando questo giorno, è difficile esprimere un concetto che non sia francamente solo il dolore per una morte così. Eppure un pensiero va fatto: quanti Vittorio esistono? Quanti ragazzi vengono condannati ad un futuro a cui non possono sottrarsi? Le mafie sono un cancro e si autoalimentano. Combatterle passa dall’agire preventivamente sulle loro fonti, le famiglie. Perché di Vittorio ce ne sono tanti, ed è compito dello Stato offrire loro una fuga da quel mondo che non sia togliersi la vita.


e da repubblica  del 11 aprile 2009

Suo padre è un esponente dei Casalesi, suo fratello fu ucciso giovanissimo
Dopo una lite col padre, lascia un messaggio in chat e si toglie la vita

Napoletano, 13 anni, figlio di boss
annuncia suicidio sul web e s'impicca

di STELLA CERVASIO


Napoletano, 13 anni, figlio di boss annuncia suicidio sul web e s'impicca
NAPOLI - "Adesso sei contento? Non ti rompo più ". Figlio di boss dei Casalesi, a tredici anni ha lasciato una riga di rabbia contro il padre nel grande mare di parole di Messenger. L'addio affidato alla chat alla quale gli adolescenti consegnano i loro pensieri protetti da un nickname, un nome di fantasia. Ha legato una corda a una trave del soffitto della casa dove viveva con i genitori e un fratello gemello, a Villaricca, periferia di Napoli e si è  lasciato cadere da un tavolo. Non voleva andarsene senza dirlo a nessuno, ha lasciato anche un biglietto, trovato sul tavolo: "Addio a tutti quelli che mi hanno voluto bene".
A luglio avrebbe compiuto tredici anni. Uno meno di suo fratello, rapinatore ammazzato dagli "scissionisti" di Secondigliano nel 2005 a Mugnano. Vittorio Maglione andava a scuola, faceva la seconda media, e a differenza del fratello Sebastiano, a quattordici anni già  sulla strada del crimine, non aveva esordito nel mondo di Gomorra. Una famiglia difficile, la violenza di una periferia congestionata e abbandonata: il padre, Francesco Maglione, nel giro era entrato molto presto.
Finito in galera per il primo omicidio a scopo di rapina nel '78, a diciott'anni, era stato nella Nco di Raffaele Cutolo, e alla fine degli anni ottanta era entrato in forze ai Casalesi, passando prima con il boss Tambaro e infine con il feroce Francesco Bidognetti, "Cicciotto 'e mezanotte".
A trovare il ragazzo quando non c'era più niente da fare è stata la madre, che era uscita per fare la spesa. Il primo giorno di vacanze per Pasqua a scuola. Il tredicenne si era alzato tardi e si era messo al computer per la quotidiana razione di "chiacchiere" elettroniche tra coetanei. I carabinieri della compagnia di Giugliano hanno trovato il pc acceso con una schermata di commenti negativi a quel proposito annunciato con enfasi: "Me ne vado, non ti scoccio più ", rivolto al padre. Gli amici, identificati con nickname dai quali gli investigatori cercheranno di risalire alla vera identità dei ragazzi, hanno cercato di dissuadere Vittorio. Molti i messaggi increduli. "Veramente ti vuoi ammazzare?".
Niente aveva girato pi� in quella casa, dopo la morte violenta di "Bastiano", quattordici anni e la vita a rischio per amicizie sbagliate. In piena faida di Secondigliano, gli "scissionisti", i dissidenti del clan Di Lauro che hanno insanguinato un vasto territorio con un crescendo di sfide, il 9 marzo del 2005 spararono un colpo alla testa a distanza ravvicinata al figlio maggiore di Maglione. Aveva rapinato la persona sbagliata e doveva essere punito: ma il raid degenerò come accadeva spesso in quel periodo, nella cruenta lotta tra bande. Un inseguimento in una strada deserta e poi l'esecuzione.
Dopo pochi giorni squadra mobile e carabinieri arrestarono cinque ragazzi, tre dei quali minorenni. Sebastiano Maglione, in sella a un ciclomotore Honda Sh con un complice, aveva tentato il colpo su uno dei suoi coetanei che era fuggito andando a chiamare i rinforzi. La vendetta del branco non si era fatta attendere.

quando è no è no Lei è Alessia Orro, 23 anni, pallavolista del Vero Volley Monza e della Nazionale che ha trovato il coraggio di denunciare il suo

da https://www.storiedeglialtri.it "Avevo 21 anni, un uomo mi scriveva di continuo sui social: complimenti, avance, poi minacce. L’ho bloccato, credevo avrebbe smesso.
Un giorno l’ho trovato fuori dalla palestra, in quel momento ho capito che non si sarebbe fermato.
Mi seguiva agli allenamenti, e alle partite, prenotava negli stessi hotel in cui alloggiava la mia
squadra.
Ho iniziato a soffrire di attacchi di panico, quando lo vedevo sugli spalti facevo fatica a concentrarmi sul gioco.
Pensavo di non avere la forza, ma grazie al supporto delle mie compagne e della società, l’ho denunciato.
È stato arrestato per stalking e finalmente ho ricominciato a respirare.
Oggi, dopo tre anni, è venuto di nuovo a cercarmi. È stato doloroso riaprire quella vecchia ferita.
Per lui provo solo schifo. Come ha potuto arrivare fino a questo punto? Far provare timore a una ragazza, farla sentire così a disagio?
È più difficile se si affronta tutto da soli: non abbiate paura, denunciate ogni forma di violenza". Lei è Alessia Orro, 23 anni, pallavolista del Vero Volley Monza e della Nazionale.
Nel 2019 ha denunciato per stalking Angelo Persico, professionista novarese di 55 anni.
L’uomo è stato arrestato, ha patteggiato una condanna a 1 anno e 8 mesi di carcere, da scontare ai domiciliari.
Tornato in libertà, ha pensato bene di rifarsi vivo. Alessia se l’è ritrovato davanti al palazzetto prima degli allenamenti.
Il galantuomo è finito di nuovo in carcere, Alessia non abbassa la testa, lo fa per se stessa e per tutte le donne vittime di sopraffazioni, molestie, violenze, che troppo spesso non trovano il coraggio di denunciare.

10.4.22

Questo bimbo a chi lo do ? nel rifugio di Kiev dove si trovano 28 bimbi nati da maternità surrogata che, a causa della guerra, non possono riunirsi con i genitori biologici.

 spesso    i  giornali femminili  contengono  storie  ed  articoli interessanti    come quello che    riporto  sotto  . Fncl  a  chi mi dice  che: sono solo letture   per  donne e non  per  uomini  .,   che  sono effeminato    perchè  leggo anche  quelli   




Reportage

Questo reportage è stato scattato nel rifugio di Kiev dove si trovano 28 bimbi nati da maternità surrogata che, a causa della guerra, non possono riunirsi con i genitori biologici.

Questo bimbo a chi lo do?

A Kiev c’è un “nido segreto” dove hanno trovato riparo 28 piccoli appena nati grazie alla maternità surrogata. Ma, per adesso, figli di nessuno. Non più delle donne che per nove mesi li hanno portati in grembo, non ancora dei genitori biologici che a causa della guerra non possono andarli a prendere. L’abbiamo visitato

Chi mi ha dato l’indirizzo si è raccomandato più volte di non rivelarlo a nessuno, per paura che potesse diventare un bersaglio dei raid russi. Le guerre provocano morti ma cambiano anche i vivi, alimentando i sospetti verso chiunque. La mattina del 19 marzo sono sceso dal taxi a Kiev e sono rimasto in strada, in attesa che mi venissero a prendere. Solo 2 minuti, durante i quali però 3 passanti mi hanno chiesto con aria minacciosa perché fossi lì, fermo, senza far nulla. Se ne sono andati solo quando è arrivata la persona che aspettavo e li ha tranquillizzati dicendo che ero un fotoreporter e stavo lavorando. Mi ha fatto cenno di seguirla e dopo qualche centinaio di metri sono arrivato alla mia meta: il “nido bunker” dove dall’inizio del conflitto hanno trovato rifugio 28 bambini nati da madri surrogate. L’idea è stata di Albert Tochylovsky, proprietario della BioTexCom, la più grande clinica specializzata qui in Ucraina per quella che tecnicamente si chiama gestazione per altri.

Entro nel palazzo moderno, scendo per una piccola scalinata e arrivo alla porta di questa nursery segreta. In un attimo il silenzio delle strade semideserte viene riempito dal frastuono del pianto dei bambini. La donna che mi ha guidato fin qui, Antonina, mi fa indossare un camice blu e dei calzari. Nella prima stanza le pareti sono ricoperte di scaffali carichi di pannolini e latte in polvere, nella seconda un’infermiera sta preparando un biberon. «Smettono di piangere solo quando diamo loro il latte» mi racconta. La guardo accennando un sorriso e penso che ci vuole fortuna anche a nascere al momento giusto e nel posto giusto. Fortuna che non è toccata a questi bimbi venuti al mondo da non più di un mese. I loro genitori biologici si trovano

in Italia, Francia, Germania, chiamano di continuo la clinica per sapere come stiano i figli ma non posso venire a prenderli per colpa della guerra. «Alcune coppie sono arrivate in Ucraina e si sono fermate a Leopoli, nell’Ovest relativamente tranquillo, in attesa che riusciamo a portare loro i piccoli nel modo più sicuro possibile» mi racconta Nikolai, un dipendente della BioTexCom che ha il compito di mettere in contatto gli aspiranti genitori con le donne ucraine che porteranno avanti la gravidanza.

L’Ucraina è la seconda meta mondiale dopo gli Stati Uniti per la maternità surrogata, che qui è legale ma può essere richiesta solo da coppie eterosessuali sposate. Ogni anno nascono tra i 2.000 e i 2.500 bambini e, secondo le ultime statistiche, attualmente nel Paese ci sono circa 800 donne incinte per conto delle coppie straniere che pagano tra i 40.000 e i 60.000 euro (la metà rispetto agli Usa). Nei primi 4 giorni di guerra Nikolai è riuscito a portare fuori da Kiev oltre 10 neonati, ma con il conflitto che prosegue sempre più aspro si può solo approfittare dei momenti di tregua per trasferire il maggior numero possibile di piccoli a Leopoli e riunirli finalmente ai loro genitori biologici.

Fino a quel momento è come se questi piccoli fossero orfani. Figli di nessuno. Non più delle donne che per 9 mesi li hanno portati in grembo, ma dopo il parto li hanno lasciati in clinica. Non ancora delle coppie che li hanno fortemente voluti, ma non possono ancora abbracciarli. Solo a Kiev,

dall’inizio della guerra, sono nati 45 bambini tramite la gestazione per altri e la maggior parte vive ancora in questo limbo. Anche legale, perché al momento non è chiaro chi siano i loro tutori né quale sia la loro cittadinanza. Secondo la legge ucraina, infatti, i genitori biologici devono venire a prendere di persona i neonati ma, prima di poterli portare fuori dal Paese, devono ritirare all’anagrafe la copia del certificato di nascita in lingua originale e il passaporto temporaneo. E gli uffici ora sono ovviamente chiusi.

«Ormai questi bimbi sono come figli per noi» mi dice Svitlana, tata di 50 anni, mentre prova a calmare il piccolo che ha in braccio. Vicino a una culla una sua collega in maglione color senape sorveglia altri due bimbi: ha gli occhi stanchi di chi non riposa da giorni, ma anche la fierezza di chi svolge il proprio lavoro con passione ed empatia. Mentre cerco di scattarle una foto senza disturbare, arriva Irina. Ha un camice fucsia e grigio e avvolge tra le braccia un bebè. Con un inglese stentato mi dice che non ha intenzione di andare via da Kiev: «Abbiamo paura, ma non possiamo abbandonare questi bambini. Resteremo qui con loro fino a quando le bombe smetteranno di esplodere. Fino a quando sarà necessario». Fino a quando sarà necessario lo dirà solo il tempo. L’odore dei neonati avvolge il sottoscala segreto governato da queste donne coraggiose. A volte trovano anche la forza per sorridere, nonostante siano stremate. Una di loro pulisce il rigurgito di un bambino col bavaglino. Un’altra prova a farne addormentare due contemporaneamente, dondolandoli uno sul ginocchio destro e l’altro sul sinistro. In lontananza vedo di nuovo Antonina, seduta su un grande materasso con una bambina sulle gambe. L’orologio alle sue spalle segna le 11 e 45. All’improvviso i bambini smettono quasi tutti di piangere e dall’esterno arriva il suono delle sirene ad annunciare un altro possibile bombardamento.


Mustapha Jawara, A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno di diventare arbitro

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  • dal settimanale  Oggi 
  • In Africa, i miei amici sognavano di fare il bomber. Io no, volevo il fischietto». A 14 anni ha lasciato il Gambia con un desiderio. Ha attraversato il mare e la violenza dei trafficanti di uomini. Ma ce l’ha fatta.

                                                         Fiamma Tinelli

    La prima volta che ha indossato la divisa da arbitro, Mustapha si è fatto una foto e l’ha spedita via WhatsApp al suo amico Bunambass, in Gambia. Bunambass ha camminato per un’ora e mezza, ha raggiunto la madre di Mustapha, Jaka, che lavora nei campi e un cellulare non ce l’ha, e le ha detto: guarda tuo figlio. È vivo, è in Italia. E ce l’ha fatta.

    Mustapha Jawara, 22 anni, è il primo migrante divenuto arbitro effettivo dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Il suo è il racconto di tanti uomini e donne che attraversano l’inferno in cerca di speranza, ma non solo. È la storia di un ragazzino con un grande sogno. E di una determinazione senza pari. Quando siamo sbarcati c’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato Mustapha viene da Sanunding, un villaggio di quattro strade al confine orientale del Gambia, un Paese incuneato nel Senegal come un chiodo. Da queste parti le partite di calcio si guardano fuori dal bar, con la tv attaccata alla prolunga e le sedie di plastica per strada. «I miei amici tenevano gli occhi fissi sui bomber e sognavano di essere come Messi. Io no, io guardavo l’arbitro. Perché è lui che dirige il gioco, che dà sicurezza». A Sanunding, chi ha i soldi va alla scuola privata e impara l’inglese. Chi non li ha, come Mustapha, va alla madrasa a studiare il Corano. Che poi a Mustapha piace, il Corano, «è un libro di pace, di fratellanza», ma non è questo il punto. Il punto è che nel suo villaggio, a parte giocare a choko sul marciapiede o zappare la terra, c’è poco da fare. Un giorno, suo zio si è offerto di pagargli un corso da elettricista. A Mustapha è piaciuto, gli piacciono le cose tecniche, risolvere i problemi, «ma a che serve un elettricista in un posto dove la corrente salta ogni mezz’ora?». Così, a 14 anni se n’è andato. Senza dire niente a nessuno, perché non c’era niente da dire. All’età in cui i suoi coetanei italiani si fanno regalare il motorino per la promozione, Mustapha lavorava in un garage di Bamako, in Mali, e procacciava clienti agli autisti: se riusciva a riempire il pulmino, a fine giornata gli spettavano un piatto di riso e dieci centesimi. Altrimenti, nulla. I soldi per partire di nuovo li ha fatti così, «mettendo da parte le monetine». Aveva sentito dire che in Europa c’era lavoro, che non ammazzano la gente per strada. Il viaggio per la Libia non lo dimenticherà mai. «In macchina eravamo in venti, per pigiarci tutti dentro avevano tolto i sedili». Tre settimane di deserto, in auto, coi piedi in bocca. «Un giorno un ragazzo si è sentito male, gli mancava l’aria. L’autista ha preso a colpirlo col calcio del fucile, ma quello urlava ancora. Così gli ha sparato. L’ha lasciato nella sabbia, come un sacco».

    In Libia, Mustapha è salito sul barcone dopo sei mesi di galera, quella dove ti chiudono solo per massacrarti di botte se non paghi. A bordo c’erano uomini, donne, bambini spaventati. Un ragazzo senegalese è caduto in mare, forse s’era addormentato e ha perso l’equilibrio; il pilota s’è voltato a guardare, di malavoglia, e ha tirato dritto. Quando Mustapha è arrivato a Salerno, grazie al soccorso di una nave della Marina Militare, aveva appena compiuto 16 anni. «C’erano tante luci, ci hanno dato da mangiare e ho sentito rispetto. Non c’ero abituato». È stato al centro di accoglienza che il suo amico Massimo, un operatore, gli ha parlato del corso per diventare arbitri. Mustapha s’è messo a studiare anche di notte - rigore, punizione, calcio d’angolo - e ha passato gli esami al primo colpo. Oggi arbitra le gare degli esordienti a Polla, nel Vallo di Diano. «In campo non ho paura di sbagliare. Se rispetti le regole, ti senti sicuro sempre. Vale per il calcio, ma anche per la vita». In Gambia, gli amici sono orgogliosi di lui, ma anche preoccupati: e se ti insultano perché sei nero? Mustapha sorride e assicura che il colore della pelle non c’entra: «Se se la prendono con me è perché sono l’arbitro, punto. A Polla mi vogliono bene tutti». Dal lunedì al venerdì fa l’elettricista e lavora sodo, «perché quando un Paese ti ha salvato devi restituire, mica stare a guardare le nuvole». Lo stipendio lo mette da parte: verrà una moglie, verranno dei figli. L’obiettivo, ora, è diventare sempre più bravo. E magari, chissà, arbitrare la Coppa d’Africa. Qualche giorno fa suamadre Jaka, a Sanunding, si è fatta prestare un cellulare e l’ha chiamato. C’era poco segnale, la voce andava e veniva. Gli ha detto solo: torna a casa, appena puoi. E fa’ il bravo, ovunque tu sia.



    Una storia, la sua, che è subito rimbalzata su Facebook (  e poi su media )  , una volta tanto è veicolo di storie positive  come questa  « [....] Adoro lo sport in generale - si legge su https://www.avvenire.it/agora/pagine/mustapha che     riprende  quello sul sito web dell'Aia -, ma in particolar modo il calcio. Non ho mai avuto piedi buoni, non sono molto bravo a giocare a calcio, e così ho pensato che potevo essere un buon arbitro anche perché mi è sempre piaciuta la sua figura per la sicurezza c dà in campo. Ho imparato tutte le regole a memoria per far si che un giorno il mio sogno possa diventare realtà: sogno di arbitrare la finale di Coppa d'Africa, emulando il mio connazionale Papa Gassamma, e magari quella dei Mondiali. Sarebbe veramente un sogno perché così potrei riabbracciare la mia famiglia ed i miei amici che mi potrebbero rivedere nella mia nuova veste di arbitro ».

    e poi dicono che in Italia non si fanno figli il caso della famiglia Levi -D'ancona che aspettano il sesto figlio


      

      se  invece di finanziare  la guerra  e le  opere  inutili   finanziassero famiglie  come queste o che fanno  figli oltre  il primo       risolveremo il problema  del paese  a crescita zero 




    Francesca Levi D’Ancona attende il sesto, ha preso un’altra laurea e ha successo su Instagram mostrando come se la cava. Ci ha ospitato a casa sua: già, come se la cava?

    Francesca Levi D’Ancona se ne sta sul divano di casa, mangiando pezzetti di uovo di cioccolato (ma non dovrebbe, confessa), piedi allungati e una pancia più grande di lei, qualcosa simile a una Cima di Lavaredo su un corpo minuto. Francesca è al nono mese di gravidanza, data prevista per il parto il 1° maggio.Nella casa ora c’è silenzio, d’altra parte sono le 10 di sera. Paolo e Silvia dormono nei loro letti a castello in una stanza, in un’altra ci sono Maria, Sara e Elena. Elena però non dorme nel suo letto ma in quello di Maria, nel suo letto ci dorme il cane Puffo, nella doccia c’è il coniglio Lelli. Casa Levi D’Ancona-Brunetti a Firenze è questo: 5 figli in scala, in una casa grande ma non troppo e un profilo social da oltre 62 mila follower gestito da Francesca: come fate con5. Come da stereotipi, ma in questo caso è anche realtà, le bimbe hanno occhioni da cartone Disney mentre il maschio fa lo scorbutico. In certi sensi un ossimoro perché Paolo prende lezioni di danza classica, l’arte più gentile per definizione. E qui si apre un nuovo capitolo: Silvia sta imparando a suonare il piano e fa danza anche lei come tutti in famiglia. Il sabato Paolo fa il boy-scout, ma suona anche la chitarra, mentre con Silvia gioca a tennis. C’è da perdersi. Francesca e il marito Alessio, va da sé, fanno avanti e indietro tra scuola e extra.



    Zero capricci, si mangia quel che c’è e tutti, tranne la più piccola, si vestono da soli Sono molto magri entrambi. Costituzione certo, ma viene il sospetto che il loro movimento

    semiperpetuo contribuisca. Una mattina standard, ad esempio, vede il papà che con la bici porta due figli a scuola, uno sul seggiolino davanti e uno sul seggiolino dietro. Poi torna a casa e carica gli altri due. Poi va al lavoro. La mamma o la nonna vanno a prenderli. «Come fate con 5?», è la domanda che più spesso i follower rivolgono a Francesca. Lei cerca di rispondere con una miriade di storie Instagram, circa una ventina ogni giorno con le quali racconta la vita della famiglia dal mattino fino a quando si va a dormire («Se non faccio stories per qualche ora, mi scrivono “Tutto ok?”». Ebbene, come fanno? Francesca, sdraiata sul divano alle 10 di sera, dopo che i figli hanno scombinato persino i tappeti di casa, racconta: «I segreti sono pochi. Niente capricci, si mangia quel che c’è e tutti, tranne Sara, si vestono da soli e vanno a letto da soli». Cerca di focalizzarsi sulle altre domande che le fanno: «Molti sono interessati all’economia familiare. Siamo fortunati perché abbiamo la casa di proprietà, ma poi ci sarebbe forse da vergognarsi se fossimo stati ricchi? Per il resto io non vado dal parrucchiere, non vado dall’estetista, non mi interessa lo shopping. Non sono rinunce per me. Preferisco con i soldi risparmiati pagare la scuola ai bambini che è privata ma vicina a casa ed è la stessa per tutti e quattro i più grandi. Un grande vantaggio». Per quel che può valere, Francesca ci sembra dire la verità. Ci sono due piccoli indizi a dimostrarlo: tutti i bimbi mangiano senza fiatare quello che viene portato in tavola. Lattosio, cibi bio, allergie immaginarie non esistono: il primo è un piatto di tortellini del supermercato con panna e piselli, secondo i gloriosi menu anni ‘80, se non piace tolgono i piselli e via. E poi Francesca è sì avvolta in un’incantevole tuta a fiori, manca un bottone e uno dei pizzi è un filo rovinato. Vero: ai vestiti e al trucco bada poco.  Ha la riposta pronta anche alla più classica domanda: perché sei figli? «Perché no?», controbatte. «Con Alessio volevamo una famiglia, entrambi. Al terzo figlio ci siamo detti “perché no il quarto?” e poi “perché no il quinto?”. E ora sono in gravidanza». Francesca ha 36 anni, una seconda laurea presa ora, quando si è sposata era già incinta. Un amore molto veloce. Letteralmente: lei e Alessio si sono messi insieme a luglio 2013, si sono sposati a ottobre, lei di tre mesi. Lui era rimasto folgorato dopo averla vista a una festa con gonnellino hawaiano e conchiglie come reggiseno. Il viaggio di nozze ha toccato la Crimea e Odessa. Ricorda Alessio: «Odessa era piena di parchi e famiglie. Vedere adesso i sacchi di sabbia per difendere la città sotto assedio mi sembra impossibile», sospira incredulo. Si amano anche se non è tutto rose, come potrebbe esserlo con cinque figli e mezzo? Francesca ha perso un figlio, Elia: «Ero a fare l’ecografia ed ero sola, mi hanno detto che non c’era più il battito». Sono state le follower a fare rete attorno a lei, oltre alla famiglia e a una mamma molto presente. E poi lei e Alessio litigano, eccome. Si amano ma litigano perché a volte ad Alessio manca lo spazio, quello temporale non metrico. Gli manca non poter avere più tempo per la mountain bike, la sua passione. Poi guarda Sara, la figlia che sistema puntigliosa i tappeti di casa, lasciati in disordine dalle sorelle, o Maria che vestita da Elsa di Frozen accarezza il bianco coniglio e si sente squisitamente felice.

    8.4.22

    italiani di serie A e italiani di Serie B

    In un paese , come il nostro , che ha subito sulla sua pelle fra il 1880 -1970 i fenomeno dell'emigrazione , ed la cui costituzione e la forma repubblicana sono nate da una durissima lotta contro una dittatura ( e le sue forme di discriminazione vedi leggi anti meticciato prima e legge razziali dopo ) e da una violentissima ( non solo nel numero delle vittime ) guerra civile esiste ancora una fortissima discriminazione esiste una fortissima discriminazione accettata e tollerata dalla maggior parte del paese e per cercarla di proporla davanti all'immobilismo e chiusura parlamentare nessuno osa indire banchetti per un referendum o raccolte firme per una legge d'iniziativa popolare chela contenga . Infatti mi viene da chiedermi la stessa domanda della foto sotto riportata 
  •  dal    settimanale  Oggi
  •                                      Di ANDREA GRECO — foto di ARMANDO ROTOLETTI

  • «Studiano e crescono nel nostro Paese, non sono stranieri», dice Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia Romagna. Una nuova legge propone che, dopo 5 anni di scuola, venga data loro la cittadinanza. Passerà?

    Sono orgogliosissima». Elly Schlein , vicepresidente della regione Emilia Romagna, sceglie il superlativo assoluto per descrivere il suo stato d’animo rispetto alla decisione del comune di Bologna di dare la cittadinanza italiana onoraria ai bambini e ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, o che vivono in Italia e hanno completato almeno un ciclo scolastico nel nostro Paese. Una decisione, quella

    del capoluogo, che fa scuola: Faenza, Cesena, Modena e ora anche Napoli hanno deciso di seguire l’esempio. «Non è una gentile concessione. Si tratta semplicemente di riconoscere al tempo stesso un diritto e un’evidenza: questi ragazzi crescono e studiano nel nostro Paese. Nessuno li considera stranieri: non i loro compagni di classe, non gli amici, o i loro professori. Spesso sono nati qui, o sono arrivati quando avevano pochi mesi. Però per la legge non sono italiani. In questi giorni la commissione Affari Costituzionali della Camera ha adottato un testo per la riforma della cittadinanza, il cosìddetto Ius Scholae, che garantirebbe la cittadinanza a chi ha frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni. Ed è stato votato anche da Forza Italia. Sono per lo Ius Soli (prevede che chi nasce nel territorio di un certo Paese ottenga automaticamente la cittadinanza), ma questa proposta è un buon compromesso. Spero passi in fretta». La scorsa estate tutta l’Italia ha gioito per le medaglie conquistate dagli azzurri, e nessuno ha fatto caso che alcuni fossero di origine straniera. Magari anche questo ha contribuito…

    «Per i giovani non credo sia cambiato nulla. Loro hanno già assimilato questo cambiamento. Per le persone più mature è diverso. Gioire dei successi di atleti azzurri di origine straniera spero abbia fatto riflettere sull’ingiustizia dei tanti italiani che nascono e crescono qui senza la cittadinanza».

    Lei è cresciuta in Svizzera, suo padre è americano, ma gli avi erano di Leopoli. Sua madre invece è italiana. Lei ha la cittadinanza italiana, svizzera e statunitense. La sua storia influisce nelle battaglie per l’inclusione che conduce?

    «Influisce ovviamente, e soprattutto mi spinge anche a pormi degli interrogativi. Sono italiana per nascita, anche se ho passato i primi 18 anni in un altro Paese, mentre a tanti ragazze e ragazzi che li hanno passati in Italia questo è un diritto negato».

    Le ripropongo la considerazione standard dell’utente dei social: «C’è la guerra, l’inflazione, la crisi, la benzina a due euro e noi qui a perder tempo con lo ius

    ». A lei la chiosa.

    scholae

    «Per rispondere ho scritto un intero libro, si intitola La nostra parte. La verità è che diritti sociali e civili sono inscindibili, così come la lotta contro le diseguaglianze e contro i cambiamenti climatici. Transizione ecologica, politiche di inclusione, parità di genere non sono temi di cui occuparsi quando non c’è nulla di più importante in agenda, ma occasioni che dobbiamo sfruttare, per stare meglio tutti, persino economicamente. Se in Italia la percentuale di donne che lavora fosse uguale a quella di altri Paesi europei il Pil farebbe un balzo in avanti. Se imparassimo a sfruttare e far crescere le rinnovabili, evitando i veti incrociati, ora risentiremmo di meno del gas alle stelle. Il mondo sta cambiando e dobbiamo cambiare modo di pensare, se non per

    gli ideali, almeno perché conviene».

    mi citerebbe?

    Fino a ora abbiamo parlato dei temi cari a una nuova sinistra, così nuova che ha un’area che la sostiene, ma non un partito di riferimento. Però se lei dovesse salvare una frase della vecchia sinistra, quale «Mi viene in mente Antonio Gramsci e il suo “Odio gli indifferenti”. Perché da sempre, e ora di

    Sordi, non sordomuti la storia di di Gloria Antognozzi figlia udente di genitori sordi segnanti.

     non si finisce mai   d'imparare  e di rimettere   in discussione ciò che hai imparato . Infatti   anch'io   cadevo nell'errore  di  cui  si parla   nella lettera    sull'ultimo n  de settimanale oggi   che      ho trovato  ed  riporto sotto  insieme  alla  vicenda    di Gloria Antognozzi  (  foto  a sinistra )  figlia udente di genitori sordi segnanti. Studia alla facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione presso l’Università di Roma 3.
     Lavora come Assistente alla Comunicazione, Interprete LIS ed è socia fondatrice nonché Presidentessa dell’Associazione  CODA Italia ( https://www.codaitalia.org/ per  maggiori  informazioni    su  tale  mondo   su  cui esistono  pesanti  pregiudizi   e  sui cui m'identifico  pure  io  visti i  forti problemi di sordità  ).

    Gentile direttore,
    gli Oscar alla pellicola I segni del cuore – Coda rappresentano per la comunità dei sordi una soddisfacente vittoria a ben 35 anni dall‘ultimo film Figli di un Dio minore, ma in articoli e titoli si utilizzano termini molto obsoleti, come “sordomuto”, “linguaggio” dei segni, “linguaggio mimico-gestuale”, “non udente”. Grazie alla Legge 95/2006 art.1 la persona è definita sorda a tutti i sensi di legge e decade il termine “sordomuto”, inappropriato, dal momento che il sordo può imparare a parlare, in quanto l’apparato fonatorio è integro. I sordi preferiscono il termine “sordo”, invece di “non udente” perché è la negazione di un qualcosa che non esiste. Inoltre i sordi non usano un linguaggio ma la Lingua dei Segni Italiana (LIS – senza i puntini fra una lettera e l’altra), una lingua che ha una propria struttura, regole grammaticali, sintattiche, morfologiche e lessicali come una qualsiasi lingua parlata. Non esiste la lingua dei segni universale, così come non tutto il mondo parla l’esperanto. Infine, non è neanche corretto dire o scrivere “Linguaggio mimico-gestuale”. I sordi usano segni che non vanno confusi con la comune gestualità utilizzata dagli udenti per enfatizzare un discorso e rispettano regole sintattiche ben precise.


                                                Vanessa Migliosi, presidente Movimento Lis subito



    La casa coi lampeggianti quando suona il telefono, l’infanzia passata a far da interprete fra i genitori e il mondo. Come Ruby, la protagonista di Coda - I segni del cuore, il filmdell’Oscar, Gloria Antognozzi vive sospesa tra due realtà. E in una, c’è solo il silenzio

    La prima volta che Gloria Antognozzi ha cantato in pubblico, in una chiesa gremita, suo padre si è addormentato e sua madre ha dovuto tirargli una gomitata. «La gente aveva le lacrime agli occhi e i miei si guardavano attorno straniti: ma che avranno da piangere, tutti? E quand’è che tocca applaudire?».

    Romana di Portonaccio, 29 anni, qualche giorno fa Gloria è andata a vedere CODA – I segni del cuore, miglior film agli Oscar. E ha pianto, «perché parevo io». Anche Gloria, come Ruby, la protagonista, è la figlia udente di genitori non udenti. Anche lei è cresciuta tra due mondi, uno che sente e l’altro che parla con le mani. Anche lei ama i suoi genitori ma ha sentito la fatica di dover fare da tramite, «semplicemente perché senza di te tua mamma non può neanche comprare un’Aspirina». Oggi, il suo essere “diversa figlia di diversi” Gloria lo vive come una ricchezza: interprete Lis, la lingua italiana dei segni, lavora con alunni non udenti, gira documentari, ha tradotto le canzoni di Emma e Irene Grandi a Sanremo. Ma per lei, trovare una sintesi tra la vita in casa e quella fuori, tra quel continuo “noi” e “loro”, non è stato facile.

    Lei cantava, ma ha smesso. Perché?

    «Mi sembrava di fare un torto ai miei genitori. Quando mi hanno ammessa all’Accademia di Santa Cecilia non sapevo che dire: come glielo spiego che ho una bella voce? Per loro esiste solo il silenzio».

    Come si è innamorata del canto?

    «A casa nostra, ovvio, la musica non c’era. Finché un giorno mio padre arrivò con uno stereo per me e mia sorella Susanna, udente anche lei. Guardavo questo coso come fosse un alieno, ricordo che passai una giornata ad ascoltare I migliori anni della nostra vita, a nastro. Mi addormentai abbracciata alle casse».

    Quando ha capito di vivere in una famiglia diversa dalle altre?

    «Subito. Gli altri bambini chiamavano la mamma e lei arrivava, io, se mamma era girata di là, dovevo andare a tirarle la maglietta. Ho imparato a chiedere l’acqua prima con le mani che con la voce, a casa nostra esisteva un lampeggiante per il telefono e uno per il campanello. E poi c’erano le domande dei compagni, a scuola».

    Cosa le chiedevano?

    «Di tutto. Perché i miei genitori avessero una voce strana, se potevano guidare, perfino se sapevano leggere. Per alcuni era una curiosità bella, un’amica che veniva spesso a giocare a casa nostra aveva imparato a segnare: “buongiorno!”, “posso avere un succo di frutta?”. Qualcuno ci invidiava pure un po’, perché io e Susanna potevamo par

    lare in codice e nessuno ci capiva. Nel quartiere, però, mi hanno chiamata a lungo “la figlia della muta”. Che poi, mia mamma è tutt’altro che muta: quando alle superiori mi bocciarono e la preside le rivelò che avevo saltato un sacco di lezioni, la sentii gridare fin giù dalle scale. Lì cominciò la stagione dei colloqui alternati coi professori».

    Alternati?

    «Sì, perché mamma aveva capito benissimo che mia sorella e io traducevamo la metà di quello che le dicevano gli insegnanti. “Sua figlia ha fatto un compito da schifo” diventava “S’impegna molto ma potrebbe migliorare ancora”. Era furiosa: “Ma mi pigliate per scema?”. Finì che agli incontri sulle pagelle di Susanna mamma portava me e ai miei faceva tradurre lei».

    Quanto le è pesato, questo continuo fare da ponte?

    «A12 anni stavo in banca a contrattare il mutuo per i miei, e chi lo sa come si segna “tasso d’interesse”? Mia sorella e io abbiamo dovuto crescere in fretta, più in fretta di quanto fosse giusto. Ma la colpa non è dei miei genitori, che ci hanno sempre fatto vivere la nostra diversità come una ricchezza. La colpa è di una società che non si organizza per sostenere chi non sente, che non provvede agli interpreti, che non informa. L’anno scorso, quando mia mamma ha chiesto a una commessa la cortesia di abbassarsi la mascherina per poterle leggere le labbra e capire cosa dicesse, quella si è messa a urlare e l’ha allontanata. La pandemia è stata un disastro».

    Nel film c’è una scena in cui Ruby chiede a sua madre: «Avresti preferito che fossi come te?». È una domanda che ha fatto anche lei?

    «Come no. Mamma mi ha sorriso e ha risposto che sì, quando siamo nate ci avrebbe voluto sorde, ma poi s’è detta “pazienza, impareranno questo e quello”. Le dirò di più: ci sono stati momenti in cui io stessa avrei voluto essere uguale a mamma, a papà, ai loro amici con cui passavamo ogni vacanza, in cui mi sono chiesta a che mondo appartenessi. È difficile trovare un confine».

    Se un giorno fosse lei, la mamma?

    «So cosa intende, la sordità è ereditaria. Esiste un test genetico per capire se sei portatore, ma io ho deciso di non farlo. Se avessi un figlio, lo amerei e basta».

    Lo psicolinguista americano Harlan Lane diceva che la sordità non è un handicap, ma una cultura.

    «È verissimo. I sordi hanno una loro storia, i loro poeti, il loro modo di raccontare il mondo, un loro sense of humour e ne vanno orgogliosi. Infatti si dice “sordo”, “non udente” è una formula offensiva, non identitaria. E l’identità sorda per loro conta moltissimo, perfino quella regionale. Il segno di “daje”, per dire, ce l’abbiamo solo a Roma, a Torino mica lo conoscono».

    E la bella voce di Gloria? Dove trova spazio, in tutto questo?

    «Sto lavorando su me stessa per capirlo. Oggi canto solo quando vado in motorino, per strada. Certo, un palco tutto mio... Ora so che mamma non può sentirmi, ma gli altri sì. E forse è venuto il momento di farci la pace».


    Addio a Mauro Morandi, «Robinson Crusoe contemporaneo»,ed ex custode dell'isola di Budelli .

    da msn.it  Addio a Mauro Morandi, «Robinson Crusoe contemporaneo», originario di Modena, che per 32 anni ha vissuto da solo nella piccola is...