..... si legga questa storia che rispetto e che testimonia sempre più l'urgenza di un testamento biologico e di una legge che ti lasci la posibilità di scelta fra un opzione come questa riportata qui sotto e quella scelta da Eluana e portata a vanti dai genitori
A tutti gli utenti del mio blog e non solo che nei post pro eluana e testamento biologico mi accusano di essere a senso unico , di parte , fazioso , contro la vita , ecc ( e altre baggianate \ boiate che ho cestinato perchè offensive , volgari ed arroganti ) , Ma prima di passare alla replica rispondo riggettand9o le accuse di faziosità , d'essere a senso unico ( sìperchè se cosi fosse avrei cancellato anchei commenti contrari al mio punto di vista ) , e accettando le critiche d'essere di parte , perchè lo sono stato , ma davanti a temi delicati come questi è impossibile essere obbiettivi , ma d'altronde è meglio essere di parte che indifferenti e apatici e lasciare che siano glia ltri a decidere per te , ed ed in questo caso del tuo corpo e e e della tua vita se continuare a vivere in queslle condizioni o morire con dignità . Adesso vi lascio alla risposta vera e proopria che è costituita da questa canzone ( eccovi qua il video in questione http://www.youtube.com/watch?v=0HB2UZztdvI )
LAICO REGGAE
Sai che mi è sempre mancato? uno spirito etico autentico e addomesticato. Ma è tardi ormai per la questine morale... è come imporre ai tuoi 26 figli un anticoncezionale. Sull'aborto invece è lei che deve deliberare perchè l'uomo è cacciatore ma ha paura a sparare. Ma alla mia età vivo bene anche queste contrarietà guardo in alto e mi convinco che Dio è laico come me... è laico come me... è laico come me...
La vita è in se preziosa chi l'ha mia negato? Ma purtroppo non c'è nulla al mondo che sia più a buon mercato... per questo credo che con un pluriassassino avremmmo pure il diritto di farci qualche bel giochino... Disprezzo invece queste perversioni del sesso ma se non picchio mia moglie il cane non si gode l'amplesso.
Ma alla mia età vivo bene anche queste contrarietà guardo in alto e mi convinco che Dio è laico come me... è laico come me... è laico come me...
Genetica etica dimmi se passiamo la soglia se clonando un uomo non si rischia di clonare la noia. Ma come può evolversi l'uomo se fa l'impegato? Imparando dei buoni motivi per darsi malato? Nell'etica come per radersi ci vuole esercizio
e con questa storia tratta dall'unione sarda (( giornale filo berlusconiano ) del 27\9\2009
Piacere Ale, ex vegetale L'incidente in moto d'acqua, il coma: «Ora mi laureo»
Quando ti predicono una vita da vegetale è un miracolo se riprendi a parlare, camminare, sorridere. Ma Alessandra Pisu è una donna d'acciaio. E a sette anni dall'incidente che ha stravolto la sua vita e a due dalla maturità conquistata con un'immensa forza di volontà ha deciso che tra una seduta con la psicologa e il neuropsichiatra e sfiancanti esercizi con il fisioterapista e il logopedista vale la pena di combattere per un'altra sfida: la laurea. «Mi sono iscritta in Scienze politiche e ho dato due esami, micro e macro economia. I voti: 18 e 20». Pantaloni blu aderenti, maglia bianca, sneakers ai piedi, capelli tinti di un rosso discreto, trucco curato, Alessandra racconta la sua seconda vita seduta su una sedia del bar di famiglia, By Marcella, locale storico di via Mameli.
Tono cupo, cervello attivo come e forse più di prima, certamente più avanti del suo fisico ancora lento, ha uno sguardo birichino e un senso dell'umorismo finissimo. Le sue battute, spesso in sardo, fanno ancora più ridere perché parla come un disco rallentato. Spiazza, sorprende. Lei lo sa ed è la prima a sorriderne. Scherza molto, tranne quando parla del suo cruccio: «So che molte persone si occupano di me e che è necessario. Mi piacerebbe essere più indipendente e non pesare sugli altri, soprattutto economicamente. Vorrei lavorare, ma nelle mie condizioni è difficile».
Le sue condizioni sono “postumi da trauma cranico encefalico con emiparesi destra”. Conseguenza di un incidente in moto d'acqua, il 3 febbraio del 2002. Appassionata di sport estremi, Alessandra passava le sue giornate tra il bar di famiglia, dove lavorava e gli amici. Quel giorno era sullo specchio di mare davanti al D'Aquila quando la sua Yamaha Jet Sky 800 si era impennata. Lei era stata come eiettata e si era schiantata contro un muro d'acqua. Quando era arrivata al Brotzu non aveva un graffio ma era in coma profondo. Ai genitori i medici non avevano dato nessuna speranza. «Ci dissero che sarebbe rimasta un vegetale», racconta Antonello, il padre. Un mese in coma profondo in rianimazione, poi il trasferimento in neurologia. Dopo un mese e mezzo a Villa Beretta, la clinica specializzata di Costa Masnaga, vicino a Lecco, dove sono stati curati Umberto Bossi e Marco Columbro dopo i rispettivi ictus. Dopo sei mesi aveva riaperto un occhio, dopo 15 giorni il secondo. Piano piano migliorava, un frammento di capacità in più ogni giorno. Per cercare di comunicare, i genitori le scrivevano le lettere dell'alfabeto in un foglio e lei le indicava. La prime frase che aveva detto, raccontano, è «Ho combinato un casino».
Sei mesi dopo Alessandra era rientrata a Cagliari su una carrozzina. Per altri sei mesi aveva fatto una rieducazione minima poi l'avevano trasferita in un altro centro specializzato a Torino. Lì le avevano restituito le capacità cognitive: un anno e mezzo di lavoro duro, anche con un robot che la guidava nei movimenti aiutandola a coordinarsi. Piano piano aveva riacquistato la memoria breve, che prima balbettava. Anche se, chissà perché, ricordava benissimo i numeri di telefono. Rientrata a Cagliari, ha proseguito con le sedute quotidiane di rieducazione. È migliorata ogni giorno, faticando. Ora Alessandra cammina solo se sorretta e parla a fatica. È disabile, ma viva e le sue capacità intellettive sono integre. Anche per questo nel 2006, incoraggiata dai genitori, ha deciso di riprendere gli studi di ragioneria ai corsi serali del Leonardo Da Vinci e di diplomarsi. Ha lavorato duro ma ha rischiato di gettare tutto all'aria perché alla fine del primo quadrimestre non le avevano ancora dato l'insegnante di sostegno. Il padre, dopo aver atteso a lungo, aveva denunciato pubblicamente l'ingiustizia e l'insegnante glielo avevano dato. L'anno successivo, luglio 2007, si era diplomata: lenta ma preparata, aveva parlato di Alessandro Manzoni e di forme di Stato e di governo, di immobilizzazioni finanziarie e di questione meridionale. Antonello e Marcella, i genitori, quando ha finito l'esame hanno pianto. «Sono felice per lei e spero che la sua esperienza incoraggi altre persone nelle sue condizioni», aveva detto il papà commosso. Dell'incidente Alessandra non ricorda nulla. E della sua vita precedente ha solo qualche flash: «Cose insignificanti, come dettagli della casa di mio nonno» che, chiarisce il padre, è morto 25 anni fa. Il neuropsichiatra e i genitori l'hanno aiutata a ricostruire tutto, senza nascondere nulla. Il lavoro dietro il banco del bar, il pattinaggio, la passione per il bungee jumping e gli sport estremi, gli amori, i viaggi, l'incidente, il risveglio dal coma e l'aggressione ai genitori. «So che gliene ho dette di tutti i colori» (una classica reazione post coma). «In questi anni», dice, «ho capito che cos'è l'amicizia. Dopo l'incidente quasi tutti i miei amici mi hanno voltato le spalle. Sono fuggiti, proprio quando ne avevo bisogno. Sono ignoranti e l'ignoranza è trasversale: grandi e piccoli, ricchi e poveri, maschi e femmine, laureati o con la licenza elementare. Mi trattano con modi bruschi, qualche volta dicono cattiverie sulla mia condizione, pensano che io non sia in grado di intendere e di volere. E invece capisco molto più di loro. Ed ho sviluppato una sensibilità che mi consente di individuare le persone sincere e quelle false e a diffidare dal falso pietismo. Giada no. Giada, una delle dipendenti del bar di famiglia, è un amica vera. Ogni volta che la guardo penso all'amicizia» (dall'altra parte del bancone Giada la guarda, sorride, strizza l'occhio e le manda un bacio). Poi ci sono Antonello e Marcella, il padre e la madre. Hanno seguito ogni momento del suo calvario, hanno fatto sacrifici per farla seguire nei centri migliori d'Europa, l'hanno incoraggiata e sostenuta e la spronano quando cede al pessimismo fornendole l'energia giusta per guardare oltre i mille ostacoli che si è trovata e si trova davanti. «Se non avessi avuto loro non mi sarei salvata, non potrei sedermi in una sedia all'aria aperta come ora (piange). È grazie a loro che vedo il sole e la luna. Li sentivo quando mi dicevano che non mi avrebbero mai abbandonata. Sentivo mio padre che mi diceva prova a camminare, vedrai che ce la fai e sentivo mia madre vicina, lei c'era e c'è sempre. Ora so che sono orgogliosi di me, più di quanto non lo fossero prima». Tra i suoi amici ci sono la psicologa Pina Garippa, che incontra una volta alla settimana, il logopedista e il fisioterapista, che stanno con lei almeno otto volte al mese e Luca Pani, neuropsichiatra che l'ha aiutata a sconfiggere il pessimismo dei medici e a tornare ad essere un essere umano. Poi c'è un toscano di 38 anni, il suo fidanzato. «Sono innamorata di lui, anche se ci vediamo poco». È per lui che si è presa una pausa dall'università: «Ma riprenderò presto». Ale passa il tempo tra una passeggiata con il padre o qualche amico, i solitari al computer e i cruci puzzle e By Marcella, la seconda casa. «Vorrei insegnare ai miei a farsi fregare meglio dai fornitori», si rammarica. Usa una sola mano, ma le basta. Vorrebbe imparare ad usare meglio il computer e cerca qualcuno che le insegni a navigare su internet. Si è fatta fare due tatuaggi: uno tribale a ridosso del fondo schiena e uno nel polso. «Volevo verificare se avevo sensibilità nella pelle», spiega mentre esibisce un ghigno beffardo. Vorrebbe incontrare i calciatori della Juventus (che giocherà a Cagliari il 29 novembre). Tifosa sfegatata, nel '96 era all'Olimpico di Roma ad assistere alla finale di Coppa dei campioni (Juve - Ajax 5-3), era a Monaco l'anno successivo quando la squadra allenata da Lippi perse la seconda finale consecutiva con il Borussia (1-3), era ad Amsterdam ad assistere alla vittoria del Real Madrid, altra finale persa. Ammira Alex del Piero, unico superstite di quell'epoca. «Vorrei incontrarlo», dice, anche se una volta con l'aiuto del padre gli ha scritto una lettera ma lui non le ha risposto. Antonello dice che se Alessandra fosse in grado di guidarla le ricomprerebbe una moto d'acqua. Ma non può. Forse lo dice per stimolarla, per spostare in avanti l'asticella e indurla a conquistare un altro record. Quest'estate sono stati a Miami, dove Giada ha un fidanzato. Le foto la ritraggono a Villa Vizcaya, in ristorante, in un centro commerciale, nel lungomare. I suoi pensano di aprire un locale lì e di trasferirsi con lei. Ale ci pensa: «Mi piacerebbe». Ma prima vorrebbe incontrare i medici che le avevano predetto uno stato vegetativo perenne. «Vorrei guardarli in faccia e dirgli: O teste di cavolo, perché mi avete detto che non mi sarei mai ripresa. Avreste fatto così se si fosse trattato dei vostri figli?» .
Per le strade ho visto i primi cesti ricchi d'autunno! Castagne...funghi profumati di terra l'antico melograno sta per donare i suoi frutti ricchi di buon augurio! Nei vicoli si sente... il profumo del mosto che ribolle nei tini. Mi manca il giallo degli alberi e quel dolce calare di foglie accompagnate da folate di vento. Piano...piano la terra si copre di pennellate di giallo di rosso il pittore ci regala un'immagine di una morte solo apparente. Per i giovani semi la vita si assopisce sotto uno strato di foglie per donarci in primavera ancora la vita. La sera quando il primo freddo si fa sentire penso alla mia vita passata guardo in silenzio la fiamma scoppiettare nel camino e dalla finestra della sala restano i rami spogli dell'albero delle noci le ultime foglie rimaste cadono silenziose. Con gesti lenti attizzo la legna in cerca di calore una nuvola di faville colorate fuggono nella cappa annerita dal tempo m' assesto nella poltrona con gli angoli consumati accarezzo il tessuto cerco nell'ordito la trama della mia vita che è appena passata. Stringo il mio corpo tra le mie braccia sono felice che posso ancora godermi la vita e la bellezza delle stagioni. franca bassi
Lo sai? Er mònno è bello epperché è vàrio! Non tutte le ciammelle sortono co' er bucio! Ce so' ciammelle e ciammelle Ce so' quelle tonne e belle ce so' invece quelle senza er bucio ma so sempre ciammelle e so' sempre bòne e belle! franca bassi
Intervista a Del Papa, autore di Ti vivrò accanto. La favola infinita di Renato Zero
Massimo Del Papa (Milano, 1964), giornalista ("sono uno che scrive", corregge lui) è seduto di fronte a me, spettinatissimo, con un orecchino nuovo fiammante al lobo sinistro. “Di' che gesticolo molto, rido spesso, mi agito e bevo a piccoli sorsi un misterioso liquido ambrato”, mi suggerisce, sornione. In realtà basta il suo sguardo attento, la sua sagoma dinoccolata e scomposta a catturare l’attenzione.
- Ricordo quando mi accennasti per la prima volta al libro. Per scriverlo, hai impiegato una trentina d’anni… Aggiungo: si sente. È un libro che hai scritto per te: ed è una delle ragioni del suo fascino.
- E pensare che se non fosse stato per Marinella Venegoni, una persona speciale che ha scritto una prefazione molto lucida, non l’avrei mai pubblicato. Tu sai che Renato ha reso sé stesso un ponte per la vita di tanti. Ha stravolto il suo talento da fine a mezzo, per incidere, per cambiare molte vite.
- Inconsapevolmente…
- Certo, come dev’essere per ogni vero artista. E qui sta la sua forza. Ho conosciuto un’infinità di gente che mi ha detto: lui non ti molla, è presente davvero, diventa persino invadente se decide di starti vicino. Bene, questo libro ha preso qualcosa della storia che racconta.
- All’inizio volevi intitolarlo Un anarchico conservatore. Poi hai optato per Ti vivrò accanto, molto più suggestivo…-
- Ti vivrò accanto è uno dei versi più belli del suo canzoniere; volevo anche raccontare una favola, come recita il sottotitolo, infinita perché di questa vicenda umana si parlerà ancora fra cent’anni. Lui, Zero, può essere tutto ma non risulta mai mediocre. In un Paese che di mediocrità vive, e se ne vanta. Non dimentichiamolo: a 27 anni ne aveva già addosso 14 di gavetta, quattro dischi, l’Orfeo 9, i giri per Roma con Fellini, Ruzante in teatro, le coreografie di Don Lurio, Rita Pavone, l'Hair di Patroni Griffi, il Piper e tutta quella vita… ed era già tanta vita.
- Taluni, però, potrebbero equivocare: “Ti vivrò accanto”, cioè: sono uno di voi… - No, Renato non è affatto “uno di noi”. Ti sfiora, ti passa vicino, ma le sue coordinate sono troppo diverse: non sta in te, e tu non sei in lui. I sorcini, che lo hanno cristologizzato, se ne facciano una ragione. È un anarchico conservatore, propone modelli che vanno bene per la società, ma lui se ne esorbita, sta altrove. Ti vive accanto, ma non lo puoi afferrare, fare tuo. Con la sua arte ha fatto più di mille convegni, ha sdoganato le diversità (non solo quella sessuale). Quando nelle scuole parlo di lui, come di Zappa e di altri esempi illustri di anarchici conservatori, mi riferisco all’individualità, alla specificità, che comprende la diversità, il coraggio di non conformarsi.
- Qualche purista sobbalzerà leggendo il nome di Zero accanto a quello di Zappa. Ma io rammento bene che, sul finire dei ’70, si indicava come possibile erede di Renato un nostro talentuoso concittadino, Faust’O [cfr. il sottostante video], che gli somigliava un po’ anche fisicamente, così emaciato e spettrale, e anch’egli portabandiera d’un rock all’avanguardia, anticipatore del punk, con testi disinibiti e iconoclasti. - Certo, ma tu pensi che oggi potrebbe nascere un Renato Zero? Dicono: Renatino, tutto cuore… Ma era durissimo, fortissimo quel ragazzo. Con una incrollabile fiducia in sé stesso. Una macchina da guerra con un cuore. La gente non lo sospetta, non ha gli strumenti analitici per uscire dalla soggezione: mi piace=bello, non mi piace=brutto. Io ho tentato una chiave di lettura diversa, gli sono… vissuto accanto [risate], senza bisogno di fregole, di gossip. Vincenzo Incenzo ha notato: “Lo conosci meglio tu, che non l’hai mai incontrato, di tanti che gli vivono intorno”. Ma bastava ascoltarlo. Non esiste artista più autobiografico, più sincero. Dove lo trovi uno che ti dice che si sente un fallito, che si è inventato un circo “per non essere così”, per non ammettersi altrimenti? Non puoi chiedere di più a un artista. Il suo canzoniere è un po’ come l’Ecce homo di Nietzsche.
- Volevo restare su quell’aggettivo, “conservatore”, che si presta anch’esso a grandi equivoci. Mi è capitato persino di leggere che la critica all’aborto contenuta in Tragico samba (fra l’altro un brano piuttosto cinico e disincantato, come hai osservato tu, molto “lacero”, metropolitano, con persino un accenno a un fratello incestuoso, alla faccia della santità della famiglia…) era motivata dalla... fede cattolica di Renato.
- Ma figuriamoci! Conservatore non significa mica reazionario. Il vero ribelle non può che essere conservatore, perché gli stanno a cuore i temi ultimi, i punti nodali dell’esistenza. Che sono sempre quelli, da che mondo è mondo. E, al tempo stesso, sempre in movimento.
- La passione etica, come in Pasolini, altro anarchico conservatore…
- Esatto.
- Conservatore anche perché, mentre da un lato lo si additava come scandaloso, dall’altro lo si accusava di barare, dall’altro ancora di presentare una figura di “diverso” sempre sofferente, quindi, in ultima analisi, rassicurante per la società “normale”. A me non pare. Il solo fatto di aver infuso coraggio in tante persone mi darebbe ragione, ma i suoi brani sono “a tutto tondo”: non si limitano a denunciare l’emarginazione, hanno dimostrato che l’amore può nascere ovunque e per chiunque, e hanno descritto la bellezza di questi amori. Anche i loro limiti, certo, perché la sua visione è realistica, mai idealizzata.
- La maledizione di questo Paese è che tutti militano, stanno chiusi non nei barattoli ma nelle categorie. Io, per esempio, non reggo più quei giornalisti che anche seduti sul cesso fanno i giornalisti. Non c’è altro posto al mondo dove tutti ripetono: ah, io non sono come gli altri, io sono particolare e anche pazzo (che è una trovata miseranda per dire: sono egoista, stronzo e viziato, e voi dovete prendermi così). Però, al dunque, tutti si infilano in qualche militanza. Non voti a destra, “sei” di destra. Non voti a sinistra, firmi una cambiale a vita con la sinistra, qualsiasi cosa accada. Non sei uno con qualità sue, sei un gay, una lesbo, un macho, una velina, un terrone, un padano o quel che ti pare. Ma come si fa a vivere così? Come andare in un negozio di musica e chiedere: mi dà una chitarra ritmica, me ne dà una solista? Ma compra una maledetta chitarra e poi suonala! Zero andava in giro con una gallina al guinzaglio, che è molto meglio della scimmia sulla schiena. Anche perché, alla fine, la gallina te la mangi! L’importante è non tradirla mai, quella gallina, e io credo che, in fondo, Renato non l’abbia mai tradita. Devi adattarti, in qualche misura, ma alla fine penso che lui sia sempre lui. Come si dice: immorale nelle cose piccole, morale in quelle grandi. Sai perché alla fine gli si perdonano anche le scivolate retoriche, quell’andare a parlare di povertà francescana ad Assisi, con il parco macchine e la villa su piazza di Spagna? Perché alla fine lui dà molto di più di quel che riceve. Ha fatto felici milioni di persone per quarant’anni. Ha dimostrato, in particolare, che le provocazioni, le tutine, gli zatteroni, non erano fini a sé stesse, ma armi con cui scardinare certe incrostazioni. Ha mandato letteralmente a quel paese l’industria discografica e tu sai che queste cose, in Italia, si pagano. Poi è “imperfetto”, sicuro. Dicono che ha sempre recitato? E chi non lo fa? Io a muovermi sul palco ho imparato da lui. Da lui e da Keith Richards! Alla fine, non è più recitare. È liberare la parte più profonda e pericolosa.
- E, anche, il rapporto con le donne, sicuramente molto complicato, spesso conflittuale, sempre sofferto. Però non mi sembra corretto parlare di misoginia riguardo al primo Zero, i suoi pezzi al contrario di brani eseguiti da altri non mi hanno mai offesa, ho sempre avuto l’impressione si rivolgesse non all’intero genere femminile, ma solo a specifiche persone.
- La misoginia del Renato degli esordi somigliava molto da vicino a quella di Mick Jagger, che non a caso è stato uno dei suoi modelli.
- Insisto: in questa prima fase nessuna visione stereotipata, ma storie di vita (sue o altrui), donne singole e molto reali, corpi e non miti, rapporti paritari. Insomma, e per fortuna, nessuna Bella senz’anima in casa Zero, nemmeno nella canzone che tu ritieni più violenta, L’ambulanza.
- Sì, molto violenta.
- E, come violenza, lo si potrebbe avvicinare a Jim Morrison, a Iggy Pop. Visto comunque che abbiamo citato Tragico samba vorrei rimanere su Zerofobia. Come sai io adoro quel disco, lo ritengo la carta d’identità di Renato. È un disco “di cronaca”: più precisamente, di cronaca nera. Mi ricorda certe riviste, o rivistacce, degli anni ’70. in bianco e nero. A ciò affianco un libro uscito nel ’78 per Savelli, Lo scarico, ambientato naturalmente nelle borgate romane. Era il diario-verità (con tanto di nomi e cognomi, oggi in nome della privacy sarebbe impubblicabile) di Marco e Maria, “adolescenti ‘diversi’ del ghetto metropolitano” recitava la quarta di copertina. Violenza, degrado, squallore ma anche desiderio di riscatto, imprecisa ma concreta voglia di uscire dall’inerzia e di “entrare nella storia”, per dirla sempre con Pasolini…
- Zerofobia? Lo amo! Contiene lo spirito del tempo. Se vuoi capire cos'erano gli anni ‘70, devi ascoltare Zerofobia... di qualsiasi cosa parli! C'è qualcosa di malsano lì dentro, e non voglio neanche sapere come sia stato messo insieme. È uno dei pochi, veri dischi rock in Italia. Ma, dopotutto, uno dei talenti di Renato è sempre stato quello di cogliere il momento in cui viveva. Lui non è mai fuori sincrono, i suoi dischi sono utili a capire l'epoca da cui sgorgano ed è per questo che li ho scelti come filo conduttore per il mio lavoro, che poi è un libro su mezzo secolo di storia italiana. Basta saperli leggere in controluce. Prendi anche Zerolandia, l’album più pornografico della sua carriera…
- E anche il più allegramente amorale (mi riferisco almeno a certi pezzi), oggi si sente molto la mancanza di dischi così. A Matrix un brano come Triangolo aveva messo d’accordo tutti: donne, uomini, cristiani, musulmani, pagani… Ammiccavano divertiti e liberatori a quelle note maliziose.
- Lui aveva compreso che la gente s’era rotta di tutta quella violenza, quel sangue, e non parlo delle borgate adesso, ma degli anni di piombo. Non se ne poteva più. Ricordo i mondiali d’Argentina… tutta quell’euforia assurda. Ma avevano appena ammazzato Moro e si voleva dimenticare tutto. Lui reagiva a modo suo. Con una polemica in apparenza stralunata, in realtà affilatissima. Ah, voi volete la guerra politica? E io vi do le ammucchiate e le scopate con i trans! Sbattiamoci, quella era pericolosa davvero. Ma a molti ha fatto comodo prenderla come uno scherzo: “Ah, Zero, quel depravato!”. In fondo, è sempre lo stesso gioco. Fin da quando il “Times” titolava, a proposito dei Rolling Stones sbattuti in galera: Chi spezza le ali a una farfalla?. Per dire, sono solo dei ragazzi, non sono un nostro problema. Invece lo erano, eccome! E lo era Renato Zero all’epoca. Poteva scatenare comportamenti di massa, rivolte di massa, poi se n’è reso conto e a un certo punto ha chiesto "Tregua". Ma a Fantastico se n’è ricordato nuovamente: Viva la Rai, e arriva bardato come una drag queen: “State attenti, borghesucci da sabato sera, che se solo voglio, vi tolgo ancora il sonno!”. Oggi chi è capace di scatenare maree collettive? Un pivello uscito dal serraglio della De Filippi?
- Tu scrivi che Zerofobia, l’album “maledetto” di Renato, si conficca nel cuore dei fans ben deciso a restarci. Io non sono del tutto d’accordo. Molti, per esempio, sostengono che il capolavoro di Renato sia Amore dopo Amore. E, in un recente sondaggio, la terza canzone più rappresentativa di Zero, almeno secondo certi fans, sarebbe I migliori anni della nostra vita.
- Beh, sì, ascoltano Amore dopo Amore o I migliori anni (che ho definito "brano infingardo") e dicono: mio Dio. Ma perché amano venir soggiogati dalla quantità, da una proposta eclatante. Non hanno memoria storica. Lui, Zero, in questo è memoria storica e ha ragione a dire “è la memoria che ci rende interessanti”. Basta che sia memoria però, che non diventi presente, che non se lo mangi. Alcuni miei colleghi sono rimasti agli anni ’70. Non li sopporto, mi sembrano deficienti. Per me Renato Zero ha fatto bene a un certo punto a piantarla con le piume e le trombette. Non duri per sempre, non puoi fare a sessant’anni quello che ti riusciva a venti, e non solo per limiti fisici: se sei un artista intelligente non ti basti più, prosegui. Torniamo ai Rolling Stones. Io potrei uccidere a richiesta di Keith Richards [risate]. Ma vederli sempre uguali a sé stessi, condannati a danzare anche dopo morti, come pupazzi ossuti e macabri, mi preoccupa. Renato Zero ha compiuto questa magia, un successo spropositato nei ’70, la perdita di questo successo, il rinnovato trionfo con gli interessi nei ’90: il tutto, rimescolando gli ingredienti. Prima c’era un matto che con parole matte diceva cose di buon senso. Poi è arrivato questo “saggio”, vestito di scuro, che ogni tanto lascia balenare l’antica follia: “C’è sempre un cobra che dorme, eh eh!”. Lui è un maestro in questo…
- Si potrebbe facilmente obiettare che la saggezza può sconfinare, talvolta, nella retorica e nel perbenismo. Non mi sembra che Renato ne sia rimasto sempre immune. Fra l’altro, l’ha ammesso lui stesso: il pubblico mi segue per quegli anni là…
- Sbaglia. Conosco centinaia di fans convinti che lui abbia cominciato con I migliori anni… e lo amano! Si emozionano, provano gli stessi sentimenti che provavamo noi. Poi certo, io gli mostro, oppure scoprono da soli, su Youtube, di cos’era capace venti, trent’anni prima e… scatta la zeromania, la zerofobia e la zeroisteria. A ritroso! Presso le giovani generazioni di zerofolli parte come una caccia al tesoro, ma non è determinante, è solo un amore in più. Lo vogliono anche cominciando da oggi, e questo è degno di nota. Vado in giro e mi dicono: trattacelo bene Renato, ci appartiene, è nostro. E io: cazzo, uomo, ho fatto un libro su di lui! [risate] Comunque sì, lui ormai è una istituzione e questo è il suo attuale pericolo. Nessuno più lo contesta, lo mette in crisi, mentre lui è un uomo da battaglia.
- Piera Degli Esposti, dopo aver assistito alla commediaQuattro dischi e un po' di whisky, scritta da Roberto Biondi e ispirata ai brani del Nostro, ha dichiarato che quel testo mette in evidenza la solitudine di Renato.
- Non ho visto lo spettacolo ma, nel mondo attuale, un artista come Renato Zero non può che essere solo. Del resto, la solitudine è il tema che lui affronta di più, da sempre. L’Italia non ti perdona il tuo essere tu, ti vuol definire, cioè ridurre. E Zero a me sembra sempre un uomo solo, con dentro certe cose, certi esami di coscienza che, per quanto ne canti, non può davvero sperare che qualcuno colga fino in fondo. Perché credo pure che lui sia condannato a riesaminarsi di continuo. E che lo faccia con una certa lealtà. Siamo computer, o meglio, i computer sono stati costruiti a nostra somiglianza. Capita di usare gli stessi programmi per anni, poi ne scopri di nuovi… e l’approccio cambia. A volte poi ti devi “resettare”, pulire un po’ la memoria, per ricominciare. Io non scrivo come dieci o vent’anni fa, tu nemmeno… La scrittura cambia e così la musica. Questo, tra parentesi, è stato uno dei problemi del libro, perché ho cominciato a buttarlo giù, come dicevamo all’inizio, per motivi del tutto privati, molto prima di darlo alle stampe. Così, dentro non c’è sempre lo stesso stile, e ho dovuto renderlo omogeneo. Come lavorare sulla produzione, o sulla post-produzione, di un disco.
- Renato ama rifarsi a figure mitologiche, come Icaro e Prometeo, sempre legate al fuoco. E c’è anche un brano che s’intitola Ancora fuoco. Perché, secondo te?
- Icaro e Prometeo sono due tragedie: quando sono io, quando volo, quando vivo e ti do il fuoco… non me lo permettono. Mi uccidono. Lui spinge sempre al massimo, in tutta la sua vita, e a un determinato punto deve anche imparare a dosarsi, a non lasciarsi travolgere da sé stesso. “Successo, sei falso pure tu!”. E torna, ed è un uomo cambiato, pieno di cicatrici. Già questo a me fa venire la pelle d’oca, e la voglia di raccontare tutto, affinché non vada disperso. - Poco fa ti è uscita una frase: “Basta che la memoria non diventi presente”. È arrivato il momento di parlare dell’ultimo album…
- Presente è un buon disco, lo ascolto ancora dopo quattro mesi. Per essere un capolavoro, però, gli manca un elemento molto importante: le chitarre. Per avere un’idea di cos’avrebbe potuto essere, ascoltati Muoviti. Lì c’è un assolo strepitoso. E la fine de Il sole che non vedi è sprecata. C’è una coda orchestrale, tutta tuoni e fulmini, che ripete il tema in modo pedissequo. Lui ha improvvisato sopra un parlato, perché mancava la chitarra. Ma resta un buon disco. Involuto. Dove si parla spesso di speranza, ma partendo sempre dalla disperazione. Per me è un valore aggiunto: a 45 anni non mi va di venire illuso da uno di 58. Mi aspetto che Renato Zero mi faccia pesare la sua troppa vita, le troppe morti, le troppe lacrime, il troppo di tutto. Mi aspetto d’essere inquietato. Perché ho anche io da dire che sono disperato, che non vedo spiragli. Se Pasolini aveva cancellato la parola speranza, io ho archiviato anche la disperazione. Mi guardo intorno, e mi limito a ghignare di disperazione. E vado nelle scuole, e raggiungo le persone, ma la verità è che ci troviamo in una deriva irreversibile. Così, Renato Zero ci ha regalato un disco maturo, leale, rischiava tutto, poteva infilare dieci successi annunciati e invece perfino la cifra lirica ne esce compressa: lui vuole dire di più, smette le rime, le assonanze chiamate e trova echi, rimandi fra parole. Devi ascoltarle molte volte, quelle liriche, per apprezzarle. Vincenzo Incenzo, che è un grande, ha lavorato molto bene con lui. A suo parere Renato è molto propositivo e rispetta le proposte di chi gli sta vicino. È una fonte continua, un gioco che si rigenera sempre. So che Renato litiga con tutti: forse è questione di personalità, di non voler farsi travolgere. Io penso che un artista debba avere un pessimo carattere, anche perché alla fine la faccia è la sua, la voce è la sua, sul palco ci va lui. Gli artisti democratici non li capisco, sono solo dei cialtroni. Vincenzo mi ha detto: “Ogni tanto improvvisa qualcosa di cui non sono affatto convinto. Poi va sul palco, la esegue… e mi debbo ricredere, funziona”. Io sostengo che Renato ha il coraggio della retorica. Anche perché ha imparato a governarla, almeno su disco. Prima gli sfuggiva di più. Sì, certo, a volte diventa palloso con le sue esortazioni alla preghiera, al pane, alla domenica… ma, come ripeto, se lui decide di starti accanto, lo fa per davvero. Sarà uno dei vantaggi della crescita [risate].
- Come vedi Renato “da grande”?
- Non so, credo che una bella vecchiaia per Zero sarebbe quella di prendere certi classici letterari e ricavarne delle personalizzazioni musicali. Lui è l’unico che può farlo, perché ha saputo miscelare una vita vissuta su coordinate impensabili a un istinto artistico sensibile. Lui potrebbe tirar fuori qualcosa d’imprevedibile, e di davvero valido, da Leopardi, da Nietzsche o da chi gli pare. Perché sarà anche vero che “non basta solo la cultura”, ma non basta nemmeno la strada, eh no. È la cultura (da non confondere con l’erudizione) a dimostrarti che quello che hai colto, che hai scoperto, sta già da qualche parte: l’eterno ritorno e, come sai, non c’è quasi niente di davvero inedito. Io penso che uno come Zero potrebbe, in questo momento, porsi come veicolo di suggestioni culturali e artistiche in modo ancor più scoperto, deciso di prima. Tanti giovani hanno bisogno di scoprire qualcosa di antico, ma senza il tramite giusto non lo faranno mai.
- Per concludere: come è stato accolto il tuo libro?
- Questo libro ha uno strano karma. Hanno capito che non li prendevo in giro. L’ho scritto col massimo rispetto e gli stronco la metà delle canzoni! Ma non importa, quelle buone bastano e avanzano. La prima copia l’ho portata a una ragazzina ricoverata in psichiatria (a torto, peraltro: ero lì con lei e mi veniva in mente Depresso, le facili soluzioni d’una società che spegne i sogni e le curiosità di un’adolescente troppo sveglia). Ho altri amici, giovani, che, in mezzo a un momento difficile, si sono entusiasmati alla storia di Zero, hanno scoperto tutti i suoi dischi e, se non superato, hanno comunque assorbito la crisi. E di fatti curiosi, ne accadono. Una volta, nella Marche, un professore serissimo, culturalmente rigoroso, ascoltando Il cielo, al passaggio su “gli spermatozoi, l’unica forza tutto ciò che hai”, è “partito” e s’è messo a zereggiare: “Ricordatevi che gli spermatozoi di Renato sono nostri, dalle Marche sono partiti e nelle Marche torneranno… sempre!!!”. Un’altra volta presento il libro, cinquanta copie e nemmeno una persona. In un’altra occasione ancora, la libreria era gremita ma mancavano i volumi. Tornate domani, prego! Una sera lo presento a mezzanotte e penso: sarà un miracolo se arriveranno quattro gatti. Me ne sono ritrovati quasi seicento! È sempre diverso, perché parlo di Renato ma, sotto sotto, anche di me. A quindici anni ascoltavo eroZero e mi affacciavo dalla mia finestra di via Monte Nevoso, a Milano, di fronte al covo brigatista col memoriale Moro. Poi cambia tutto, mi ritrovo nelle Marche, la regione di mio padre, e per anni quei vecchi dischi sono le mie madeleines. Scrissi la prima poesia quando uscì Soggetti smarriti. Adesso allestisco spettacoli di poesie, scrivo anche le musiche, e in qualche modo lì dentro c’è qualcosa di quei dischi. Presente l’ho ascoltato, e ne ho scritto il relativo capitolo, il pomeriggio che è uscito: sentivo, scrivevo, mi tornavano alla mente i giri per Milano in furgone, con mio padre, e dentro l’autoradio con le cassette di Icaro. Sarebbe stato contento, di un libro su Renato Zero.
Tanta gente, me compreso, non ha mai vissuto un mondo senza Renato Zero. Spunta la luna, spunta il sole e ogni due anni spunta un disco di Renato. Da lui ho imparato una cosa: uno spettacolo riesce se il pubblico ignora cosa farai fra un attimo. Ama avere paura.
Daniela Tuscano (pubblicato, con qualche modifica, anche da Babysnakes)
Intervista a Del Papa, autore di Ti vivrò accanto. La favola infinita di Renato Zero
Massimo Del Papa (Milano, 1964) è seduto di fronte a me, spettinatissimo, con un orecchino nuovo fiammante al lobo sinistro. “Scrivi che gesticolo molto, rido spesso, mi agito e bevo a piccoli sorsi un misterioso liquido ambrato”, mi suggerisce, sornione. In realtà basta il suo sguardo attento, la sua sagoma dinoccolata e scomposta a catturare l’attenzione.
- Ricordo quando mi accennasti per la prima volta al libro. Per scriverlo, hai impiegato una trentina d’anni… Aggiungo: si sente. È un libro che hai scritto per te: ed è una delle ragioni del suo fascino.
- E pensare che se non fosse stato per Marinella Venegoni, una persona speciale che ha scritto una prefazione molto lucida, non l’avrei mai pubblicato. Tu sai che Renato ha reso sé stesso un ponte per la vita di tanti. Ha stravolto il suo talento da fine a mezzo, per incidere, per cambiare molte vite.
- Inconsapevolmente…
- Certo, come dev’essere per ogni vero artista. E qui sta la sua forza. Ho conosciuto un’infinità di gente che mi ha detto: lui non ti molla, è presente davvero, diventa persino invadente se decide di starti vicino. Bene, questo libro ha preso qualcosa della storia che racconta.
- All’inizio volevi intitolarlo Un anarchico conservatore. Poi hai optato per Ti vivrò accanto, molto più suggestivo…-
- Ti vivrò accanto è uno dei versi più belli del suo canzoniere; volevo anche raccontare una favola, come recita il sottotitolo, infinita perché di questa vicenda umana si parlerà ancora fra cent’anni. Lui, Zero, può essere tutto ma non risulta mai mediocre. In un Paese che di mediocrità vive, e se ne vanta. Non dimentichiamolo: a 27 anni ne aveva già addosso 14 di gavetta, quattro dischi, l’Orfeo 9, i giri per Roma con Fellini, Ruzante in teatro, le coreografie di Don Lurio, Rita Pavone, l'Hair di Patroni Griffi, il Piper e tutta quella vita… ed era già tanta vita.
- Taluni, però, potrebbero equivocare: “Ti vivrò accanto”, cioè: sono uno di voi… - No, Renato non è affatto “uno di noi”. Ti sfiora, ti passa vicino, ma le sue coordinate sono troppo diverse: non sta in te, e tu non sei in lui. I sorcini, che lo hanno cristologizzato, se ne facciano una ragione. È un anarchico conservatore, propone modelli che vanno bene per la società, ma lui se ne esorbita, sta altrove. Ti vive accanto, ma non lo puoi afferrare, fare tuo. Con la sua arte ha fatto più di mille convegni, ha sdoganato le diversità (non solo quella sessuale). Quando nelle scuole parlo di lui, come di Zappa e di altri esempi illustri di anarchici conservatori, mi riferisco all’individualità, alla specificità, che comprende la diversità, il coraggio di non conformarsi.
- Qualche purista sobbalzerà leggendo il nome di Zero accanto a quello di Zappa. Ma io rammento bene che, sul finire dei ’70, si indicava come possibile erede di Renato un nostro talentuoso concittadino, Faust’O [cfr. il sottostante video], che gli somigliava un po’ anche fisicamente, così emaciato e spettrale, e anch’egli portabandiera d’un rock all’avanguardia, anticipatore del punk, con testi disinibiti e iconoclasti. - Certo, ma tu pensi che oggi potrebbe nascere un Renato Zero? Dicono: Renatino, tutto cuore… Ma era durissimo, fortissimo quel ragazzo. Con una incrollabile fiducia in sé stesso. Una macchina da guerra con un cuore. La gente non lo sospetta, non ha gli strumenti analitici per uscire dalla soggezione: mi piace=bello, non mi piace=brutto. Io ho tentato una chiave di lettura diversa, gli sono… vissuto accanto [risate], senza bisogno di fregole, di gossip. Vincenzo Incenzo ha notato: “Lo conosci meglio tu, che non l’hai mai incontrato, di tanti che gli vivono intorno”. Ma bastava ascoltarlo. Non esiste artista più autobiografico, più sincero. Dove lo trovi uno che ti dice che si sente un fallito, che si è inventato un circo “per non essere così”, per non ammettersi altrimenti? Non puoi chiedere di più a un artista. Il suo canzoniere è un po’ come l’Ecce homo di Nietzsche.
- Volevo restare su quell’aggettivo, “conservatore”, che si presta anch’esso a grandi equivoci. Mi è capitato persino di leggere che la critica all’aborto contenuta in Tragico samba (fra l’altro un brano piuttosto cinico e disincantato, come hai osservato tu, molto “lacero”, metropolitano, con persino un accenno a un fratello incestuoso, alla faccia della santità della famiglia…) era motivata dalla... fede cattolica di Renato.
- Ma figuriamoci! Conservatore non significa mica reazionario. Il vero ribelle non può che essere conservatore, perché gli stanno a cuore i temi ultimi, i punti nodali dell’esistenza. Che sono sempre quelli, da che mondo è mondo. E, al tempo stesso, sempre in movimento.
- La passione etica, come in Pasolini, altro anarchico conservatore…
- Esatto.
- Conservatore anche perché, mentre da un lato lo si additava come scandaloso, dall’altro lo si accusava di barare, dall’altro ancora di presentare una figura di “diverso” sempre sofferente, quindi, in ultima analisi, rassicurante per la società “normale”. A me non pare. Il solo fatto di aver infuso coraggio in tante persone mi darebbe ragione, ma i suoi brani sono “a tutto tondo”: non si limitano a denunciare l’emarginazione, hanno dimostrato che l’amore può nascere ovunque e per chiunque, e hanno descritto la bellezza di questi amori. Anche i loro limiti, certo, perché la sua visione è realistica, mai idealizzata.
- La maledizione di questo Paese è che tutti militano, stanno chiusi non nei barattoli ma nelle categorie. Io, per esempio, non reggo più quei giornalisti che anche seduti sul cesso fanno i giornalisti. Non c’è altro posto al mondo dove tutti ripetono: ah, io non sono come gli altri, io sono particolare e anche pazzo (che è una trovata miseranda per dire: sono egoista, stronzo e viziato, e voi dovete prendermi così). Però, al dunque, tutti si infilano in qualche militanza. Non voti a destra, “sei” di destra. Non voti a sinistra, firmi una cambiale a vita con la sinistra, qualsiasi cosa accada. Non sei uno con qualità sue, sei un gay, una lesbo, un macho, una velina, un terrone, un padano o quel che ti pare. Ma come si fa a vivere così? Come andare in un negozio di musica e chiedere: mi dà una chitarra ritmica, me ne dà una solista? Ma compra una maledetta chitarra e poi suonala! Zero andava in giro con una gallina al guinzaglio, che è molto meglio della scimmia sulla schiena. Anche perché, alla fine, la gallina te la mangi! L’importante è non tradirla mai, quella gallina, e io credo che, in fondo, Renato non l’abbia mai tradita. Devi adattarti, in qualche misura, ma alla fine penso che lui sia sempre lui. Come si dice: immorale nelle cose piccole, morale in quelle grandi. Sai perché alla fine gli si perdonano anche le scivolate retoriche, quell’andare a parlare di povertà francescana ad Assisi, con il parco macchine e la villa su piazza di Spagna? Perché alla fine lui dà molto di più di quel che riceve. Ha fatto felici milioni di persone per quarant’anni. Ha dimostrato, in particolare, che le provocazioni, le tutine, gli zatteroni, non erano fini a sé stesse, ma armi con cui scardinare certe incrostazioni. Ha mandato letteralmente a quel paese l’industria discografica e tu sai che queste cose, in Italia, si pagano. Poi è “imperfetto”, sicuro. Dicono che ha sempre recitato? E chi non lo fa? Io a muovermi sul palco ho imparato da lui. Da lui e da Keith Richards! Alla fine, non è più recitare. È liberare la parte più profonda e pericolosa.
- E, anche, il rapporto con le donne, sicuramente molto complicato, spesso conflittuale, sempre sofferto. Però non mi sembra corretto parlare di misoginia riguardo al primo Zero, i suoi pezzi al contrario di brani eseguiti da altri non mi hanno mai offesa, ho sempre avuto l’impressione si rivolgesse non all’intero genere femminile, ma solo a specifiche persone.
- La misoginia del Renato degli esordi somigliava molto da vicino a quella di Mick Jagger, che non a caso è stato uno dei suoi modelli.
- Insisto: in questa prima fase nessuna visione stereotipata, ma storie di vita (sue o altrui), donne singole e molto reali, corpi e non miti, rapporti paritari. Insomma, e per fortuna, nessuna Bella senz’anima in casa Zero, nemmeno nella canzone che tu ritieni più violenta, L’ambulanza.
- Sì, molto violenta.
- E, come violenza, lo si potrebbe avvicinare a Jim Morrison, a Iggy Pop. Visto comunque che abbiamo citato Tragico samba vorrei rimanere su Zerofobia. Come sai io adoro quel disco, lo ritengo la carta d’identità di Renato. È un disco “di cronaca”: più precisamente, di cronaca nera. Mi ricorda certe riviste, o rivistacce, degli anni ’70. in bianco e nero. A ciò affianco un libro uscito nel ’78 per Savelli, Lo scarico, ambientato naturalmente nelle borgate romane. Era il diario-verità (con tanto di nomi e cognomi, oggi in nome della privacy sarebbe impubblicabile) di Marco e Maria, “adolescenti ‘diversi’ del ghetto metropolitano” recitava la quarta di copertina. Violenza, degrado, squallore ma anche desiderio di riscatto, imprecisa ma concreta voglia di uscire dall’inerzia e di “entrare nella storia”, per dirla sempre con Pasolini…
- Zerofobia? Lo amo! Contiene lo spirito del tempo. Se vuoi capire cos'erano gli anni ‘70, devi ascoltare Zerofobia... di qualsiasi cosa parli! C'è qualcosa di malsano lì dentro, e non voglio neanche sapere come sia stato messo insieme. È uno dei pochi, veri dischi rock in Italia. Ma, dopotutto, uno dei talenti di Renato è sempre stato quello di cogliere il momento in cui viveva. Lui non è mai fuori sincrono, i suoi dischi sono utili a capire l'epoca da cui sgorgano ed è per questo che li ho scelti come filo conduttore per il mio lavoro, che poi è un libro su mezzo secolo di storia italiana. Basta saperli leggere in controluce. Prendi anche Zerolandia, l’album più pornografico della sua carriera…
- E anche il più allegramente amorale (mi riferisco almeno a certi pezzi), oggi si sente molto la mancanza di dischi così. A Matrix un brano come Triangolo aveva messo d’accordo tutti: donne, uomini, cristiani, musulmani, pagani… Ammiccavano divertiti e liberatori a quelle note maliziose.
- Lui aveva compreso che la gente s’era rotta di tutta quella violenza, quel sangue, e non parlo delle borgate adesso, ma degli anni di piombo. Non se ne poteva più. Ricordo i mondiali d’Argentina… tutta quell’euforia assurda. Ma avevano appena ammazzato Moro e si voleva dimenticare tutto. Lui reagiva a modo suo. Con una polemica in apparenza stralunata, in realtà affilatissima. Ah, voi volete la guerra politica? E io vi do le ammucchiate e le scopate con i trans! Sbattiamoci, quella era pericolosa davvero. Ma a molti ha fatto comodo prenderla come uno scherzo: “Ah, Zero, quel depravato!”. In fondo, è sempre lo stesso gioco. Fin da quando il “Times” titolava, a proposito dei Rolling Stones sbattuti in galera: Chi spezza le ali a una farfalla?. Per dire, sono solo dei ragazzi, non sono un nostro problema. Invece lo erano, eccome! E lo era Renato Zero all’epoca. Poteva scatenare comportamenti di massa, rivolte di massa, poi se n’è reso conto e a un certo punto ha chiesto "Tregua". Ma a Fantastico se n’è ricordato nuovamente: Viva la Rai, e arriva bardato come una drag queen: “State attenti, borghesucci da sabato sera, che se solo voglio, vi tolgo ancora il sonno!”. Oggi chi è capace di scatenare maree collettive? Un pivello uscito dal serraglio della De Filippi?
- Tu scrivi che Zerofobia, l’album “maledetto” di Renato, si conficca nel cuore dei fans ben deciso a restarci. Io non sono del tutto d’accordo. Molti, per esempio, sostengono che il capolavoro di Renato sia Amore dopo Amore. E, in un recente sondaggio, la terza canzone più rappresentativa di Zero, almeno secondo certi fans, sarebbe I migliori anni della nostra vita.
- Beh, sì, ascoltano Amore dopo Amore o I migliori anni (che ho definito "brano infingardo") e dicono: mio Dio. Ma perché amano venir soggiogati dalla quantità, da una proposta eclatante. Non hanno memoria storica. Lui, Zero, in questo è memoria storica e ha ragione a dire “è la memoria che ci rende interessanti”. Basta che sia memoria però, che non diventi presente, che non se lo mangi. Alcuni miei colleghi sono rimasti agli anni ’70. Non li sopporto, mi sembrano deficienti. Per me Renato Zero ha fatto bene a un certo punto a piantarla con le piume e le trombette. Non duri per sempre, non puoi fare a sessant’anni quello che ti riusciva a venti, e non solo per limiti fisici: se sei un artista intelligente non ti basti più, prosegui. Torniamo ai Rolling Stones. Io potrei uccidere a richiesta di Keith Richards [risate]. Ma vederli sempre uguali a sé stessi, condannati a danzare anche dopo morti, come pupazzi ossuti e macabri, mi preoccupa. Renato Zero ha compiuto questa magia, un successo spropositato nei ’70, la perdita di questo successo, il rinnovato trionfo con gli interessi nei ’90: il tutto, rimescolando gli ingredienti. Prima c’era un matto che con parole matte diceva cose di buon senso. Poi è arrivato questo “saggio”, vestito di scuro, che ogni tanto lascia balenare l’antica follia: “C’è sempre un cobra che dorme, eh eh!”. Lui è un maestro in questo…
- Si potrebbe facilmente obiettare che la saggezza può sconfinare, talvolta, nella retorica e nel perbenismo. Non mi sembra che Renato ne sia rimasto sempre immune. Fra l’altro, l’ha ammesso lui stesso: il pubblico mi segue per quegli anni là…
- Sbaglia. Conosco centinaia di fans convinti che lui abbia cominciato con I migliori anni… e lo amano! Si emozionano, provano gli stessi sentimenti che provavamo noi. Poi certo, io gli mostro, oppure scoprono da soli, su Youtube, di cos’era capace venti, trent’anni prima e… scatta la zeromania, la zerofobia e la zeroisteria. A ritroso! Presso le giovani generazioni di zerofolli parte come una caccia al tesoro, ma non è determinante, è solo un amore in più. Lo vogliono anche cominciando da oggi, e questo è degno di nota. Vado in giro e mi dicono: trattacelo bene Renato, ci appartiene, è nostro. E io: cazzo, uomo, ho fatto un libro su di lui! [risate] Comunque sì, lui ormai è una istituzione e questo è il suo attuale pericolo. Nessuno più lo contesta, lo mette in crisi, mentre lui è un uomo da battaglia.
- Piera Degli Esposti, dopo aver assistito alla commediaQuattro dischi e un po' di whisky, scritta da Roberto Biondi e ispirata ai brani del Nostro, ha dichiarato che quel testo mette in evidenza la solitudine di Renato.
- Non ho visto lo spettacolo ma, nel mondo attuale, un artista come Renato Zero non può che essere solo. Del resto, la solitudine è il tema che lui affronta di più, da sempre. L’Italia non ti perdona il tuo essere tu, ti vuol definire, cioè ridurre. E Zero a me sembra sempre un uomo solo, con dentro certe cose, certi esami di coscienza che, per quanto ne canti, non può davvero sperare che qualcuno colga fino in fondo. Perché credo pure che lui sia condannato a riesaminarsi di continuo. E che lo faccia con una certa lealtà. Siamo computer, o meglio, i computer sono stati costruiti a nostra somiglianza. Capita di usare gli stessi programmi per anni, poi ne scopri di nuovi… e l’approccio cambia. A volte poi ti devi “resettare”, pulire un po’ la memoria, per ricominciare. Io non scrivo come dieci o vent’anni fa, tu nemmeno… La scrittura cambia e così la musica. Questo, tra parentesi, è stato uno dei problemi del libro, perché ho cominciato a buttarlo giù, come dicevamo all’inizio, per motivi del tutto privati, molto prima di darlo alle stampe. Così, dentro non c’è sempre lo stesso stile, e ho dovuto renderlo omogeneo. Come lavorare sulla produzione, o sulla post-produzione, di un disco.
- Renato ama rifarsi a figure mitologiche, come Icaro e Prometeo, sempre legate al fuoco. E c’è anche un brano che s’intitola Ancora fuoco. Perché, secondo te?
- Icaro e Prometeo sono due tragedie: quando sono io, quando volo, quando vivo e ti do il fuoco… non me lo permettono. Mi uccidono. Lui spinge sempre al massimo, in tutta la sua vita, e a un determinato punto deve anche imparare a dosarsi, a non lasciarsi travolgere da sé stesso. “Successo, sei falso pure tu!”. E torna, ed è un uomo cambiato, pieno di cicatrici. Già questo a me fa venire la pelle d’oca, e la voglia di raccontare tutto, affinché non vada disperso. - Poco fa ti è uscita una frase: “Basta che la memoria non diventi presente”. È arrivato il momento di parlare dell’ultimo album…
- Presente è un buon disco, lo ascolto ancora dopo quattro mesi. Per essere un capolavoro, però, gli manca un elemento molto importante: le chitarre. Per avere un’idea di cos’avrebbe potuto essere, ascoltati Muoviti. Lì c’è un assolo strepitoso. E la fine de Il sole che non vedi è sprecata. C’è una coda orchestrale, tutta tuoni e fulmini, che ripete il tema in modo pedissequo. Lui ha improvvisato sopra un parlato, perché mancava la chitarra. Ma resta un buon disco. Involuto. Dove si parla spesso di speranza, ma partendo sempre dalla disperazione. Per me è un valore aggiunto: a 45 anni non mi va di venire illuso da uno di 58. Mi aspetto che Renato Zero mi faccia pesare la sua troppa vita, le troppe morti, le troppe lacrime, il troppo di tutto. Mi aspetto d’essere inquietato. Perché ho anche io da dire che sono disperato, che non vedo spiragli. Se Pasolini aveva cancellato la parola speranza, io ho archiviato anche la disperazione. Mi guardo intorno, e mi limito a ghignare di disperazione. E vado nelle scuole, e raggiungo le persone, ma la verità è che ci troviamo in una deriva irreversibile. Così, Renato Zero ci ha regalato un disco maturo, leale, rischiava tutto, poteva infilare dieci successi annunciati e invece perfino la cifra lirica ne esce compressa: lui vuole dire di più, smette le rime, le assonanze chiamate e trova echi, rimandi fra parole. Devi ascoltarle molte volte, quelle liriche, per apprezzarle. Vincenzo Incenzo, che è un grande, ha lavorato molto bene con lui. A suo parere Renato è molto propositivo e rispetta le proposte di chi gli sta vicino. È una fonte continua, un gioco che si rigenera sempre. So che Renato litiga con tutti: forse è questione di personalità, di non voler farsi travolgere. Io penso che un artista debba avere un pessimo carattere, anche perché alla fine la faccia è la sua, la voce è la sua, sul palco ci va lui. Gli artisti democratici non li capisco, sono solo dei cialtroni. Vincenzo mi ha detto: “Ogni tanto improvvisa qualcosa di cui non sono affatto convinto. Poi va sul palco, la esegue… e mi debbo ricredere, funziona”. Io sostengo che Renato ha il coraggio della retorica. Anche perché ha imparato a governarla, almeno su disco. Prima gli sfuggiva di più. Sì, certo, a volte diventa palloso con le sue esortazioni alla preghiera, al pane, alla domenica… ma, come ripeto, se lui decide di starti accanto, lo fa per davvero. Sarà uno dei vantaggi della crescita [risate].
- Come vedi Renato “da grande”?
- Non so, credo che una bella vecchiaia per Zero sarebbe quella di prendere certi classici letterari e ricavarne delle personalizzazioni musicali. Lui è l’unico che può farlo, perché ha saputo miscelare una vita vissuta su coordinate impensabili a un istinto artistico sensibile. Lui potrebbe tirar fuori qualcosa d’imprevedibile, e di davvero valido, da Leopardi, da Nietzsche o da chi gli pare. Perché sarà anche vero che “non basta solo la cultura”, ma non basta nemmeno la strada, eh no. È la cultura (da non confondere con l’erudizione) a dimostrarti che quello che hai colto, che hai scoperto, sta già da qualche parte: l’eterno ritorno e, come sai, non c’è quasi niente di davvero inedito. Io penso che uno come Zero potrebbe, in questo momento, porsi come veicolo di suggestioni culturali e artistiche in modo ancor più scoperto, deciso di prima. Tanti giovani hanno bisogno di scoprire qualcosa di antico, ma senza il tramite giusto non lo faranno mai.
- Per concludere: come è stato accolto il tuo libro?
- Questo libro ha uno strano karma. Hanno capito che non li prendevo in giro. L’ho scritto col massimo rispetto e gli stronco la metà delle canzoni! Ma non importa, quelle buone bastano e avanzano. La prima copia l’ho portata a una ragazzina ricoverata in psichiatria (a torto, peraltro: ero lì con lei e mi veniva in mente Depresso, le facili soluzioni d’una società che spegne i sogni e le curiosità di un’adolescente troppo sveglia). Ho altri amici, giovani, che, in mezzo a un momento difficile, si sono entusiasmati alla storia di Zero, hanno scoperto tutti i suoi dischi e, se non superato, hanno comunque assorbito la crisi. E di fatti curiosi, ne accadono. Una volta, nella Marche, un professore serissimo, culturalmente rigoroso, ascoltando Il cielo, al passaggio su “gli spermatozoi, l’unica forza tutto ciò che hai”, è “partito” e s’è messo a zereggiare: “Ricordatevi che gli spermatozoi di Renato sono nostri, dalle Marche sono partiti e nelle Marche torneranno… sempre!!!”. Un’altra volta presento il libro, cinquanta copie e nemmeno una persona. In un’altra occasione ancora, la libreria era gremita ma mancavano i volumi. Tornate domani, prego! Una sera lo presento a mezzanotte e penso: sarà un miracolo se arriveranno quattro gatti. Me ne sono ritrovati quasi seicento! È sempre diverso, perché parlo di Renato ma, sotto sotto, anche di me. A quindici anni ascoltavo eroZero e mi affacciavo dalla mia finestra di via Monte Nevoso, a Milano, di fronte al covo brigatista col memoriale Moro. Poi cambia tutto, mi ritrovo nelle Marche, la regione di mio padre, e per anni quei vecchi dischi sono le mie madeleines. Scrissi la prima poesia quando uscì Soggetti smarriti. Adesso allestisco spettacoli di poesie, scrivo anche le musiche, e in qualche modo lì dentro c’è qualcosa di quei dischi. Presente l’ho ascoltato, e ne ho scritto il relativo capitolo, il pomeriggio che è uscito: sentivo, scrivevo, mi tornavano alla mente i giri per Milano in furgone, con mio padre, e dentro l’autoradio con le cassette di Icaro. Sarebbe stato contento, di un libro su Renato Zero.
Tanta gente, me compreso, non ha mai vissuto un mondo senza Renato Zero. Spunta la luna, spunta il sole e ogni due anni spunta un disco di Renato. Da lui ho imparato una cosa: uno spettacolo riesce se il pubblico ignora cosa farai fra un attimo. Ama avere paura.
(pubblicato, con qualche modifica, anche da Babysnakes)
ricordate il mio post "Rabbia Giovane"? ... Quando l'ho scritto con una sorta di poesia in versi, non sapevo dell'esistenza di queste due bande o pseudo gruppi giovanili ai quali la stampa ha dedicato tanto spazio ultimamente. Della serie che non mi faccio mai gli affari miei e che la voglia di capire e confrontare quanto ci scorre attorno, "sinistro e silente" (mi sono autocitata dal profilo, credo siano i segni della demenza senile che avanza), sia sempre quella del ragionamento a sfondo sociologico e come sempre vengo ad esplicitare le mie farneticazioni.
I TRUZZI E GLI EMO ...
Chi sono ? .. Dopo aver sfrugugliato nei rispettivi blog forum e video dei rispettivi gruppi, ho deciso di mostrarvi il tal pensiero, senza giudicare solo per capire e fatelo anche se vi va. Però prima di mandare in play i video, una piccola considerazione la faccio altrimenti sto male ... I nipotini di Maria, figli di tal tronista e figlie e nipotine di Maria, hanno sviluppato un gruppo (mi riferisco ai truzzi) che fa ingrassare le case di moda (orrenda per me tipo camionista da calendario per gli uomini molto femminilizzati, e aiuto velina o ragazza immagine per le ragazze), i centri estetici per le cerette tanto care ai maschietti odierni, i chirurghi plastici per le donzelle, svuotando conti in banca di genitori "distratti", arricchendo carrozzieri e purtroppo pompe funebri, svuotando tanti cervellini che, totalmente privi di personalità e pensiero autonomo, continuano ad ingrassorare le fila dei nulla sapenti fare che però " Io sono fico, tu fai schifo!" ed altre liriche geniali dello stesso tipo. Per gli Emo invece,si denota una grande differenza, ma prima di esprimermi a favore o meno, devo approfondire ancora. Per ora posso dirvi che gli Emo (abbreviazione di emozionale) mi ricordano dei movimenti del passato di tipo esistenzialista, new age e simili. Ascoltano una musica che almeno è musica ed è buona, tentano di essere loro stessi senza seguire mode, anche se poi il "marcarsi" in un certo stile, la moda la fa lo stesso, ma almeno loro se la creano e qui la differenza è enorme. Adesso vi lascio ai video senza dire la frase retorica dei miei nonnni : "Come siamo caduti in basso" sono sempre stata per la creatività, l'arte e l'intelligenza affamata di sapere, mai seguito mode, meglio farsi imitare che seguire un gregge. Baci e buon fine settimana, chiedo perdono anche io a volte sbarello.
Rossella
La drudi, diffidare dalle imitazioni.
EMO A MILANO VIDEO
ROMA PIAZZA DEL POPOLO EMO TRUZZI
VIDEO DI RISPOSTA DI UNA TRUZZA AD UN EMO CHE LA CONTESTAVA EDIFICANTE DA VEDERE
VIDEO DI RISPOSTA DI UN EMO AD UNA TRUZZA DA VEDERE PER CAPIRNE IL PENSIERO ETC
Si consiglia di fermare con pausa per leggere attentamente gli scritti. Forse con rabbia giovane sono stata troppo tenera nell'infierire?!! .. Credo di si, meno male che non ci sono solo i nipotini di Maria (ne ha rovinate 3 di generazioni) ma esistono anche gi altri che sono la maggioranza e vivono per la miseria, la loro vita ...
Oggi nel giorno del clandestino day leggo sul il nord sardegna questa tristissima storia . Evito ogni commento per evitare le solite banalità di circostanza , e quindi preferisco che a parlare siano i fatti Oltre che la Musica che ho in sottofondo in questo momento "Dietro casa" di Ludovico Enaudi
adatta a tale evento perchè spesso tali fatti avvengono dietro casa nostra e neppure ce ne accorgiamo
Arzachena. Da tempo il marocchino di 39 anni aveva rinunciato alle cure per la condizione di irregolare Malato di tumore ma clandestino muore senza assistenza medica
Lo status di irregolare non permetteva aSaidFenandi avere accesso allecure sanitarie
Francesco giorgioni francesco.giorgioni@epolis.sm
Said Fenan aveva 39 anni e veniva dal Marocco. È morto poco prima della mezzanotte di mercoledì in un roulotte che era la sua casa, condivisa con un senza dimora tedesco che sarà anche uno dei pochi a piangerne la fine. Said è morto solo come un cane, senza assistenza medica nè altri conforti. Perchè a chi non ha in tasca un permesso di soggiorno questa pietà umana non si può più riconoscere. E Said, clandestino,quel pezzo di carta in tasca non ce l'aveva. Lottava da tempo contro un tumore alla gola che da mesi lo aveva condannato a morte. Gli ultimi giorni li ha trascorsi in una specie di ghetto stadio Biagio Pirina: quattro roulotte in mezzo ad una radura attorniata da eucalipti, tutt'attorno ville faraoniche con piscina di una delle nuove zone residenziali di Arzachena, Comune della Costa Smeralda. Pare le abbiano fatte sistemare dal Comune, per dare un tetto pur precario a chi dalla vita non ha avuto fortuna. Come Said ci sia arrivato, in quella specie di villaggio, nessuno lo sa. Prima che subebntrasse la norma che impedisce ai medici di assistere i clandestini, risulta che Said fosse stato per qualche tempo ricoverato all'ospedale di Olbia. In paese, qualcuno conferma che per un periodo Said avesse ricevuto assistenza dalla Caritas. Poi, per lui, l'esigenza di far la franca ha prevalso sull'istinto di sopravvivenza. Viveva imboscato, perchè andare dal medico avrebbe significato denunciare la sua condizione di irregolare e farsi espellere. Il male ha continuato a progredire senza che nessuna cura lo potesse ostacolare poi,nelle ultime settimane, le condizioni dell'immigrato marocchino sono peggiorate per le privazioni imposte dal Ramadan, che aveva osservato nonostante il fisico debilitato. IL coinquilino tedesco dicedi avere chiesto aiuto, vedendoche le condizioni di Said peggioravano di giorno in giorno.Ma il moribondo è rimasto da solo, nella roulotte, anche nelle ultime ore della sua esistenza.Mercoledì sera, Said ha perso conoscenza. Gli abitanti della baraccopoli, un quarto d'ora prima di mezzanotte, hanno chiamato il 118 che ha inviato un'ambulanza. Lo hanno caricato, ma ormai le sofferenze di Said erano finite. Il suo corpo è stato trasferito nella sala mortuaria del cimitero a poche centinaia di metri dal suo letto di morte. Passato a migliore vita. Certamente migliore di quella che aveva vissuto, senza diritto all'assistenza perchè in tasca non aveva quel pezzo di carta,limite invalicabile per l'umana comprensione.
Singhiozzi lunghi dai violini dell’autunno mordono il cuore con monotono languore. Ecco ansimando e smorto, quando suona l’ora, io mi ricordo gli antichi giorni e piango; e me ne vado nel vento ingrato che mi porta di qua e di là come fa la foglia morta.
Questa storia che m'accingo a rportare tratta da repubblica del 19\9\20009 e dall'Ansa è a mio aviso una dele testimonianze più belle e toccanti di come fra uomini e a nimali non c'è ( o sono sempre di emno ) le differenze fra uomo e animali . Essa è anche una risposta a quei gruuppi di dfondamentalisti che ancora restano anti Darwiniani
Titus, addio al re dei gorilla I compagni celebrano il funerale È morto a 35 anni, i suoi "sudditi" lo hanno lavato e gli hanno dato l'estremo saluto. Lo aveva reso famoso il film di Dian Fossey ora il branco monta la guardia al suo corpo dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - Lo seppelliranno vicino alla donna che gli ha dato il suo nome e che ha salvato la sua specie. Ma non subito. Per il momento, nessuno, o meglio nessun umano, può avvicinarsi al grande corpo immobile del re. I suoi sudditi lo hanno pulito, gli hanno dato l'estremo saluto e poi hanno cominciato a fargli la guardia. Gli uomini seguono la scena da rispettosa distanza. Perché non si scherza con i gorilla. Tantomeno subito dopo la morte del loro celebre sovrano. Si chiamava Titus, aveva 35 anni, pesava oltre 200 chili ed era stato a lungo il leader incontrastato dell'ultimo regno dei gorilla: le pendici del vulcano Visoke, lungo il confine del Ruanda, nel cuore dell'Africa tropicale. Era diventato famoso grazie alla naturalista americana Dian Fossey, al documentario che lei aveva girato su di lui e la sua famiglia, "Gorillas in the mist" (Gorilla nella nebbia), al film interpretato da Segourney Weaver nel ruolo della Fossey e a un più recente documentario della Bbc intitolato "The Gorilla King". Ora il "re dei gorilla" non c'è più. I ranger del parco nazionale del Ruanda avevano seguito (da lontano) la rapida malattia che lo ha precocemente ucciso. Ma non c'è più nemmeno la donna che gli ha dato la fama: Dian Fossey è stata assassinata nel 1985 da ignoti, nella baracca in cui dormiva vicino al vulcano, un delitto mai risolto anche se tutti i sospetti puntano sui cacciatori di frodo che la zoologa di San Francisco era riuscita a fermare prima che la specie dei gorilla diventasse estinta. Ora le autorità del parco, secondo quanto riporta la stampa britannica, aspetteranno il momento in cui sarà possibile recuperare il corpo di Titus e gli daranno sepoltura nel cimitero del centro ricerche di Karisoka, dove si trova la tomba della scienziata americana e dove continuano gli studi dei gorilla. La Fossey era venuta a esplorare la catena di vulcani di Mikeno negli anni '70, per fare un censimento dei gorilla. Per due decenni, seguì da vicino e riuscì a stabilire un rapporto con un gruppo guidato da un grande esemplare maschio che lei aveva soprannominato "Uncle Bert", lo zio Bert. Nel 1974, la primatologa decise di chiamare Titus uno dei figli di Bert. Cinque anni più tardi, anche il famoso documentarista e regista britannico David Attenborough entrò in contatto con la stessa famiglia di gorilla e si ritrovò a giocare con Titus, all'epoca un cucciolo, che si divertiva a saltargli sulla schiena. Sembrava quasi gracile, invece è diventato un gigante e il leader del suo gruppo. Il re. Si sa che ha avuto più figli di ogni altro gorilla conosciuto. E a lui viene ascritto il merito di avere condotto la sua tribù in salvo, lontano dalla zona dei combattimenti, durante la guerra civile che portò al genocidio del 1983 in Ruanda. Titus fu il re dei gorilla per 15 anni. Poi, come in un dramma degno di Shakespeare, il trono fu usurpato da uno dei suoi figli, Kuryama. Poco per volta, Titus accettò di non essere più il capo. Rimase però lo stesso nel gruppo, che continuò ad avere nei suoi confronti l'affetto e il rispetto riservati a un grande leader. I gorilla, per quanto ancora considerati una specie in pericolo, non sono più a rischio di estinzione. Sotto il vulcano del Ruanda è morto un re, e il suo popolo gli si stringe attorno.
Ruanda: morto il re dei gorilla
Titus, 35 anni, era diventata una star
(ANSA) - KIGALI, 15 SET - Un gorilla dal dorso argentato, conosciuto come il celebre ''Titus, il re dei gorilla'', e' morto di vecchiaia a 35 anni in Ruanda. Titus era diventato una star in Ruanda: lo scorso anno era stato protagonista del documentario 'Titus, il re dei gorilla'. ''La sua morte e' una grandissima perdita per il Ruanda'' si legge in un comunicato dell'Ufficio turismo. Il Parco dei Vulcani, per i suoi gorilla di montagna, e' una zona ad alta concentrazione turistica.(FOTO ARCHIVIO).
Annalena Tonelli, missionaria laica, impegnata nella lotta contro lo sfruttamento dei poveri e delle donne, uccisa in Kenya nell'ospedale da lei stessa fondato.
Carlo Urbani, medico, presidente della sezione italiana di Medici Senza Frontiere. Presta la sua opera gratuitamente e non smette di denunciare che la causa prima delle malattie è la povertà. Agli inizi del 2000 si dedica allo studio della Sars, la terribile malattia respiratoria che minaccia tutto il mondo. Pur conscio dei rischi, continua a dedicarsi ai sofferenti, finché il morbo non contagia anche lui. Muore nel 2003.
Teresa Strada Sarti, presidente di Emergency, moglie di Gino Strada. Di lei abbiamo appena parlato. Muore di cancro a Milano il 2 settembre 2009. Ai funerali (cfr. le foto qui sotto) sono presenti moltissimi amici, artisti, musicisti, volontari, gente comune. Ma nessuna autorità. I giornali dànno notizia del decesso nelle pagine interne. Non tutte le tv comunicano l'avvenimento.
Alberto Cairo, medico, da vent'anni volontario a Kabul. Grazie alla sua opera incessante risana oltre 71mila disabili, tra i quali molte vittime di guerra, e riesce a curare le patologie ortopediche più tradizionali del popolo afgano.
A questi eroi, sparsi in varie parti del mondo, ne aggiungiamo altri, meno conosciuti. Onoriamo i 1700 morti giornalieri sul lavoro, caduti nell'adempimento del loro dovere per un salario di 1000 euro, e molto spesso in precarie condizioni di sicurezza. Siamo vicini agli operai dell'Innse e dell'Esab, da settimane aggrappati ai tetti delle loro fabbriche per salvaguardare uno scampolo d'impiego. Ci uniamo al grido di dolore di Stefano, anch'egli in bilico (metaforico e reale) ai piani alti della "Metalli Preziosi" di Paderno Dugnano. Facciamo nostra la pena degli (ex) studenti-lavoratori deiCivici licei serali di Milano, sgomberati due giorni fa dall'istituto nel quale si erano barricati. Vestigia perdute d'una metropoli solidale, che s'ingegnava per garantire l'accesso alla cultura a tutti, quando davvero "non era troppo tardi". Ora invece la subalternità diventa una condanna, irrevocabile e irremissibile. E gli ultimi saranno gli ultimi.
Fissiamo i nostri occhi negli occhi d'un'altra giovane italiana, Sanaa Dafani, troppo giovane per godersi sia la gioia, sia la balbettante libertà. A questo punto sento già le accuse: e i nostri parà della Folgore? Disfattista! antipatriottica! demagoga! comunista! In verità, non credo di dovermi spiegare né giustificare, specie con chi non vuol saperne di confrontarsi. Molti hanno scritto assai meglio di me: Khaled Hosseini, Carlo Olivieri, il summenzionato Gino Strada. E don Farinella, provocatorio e sulfureo come sempre. La franchezza è un strada erta. Ma resta l'unica percorribile. Forse una grazia, forse una condanna.