18.4.22

Selene Biffi, l'imprenditrice che dà lavoro alle donne nei Paesi in guerra: "Ridiamo centralità alla figura femminile, che da vittima diventa sostegno della comunità"

 ecco come fare   ad  arginare  la nostra  bellicosità 

  da   repubblica  

                                    di  Gabriella Cantafio

  L'ideatrice di She works for Peace supporta l'attività artigianale di lavoratrici che prima ricoprivano incarichi pubblici e ora si trovano costrette a lavorare in casa. "Ora dall'Afghanistan vogliamo arrivare anche in Iraq e Ucraina"



Le popolazioni che vivono in zone di conflitto, oltre che con aiuti umanitari, si possono sostenere offrendo occasioni di lavoro. Ad attestarlo è l'iniziativa She works for Peace ideata da Selene Biffi, imprenditrice sociale italiana nonché fondatrice della scuola per cantastorie a Kabul, in prima linea sul fronte dei diritti delle donne afghane, e non solo.

Com'è nata quest'idea?
"È il proseguimento naturale delle iniziative portate avanti, in maniera informale, dopo gli eventi dello scorso agosto. In Afghanistan, dove sono stata fino a qualche giorno fa, ho sentito la necessità di dare il mio supporto a donne che prima, con incarichi pubblici, contribuivano all'economia locale e familiare, ma, dopo la caduta di Kabul, sono costrette a lavorare da casa".

Con She works for Peace come aiuta queste donne?
"Supportiamo il lavoro artigianale di parecchie donne in varie regioni afghane, offrendo un piccolo contributo economico, formazione e materiali per aiutarle a ricostruire il tessuto socio-economico locale, aldilà delle limitazioni in atto, attraverso le loro microimprese di produzione tessile e alimentare. Il lavoro, così, rappresenta una timida rinascita avviata con la rete di supporto informale costituita con persone, associazioni e imprese locali. La data di lancio, infatti, non è casuale: il 22 marzo, giorno successivo al Nawruz, capodanno persiano che sancisce un nuovo inizio".

Una donna afghana al lavoro col ricamo (foto di Oriane Zerah/She works for peace)
Una donna afghana al lavoro col ricamo (foto di Oriane Zerah/She works for peace

Chi sono, prevalentemente, le donne che stanno "rinascendo" insieme a voi?
"Finora abbiamo coinvolto circa 300 donne, spesso vedove o con disabili in famiglia, tra cui alcune che avevano già un laboratorio. Come Mariam che, ad agosto, ha visto andare in pezzi il suo, ma continua a lavorare le perline di lapislazzulo da casa riuscendo a mantenere la sua famiglia di oltre 20 persone. Ci sono anche ragazze che ci hanno chiesto aiuto, come Fatima che vuole riattivare la sua fattoria delle api e valicare i confini afghani con il suo miele per sostenere economicamente i suoi cari e offrire occasioni di formazione ad altre giovani donne".

Gli oggetti che producono come diventano fonte di guadagno in un Paese al di sotto della soglia di povertà?
"Riprendendo la tradizione artigianale, realizzano a mano sciarpe, ciotole di lapislazzuli, orecchini, borse, tovaglie ricamate e altri oggetti acquistati da tanti italiani che fanno parte della nostra comunità di sostegno ampliatasi grazie al passaparola. Ammetto che non ci aspettavamo questo successo, ma stiamo provvedendo a strutturarci meglio e ad accogliere le richieste che ci arrivano anche da altri Paesi".

Ciò significa che l'eco di She works for Peace si è propagata anche in altre zone di conflitto?
"Ebbene sì, grazie al potere dei social e della rete costituita con giornalisti e operatori umanitari, sono stata contattata da persone e associazioni femminili che operano in Iraq e Ucraina. Stiamo definendo i dettagli delle attività che partiranno nelle prossime settimane per consentire anche a queste donne di ricostruire, per quanto possibile, la propria dignità economica e sociale. Saranno coinvolte anche donne ucraine che hanno perso tutto sotto i bombardamenti e ora sono ospitate da comunità con cui siamo in contatto".

Cosa speri possa rappresentare quest'iniziativa in continua espansione?
"In contesti di guerra, spesso, le donne sono viste come vittime degli avvenimenti costrette a subire, con poca attenzione alla resilienza che invece dimostrano. Con She works for Peace vogliamo ridare centralità alla figura femminile dimostrando il contributo notevole che può offrire alla famiglia e alla comunità. La mia speranza è di poter raggiungere sempre più donne e ampliare i settori d'intervento, senza mai arrendersi".

17.4.22

Lea Schiavi torna a casa: la reporter antifascista celebrata finalmente in patria

finalmente Martedì verrà ricordata ufficialmente, per la prima volta in Italia, da un Ordine dei
giornalisti, quello del Piemonte, grazie anche al libro- inchiesta "Il caso Lea Schiavi" che ho scritto su di lei.
Un altro avvenimentoi dopo l'iniziativa fatta Il 25 Aprile 2021 l'amministrazione comunale di  
Borgosesia, sua città natale, guidata dal Sindaco Paolo Tiramani le intitola i Giardini Pubblici.L'evento fu ripreso dai media nazionali, riportando in luce nel capoluogo valsesiano la figura della giovane reporter antifascista, evento a cui partecipano i famigliari.Infatti la sua storia è una storia particvolare scomoda ed indigesta . sintesi eccola .

Da  repubbblica  del 

ritorna a casa perché Lea, nata a Borgosesia il 2 marzo del 1907, era una brava e affascinante giornalista antifascista. Il suo omicidio fu opera di sicari curdi, su ordine verosimilmente del servizio segreto militare ( il Sim) dell’Italia fascista, allarmato dall’attività antifascista svolta da Lea in Iran.

Lea                                                       con alcuni colleghi
 
Per quasi un secolo, però, Lea non è mai stata celebrata nel nostro Paese, né dalle associazioni della Resistenza, né da quelle dei giornalisti e delle donne. Negli Stati Uniti invece, al Freedom Forum Journalists Memorial di Arlington, che ricorda i reporter caduti in guerra, come scrisse Ellen Nakashima sul Washington Post, il 22 maggio del 1996, “la prima giornalista donna elencata è Lea Burdett”.
Nel suo libro Novelli [    foto  a  sinistra   ]  ripercorre la storia di Lea Schiavi, piemontese di 
Borgosesia, prima reporter di guerra donna
Lea, che nel 1940 a Sofia si era sposata con il corrispondente della Cbs Winston Burdett, è stata dunque dimenticata, rimossa dalla memoria nazionale
. Uno dei probabili mandanti del suo assassinio, il generale dei carabinieri Ugo Luca, lo stesso implicato nella morte del bandito Salvatore Giuliano, fu prosciolto in istruttoria nel dopoguerra senza neppure essere stato interrogato. Luca, inoltre, è presente negli elenchi dei combattenti della Resistenza, anche se fino al settembre del 1943 era stato un pezzo grosso dello spionaggio di Mussolini.

Lea con lo scrittore Guelfo Civinini (a sinistra)
 
Il delitto Schiavi assomiglia a quello dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, fatti uccidere da sicari su ordine del servizio segreto fascista, il solito Sim. Come accadde per la morte di Lea, i mandanti dell’omicidio dei Rosselli vennero assolti, questa volta per insufficienza di prove. Si mise una pietra tombale sopra, insomma. I morti seppellirono i morti; i vivi, anche quelli con le mani sporche di sangue, fecero carriera.
Massimo Novelli, nato a Torino nel 1955, per oltre vent’anni giornalista e inviato di Repubblica, è autore di numerosi saggi

Chi era Lea Schiavi? Una giovane donna che amava la vita, l’avventura, il cinema, il giornalismo: lavorò per l’Impero di Roma, l’Ambrosiano di Milano, il raffinato Lidel, Cinema Illustrazione, il Milione di Cesare Zavattini, Tempo, Omnibus di Leo Longanesi. Winston Burdett scrisse nel memoriale presentato alla Regia Procura di Roma nel 1945: “Lea lasciò l’Italia per i Balcani nell’autunno 1939 per un incarico de l’Ambrosiano. L’incontrai a Bucarest nel giugno 1940 e ci siamo sposati a Sofia il mese seguente".

"Lea - continua Burdett - aveva sempre dimostrato apertamente i suoi sentimenti antifascisti, le sue idee erano ben note a tutti i colleghi italiani e parimenti alle legazioni italiane di Bucarest, Sofia, Belgrado. Le negarono il permesso di matrimonio (ci voleva il permesso del ministero Affari Esteri). Fummo espulsi successivamente da Romania, Jugoslavia, Bulgaria, in parte, e forse soprattutto, a causa dell’intervento italiano in guerra”.

Lea Schiavi divenne antifascista vivendo il fascismo sulla sua pelle, di donna, di giornalista, giorno per giorno. Nella prefazione al mio libro, Maddalena Oliva scrive: “ Sei un comunista?”, chiese Maria. “No, sono un antifascista”, rispose Robert Jordan. “Da molto tempo?”. “Da quando ho capito il fascismo”. Non “sappiamo se Lea ebbe modo di leggere Per chi suona la campana di Ernest Hemingway”, continua Oliva, “ma molto probabilmente sì. E non solo perché in vita fosse sposata con un americano, Winston Burdett, giornalista e corrispondente di guerra per la famosa Cbs. (...) Ma pure perché, per chi conobbe Lea Schiavi Burdett, il primo ricordo era sempre: ‘ Lea di se stessa diceva di essere antifascista’. Lo scrive allora George Weller, corrispondente di guerra e Premio Pulitzer, che aggiunge: ‘ È improbabile che Lea fosse comunista’. Perché? Per ‘ il suo chiassoso e allegro senso dell’umorismo’ “.
A squarciare intanto il lungo silenzio pubblico su questa gran donna è stato, rammenta Maddalena Oliva, “un giovane sindaco, Paolo Tiramani, oggi parlamentare per la Lega Nord, che ha deciso – il 25 aprile 2021 – di intitolare a Lea i giardini pubblici di piazza Martiri a Borgosesia”. Adesso tocca all’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Il ricordo più commovente, tuttavia, data 15 maggio 1942, quando il Brooklyn Eagle, il vecchio giornale di Burdett, annunciò che la storia della morte di Lea, “newspaper correspondent”, sarebbe stata raccontata (“will be told in a dramatic form”) nel programma del Columbia Network “ They Live Forever”, “Essi vivono per sempre”, in onda alle dieci e mezza della sera della domenica.

Il menu delle feste pasquali può fare evitando derivati animali: esempio a Napoli: il casatiello è vegano., In Sicilia e sardegna come in Olanda, i custodi dei tulipani.,Come nasce la campana: 26 generazioni di artigiani



Il menu della festa si può fare evitando derivati animali: parola di un macellaio convertito alle ricette senza carne.


A partire dalla più tradizionale delle pietanze

di Mario Messina


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A Blufi, porta d'accesso alle Madonie, su 4 ettari di terreno fiorisce spontaneamente ogni anno un tappeto di fiori rossi.
 

Ed è diventato un patrimonio da valorizzare

di Salvo Catalano
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in sardegna   invece   a Turri  ( Su  cioè   secondo la  nuova  onomastica  delle  provincie  sarde  Sud Sardegna  
 qui  per  maggiori dettagli  Tulipani in Sardegna –
 





In un paese del Molise hanno iniziato la produzione nell'anno Mille e non si sono più fermati. Realizzando esemplari anche per il Giubileo e per la Perestrojka


di Gianvito Rutigliano


15.4.22

si cerca personale per la stagione estiva ma non se ne trovano ”. Imprenditori e chef si lamentano sui giornali, ma senza dire le condizioni proposte

 

51 m 

"I ragazzi hanno perso il valore del lavoro: io da giovane raccoglievo le mele per due soldi, e lo facevo con passione. Adesso l’obiettivo è opposto, non lavorare. Lo ripeto: colpa del reddito di cittadinanza, una vera catastrofe"Flavio Briatore si schiera con Alessandro Borghese dopo le polemiche per le frasi su giovani e lavoro. Poi svela quanto paga i suoi dipendenti: https://fanpa.ge/Inqup

DI FRASI come queste se ne trovano decine: è il racconto del lavoro nella ristorazione che viene premiato sui media tradizionali. Poi c’è la realtà, l’altro lato della barricata. I numeri: nell’italia in uscita dalla pandemia, il settore alberghiero e della ristorazione è penultimo nella classifica delle retribuzioni (peggio solo l’agricoltura) e ai primi posti per utilizzo di personale irregolare (numeri della Fondazione Di Vittorio, anno 2021). Le imprese del turismo hanno quasi un terzo dell’organico con contratti part time (28,7%), il 70% dei quali involontari. Anche le testimonianze dello sfruttamento quotidiano, della negazione dei diritti basilari, del lavoro al di fuori della legge e al di là della decenza sono ampiamente documentate da chi le ha subìte, basta andarle a cercare. Il Fatto  Quotiiano  (  FQ  ) ha parlato con un giovane capo partita di una cucina stellata di Milano: un lavoratore più che qualificato, con una responsabilità importante. “Come molti colleghi – racconta, sotto promessa di anonimato – per accedere alle cucine degli stellati ho seguito una scuola di alta formazione gestita dallo stesso chef del ristorante. Queste scuole costano tra i 10 e i 15mila euro. I partecipanti vengono poi impiegati in quelle cucine da stagisti, per completare l’abilitazione, al posto di chi va in ferie. Gratis o con rimborsi spese di 200 o 300 euro. Per i più bravi, che vengono presi, si lavora con turni massacranti, dalle 9 alle 23. Io, da capo partita, svolgo anche le seguenti mansioni: carico e scarico merci e pulizia della cucina. Lavoro 7 giorni su 7, guadagno 1.200 euro al mese, senza straordinari, inquadrato come lavapiatti. Così sul mio contratto pagano meno tasse”. 

Va detto che i ristoratori non fanno tutti Borghese o Briatore di cognome, e spesso pagano i dipendenti con cifre da miseria, quando li pagano. Non generalizzerei, e non starei sempre a dare degli scansafatiche ai giovani.
Il fil rouge che collega tutti interventi ed  dichiarazioni   di  chi   se la prendono con il Reddito o quelli che accusano direttamente i candidati  alle  offerte  di  lavoro  è uno: non vengono mai citate le condizioni contrattuali che vengono proposte ai lavoratori né si ritrovano mai in rete annunci di lavoro postati dagli imprenditori che rilasciano queste interviste ( vedi il leggi anche riportato ad inizio post ) Dieci ore al giorno, se va  bene, sei giorni su sette. Lo stipendio? Forfettario e pagato in parte con bonifico e in parte in contanti. Ovvero in nero. Questo è solo un esempio delle offerte di lavoro in cui si imbattono i lavoratori della ristorazione e del turismo in cerca di un impiego per la stagione. “Non riusciamo a trovare personale”. “Il reddito di cittadinanza ha rovinato il mercato”. “Cerco camerieri e non li trovo”. Da settimane sui quotidiani di tutta Italia è tornata a farla da padrone la sempreverde campagna contro i giovani che non hanno voglia di lavorare, edizione “mancano lavoratori per la stagione estiva”.In coda alla sequela di protesta di ristoratori e albergatori che si lamentano di non trovare dipendenti per le proprie attività, a mettere il carico da 90 sulla classica polemica di inizio primavera è stato uno degli chef televisivi più famosi d’Italia: Alessandro Borghese. In un’intervista concessa al Corriere della Sera, h
a dichiarato di essere alla perenne ricerca di collaboratori “ma fatico a trovare nuovi profili”. E poi, ancora: “Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione”.  Sarà   vero   anche  se  genmeralizzato   che    c'è  gente  pigra  e poco incline  al  sacrificio  , ma   Borghese(e  chissà anche  gli altri    se    andiamo a farli le  pulci  )  omette dettagli della sua biografia che potrebbero aiutare a decifrare il contesto: è figlio dell’attrice Barbara Bouchet e dell’imprenditore Luigi Borghese, si è diplomato all’american Overseas School of Rome, una scuola privata che costa poco meno di 25mila euro l’anno. L’agiatezza familiare non è una colpa, sia mai, ma   dovrebbe  consigliare prudenza a chi parla di lavoro gratuito  ed  mancanza  di sacrifici   da parte  dei giovani  
ILfil rouge,  come  dice   il FQ che collega tutti gli articoli di quello che ormai è divenuto un vero e proprio genere letterario è uno: non vengono mai citate le condizioni contrattuali che vengono proposte ai lavoratori né si ritrovano mai in rete annunci di lavoro postati dagli imprenditori che si lamentano sui giornali. Molto spesso, le febbrili ricerche di cui raccontano si limitano alla pubblicazione di sintetici post su Facebook. Fine dello sforzo, che secondo loro dovrebbe essere ricompensato dall’arrivo di decine di curricula. Raramente i quotidiani che raccontano le vicissitudini degli imprenditori del settore della ristorazione e del turismo danno voce all’altra parte in causa, i lavoratori, chiedendo che tipo di proposte in media ricevano per coprire la stagione, estiva o invernale che sia.
COSA OFFRE IL MERCATO – “La maggior parte delle volte le offerte vengono esplicitate per telefono oppure dal vivo, senza lasciare prove. Capita però che alcuni datori di lavoro scrivano via mail nero su bianco condizioni che hanno ben poco di legale”. Daniele sta cercando lavoro per la stagione estiva e recentemente si è imbattuto in due offerte particolari arrivate da due hotel 4 Stelle. La prima struttura, sul Lago di Garda, cercava un pasticciere che lavorasse 10 ore al giorno per 6 giorni su 7. Sessanta ore di lavoro a settimana. “Non ho idea del compenso perché mi sono fermato quando ho letto che proponeva uno stipendio tutto incluso, dunque comprendente di tfr, ferie, 13sima, 14sima per aumentare il compenso mensile, da pagare tramite bonifico e una parte in contanti. Mi sono fermato a questa proposta, scritta nero su bianco come fosse una cosa normale”.
Il secondo hotel, sempre un 4 stelle, è una struttura di Bellaria piuttosto conosciuta. “Mi ha offerto 1900 euro al mese, sempre omnicomprensivi di tutto, per lavorare come capo partita sette giorni su sette, mattina, pranzo e cena, quindi almeno 12 ore al giorno – racconta Daniele – Alla mia richiesta di avere almeno un giorno libero a settimana, mi hanno risposto che il compenso si sarebbe abbassato a 1600 euro al mese. Sempre per 12 ore al giorno. Questo è quello che si trova in giro”.
“E POI MI DICONO CHE NON VOGLIO LAVORARE” – Un caso? Non esattamente. E date le esperienze passate e le offerte sempre peggiori che girano nell’ambiente, Daniele sta pensando di abbandonare il settore: “Onestamente, dopo anni di sacrifici, mi sono accorto che non vivo più, soprattutto facendo il paragone con amici che hanno lasciato la ristorazione. Loro hanno sabato e domenica liberi, ferie pagate, otto ore al giorno. Io mai avuti questi ‘privilegi’”, si sfoga. “Ho lavorato 13 ore per 20 euro a Ferragosto 2020, dopo il periodo della prima ondata Covid con la scusa che ‘la pandemia ha colpito tutti, ora questi sono i compensi’. Sto valutando di lasciare il settore perché non riesco a trovare nessuno che garantisca il minimo. Non ho mai percepito tredicesima, a volte nemmeno il TFR. Può un ragazzo rivolgersi sempre ad un avvocato per ricevere quello che gli spetta e poi essere etichettato come uno che non ha voglia di lavorare?”, conclude.









14.4.22

Oltre 215mila beni sequestrati alle mafie, ma l'arma della confisca è spuntata da burocrazie e risparmi

 da republica  online 

Le misure di prevenzione patrimoniale, introdotte dalla legge Rognoni-La Torre e oggi disciplinate dal codice antimafia (artt. 16 ss.) costituiscono uno strumento fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata, perché consentono di
acquisire i patrimoni accumulati con i proventi di attività illecite. Il sequestro (si tratta di oltre 215.000 beni dal 1997 al 2020, che non includono peraltro quelli sequestrati nei processi penali ordinari: soprattutto immobili, ma anche autovetture, aziende etc.) non solo colpisce la forza economica dei clan mafiosi ma ne indebolisce la capacità di infiltrazione nel tessuto economico e sociale ed il consenso fondato sulla distribuzione di posti di lavoro.

Le disposizioni del codice antimafia acquistano ancora più importanza se si considera che la perdita dei beni viene percepita dalle organizzazioni criminali, come risulta dalle intercettazioni telefoniche, in termini addirittura superiori alle stesse misure di custodia cautelare o di condanna penale, per la perdita di prestigio sociale e di potere di fronte agli associati. Un ulteriore salto di qualità è rappresentato dalle norme che prevedono la destinazione di beni simbolo del potere criminale per fini di utilità pubblica o sociale, offrendo così nuove opportunità di lavoro e di sviluppo sociale nei territori dove sono ubicati.

La procedura di confisca e destinazione dei beni

Il sequestro dei beni appartenenti ai boss mafiosi è disposto dalla sezione misure di prevenzione del tribunale: nel periodo 2010-2020 si registra una media annua di 500 nuovi procedimenti di prevenzione (che riguardano generalmente una pluralità di beni), con una crescita significativa, negli ultimi anni, delle misure di prevenzione adottate dagli uffici giudiziari dell’Italia settentrionale, a ulteriore conferma della forte presenza delle organizzazioni criminali in aree diverse da quelle di radicamento tradizionale. Molto rilevanti i dati sulle confische relative a beni ubicati nel Lazio (e soprattutto a Roma) e in Sicilia.

Con il sequestro il bene è sottratto alla disponibilità dei loro proprietari;  viene contestualmente nominato un amministratore giudiziario per la gestione provvisoria e la manutenzione ed il giudice competente a coordinare e verificarne l’attività. Si tratta di una fase molto importante perché occorre risolvere una serie di rilevanti problemi. Per i beni immobili si devono verificare i diritti dei terzi (ad esempio il bene può essere occupato dal nucleo familiare del soggetto cui il bene è stato confiscato o da un soggetto agli arresti domiciliari) e lo stato dei beni (sanatoria degli abusi esistenti, realizzazione delle opere di ristrutturazione e manutenzione, messa a norma degli impianti etc.). Per le aziende si tratta di riavviare in tempi brevi l’attività, procedendo anche alla liquidazione dei creditori, superando le difficoltà che emergono spesso per l’interruzione delle linee di credito e per il “costo” derivante dalla “emersione dalla illegalità”: le aziende confiscate sopravvivevano spesso in situazioni di palese illegalità (lavoro nero o comunque irregolare, con mancato versamento contributi; evasione fiscale; emissione di fatture false; inosservanza delle disposizioni sulla sicurezza dei luoghi di lavoro; riciclaggio proventi illeciti, assenza di scritture contabili), rappresentando perciò un ostacolo alla libera concorrenza, con danni rilevantissimi per le imprese che invece rispettano tutti gli adempimenti previsti dalle norme di legge.

Quando la confisca è definitiva  l’Agenzia nazionale per i beni confiscati può procedere alla destinazione dei beni agli enti locali o ad altre amministrazioni pubbliche a fini istituzionali o sociali, a seguito di un’attenta valutazione delle manifestazioni d’interesse e dei progetti di riutilizzo da parte dei soggetti interessati; i beni possono essere gestiti direttamente oppure affidati in concessione, tramite avviso pubblico, alle associazioni che ne fanno richiesta; gli immobili potranno essere anche locati a persone che versano in particolare condizione di disagio economico e sociale. La legge prevede inoltre possibilità di vendita al miglior offerente: le ipotesi più frequenti sono quelle delle aziende che non risultano in grado di sopravvivere in una condizione di piena legalità ovvero di immobili non riutilizzabili perché in pessime condizioni. Si ricorre inoltre alla vendita per soddisfare le richieste legittime dei creditori.

Aspetti problematici

Come affermato dal ministro della Giustizia in Commissione antimafia, Marta Cartabia, “l’Italia è considerata dagli altri Paesi un modello nella lotta alle mafie…. la legislazione riguardante la gestione dei beni tolti ai criminali è considerata da tutti un patrimonio e un pilastro fondamentale, sia per la sua capacità effettiva di generare ricchezza, sia anche per il suo valore simbolico. Un bene, un’azienda, un immobile sottratto alla criminalità organizzata e restituito alla collettività è un messaggio forte che lo Stato manda alle organizzazioni criminali e soprattutto ai cittadini”.

Peraltro, a fronte dell’enorme patrimonio dei beni sequestrati alle organizzazioni mafiose, e l’impegno della magistratura nell’esecuzione delle indagini patrimoniali realizzate nei procedimenti di prevenzione, sono emersi una serie di rilevanti problemi, che hanno ostacolato una compiuta attuazione della normativa. 

Un primo elemento negativo, ai fini di una esatta valutazione dei meccanismi di sequestro e riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, è rappresentato dalla mancata integrazione dei diversi sistemi informativi, che ostacola anche la trasmissione in via telematica della documentazione tra le diverse amministrazioni; come affermato dalle stesse relazioni semestrali del ministero della giustizia (l’ultima relazione riporta i dati disponibili al 31 dicembre 2021), i dati della Banca centrale del ministero sono ancora largamente incompleti, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e non consentono di avere un quadro effettivo ed aggiornato della situazione processuale dei singoli beni oggetto di sequestro e dei problemi emersi nel corso della gestione provvisoria né di conoscere puntualmente il loro valore. 

Un secondo aspetto riguarda i tempi estremamente lunghi che intercorrono tra il primo sequestro, la confisca e la destinazione finale del bene, che favoriscono in molti casi il degrado e l’occupazione abusiva dei beni (si registrano anche atti di vandalismo da parte dei soggetti a cui l’immobile è stato sequestrato) e quindi pregiudicano il loro successivo riutilizzo; la celerità delle procedure assume ancora più importanza con riferimento alle aziende sequestrate. In base ai dati dell’ultima relazione del ministero della giustizia il 41% dei sequestri è poi oggetto a confisca; e, rispetto al totale dei beni confiscati, la percentuale di quelli effettivamente destinati è inferiore al 10 per cento. 

Procedure farraginose

Ciò è dovuto, innanzitutto, alla complessità delle procedure (la recente relazione della Commissione antimafia formula una serie di proposte per coniugare efficienza e trasparenza delle procedure con la tutela dei soggetti che subiscono il sequestro) e alle carenze dei sistemi informatici; inoltre, solo a molti anni di distanza dalla sua istituzione (2010), si sta finalmente procedendo alla copertura integrale dei larghi vuoti di organico dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, ciò che ha avuto inevitabili riflessi negativi sull’attività istruttoria necessaria per una sollecita e corretta individuazione della migliore destinazione. Sarebbe inoltre molto utile un maggior ricorso all’assegnazione provvisoria dei beni immobili, al fine di evitare il loro degrado e l’accumulo di debiti dovuti al mancato pagamento delle rate condominiali.

Ed ulteriori rilevanti problemi emergono anche con riferimento ai beni che sono formalmente affidati alle Regioni, agli enti locali ed alle altre amministrazioni ma che non risultano però riutilizzati (una prima stima elaborata dall’Agenzia per i beni confiscati indica una percentuale di beni effettivamente riutilizzati del 50%). Ciò è dovuto all’insufficiente preparazione ed interesse delle amministrazioni locali, in particolare quelle di piccole dimensioni (le amministrazioni locali spesso non conoscono nemmeno i beni disponibili nel proprio territorio: a febbraio 2021 poco più di un terzo degli enti locali interessati aveva chiesto l’accesso alla banca dati dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati) e all’assenza di adeguati finanziamenti per i progetti di riutilizzo sociale: in mancanza di risorse economiche per le spese di ristrutturazione e gli oneri di gestione, le associazioni non partecipano alle gare ovvero restituiscono in tempi brevi il bene loro assegnato.

Le risorse da sbloccare

Da questo punto di vista, in aggiunta ai finanziamenti già previsti dal PNRR, dai fondi europei e dalle leggi ordinarie (tuttora utilizzati sono parzialmente), nonché alle risorse messe a disposizioni dalle Fondazioni, appare essenziale risolvere il problema dell’utilizzo delle risorse liquide confluite nel Fondo Unico Giustizia (denaro, valori e titoli sequestrati, somme derivanti dalla vendita degli immobili etc.), che ammontano ad una cifra complessiva di oltre 4 miliardi di euro, destinando una quota consistente di tali risorse al riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie nonché a soddisfare i creditori in buona fede. Andranno inoltre utilizzate le opportunità previste dalla legge di ricorrere a forme consortili tra i comuni o di “mettere a reddito” i beni immobili destinati, rispettando naturalmente il vincolo di destinazione a fini sociali della relativa rendita finanziaria. Ed è importante altresì che la manifestazione di interesse degli enti locali sia sempre preceduta (e non seguita) da una verifica della effettiva disponibilità dei soggetti privati interessati, in modo da fondare su basi concrete il progetto di riutilizzo del bene. Da questo punto di vista va vista con favore l’istituzione di momenti di confronto tra amministrazioni statali, regionali, locali e associazioni del terzo settore che faciliti la predisposizione di progetti di riutilizzo dei beni socialmente validi e realmente sostenibili: un esempio significativo è rappresentato dal Forum cittadino sulle politiche in materia dei beni confiscati alla criminalità organizzata di Roma capitale

Un’attenzione particolare merita sicuramente il tema della riconversione delle aziende confiscate. I dati sul campione di 2.796 aziende, già in gestione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, evidenziano una fortissima presenza di imprese collegate alla criminalità organizzata nei settori dell’edilizia, del commercio e dei servizi di alloggio e ristorazione.

In questo ambito un impegno specifico merita il riutilizzo dei terreni agricoli confiscati alla criminalità organizzata, che assume una rilevanza ancor maggiore nell’attuale fase di crisi internazionale degli approvvigionamenti alimentari. Come già detto, si pone per molte di tali aziende un “costo della emersione dall’illegalità”: le difficoltà nel reperire le risorse necessarie per il riavvio dell’attività in un sistema concorrenziale conduce spesso alla liquidazione delle imprese, a partire da quelle a conduzione familiare e alle ditte individuali. Si tratta di un tema molto importante, che necessita l’adozione, da parte degli amministratori giudiziari, di misure tempestive di rilancio dell’’impresa, perché il sequestro determina inevitabilmente un rapido processo di deterioramento della situazione finanziaria ed economica, con conseguenti riflessi negativi dal punto di vista occupazionale.

Si corre cioè il rischio che l’intervento dello Stato, agli occhi dei lavoratori dell’azienda sequestrata, sia percepito come la causa della perdita del posto di lavoro e non costituisca invece l’occasione per ottenere finalmente condizioni di lavoro e di retribuzione regolari. Anche a tale proposito la relazione della Commissione antimafia illustra alcune misure utili a garantire il mantenimento delle linee di credito per le aziende confiscate che hanno avviato il percorso per un ritorno alla legalità. Storie di mafia assicurerà un costante lavoro di informazione sullo sforzo compiuto da tante amministrazioni pubbliche ed associazioni per assicurare nuovi servizi alla collettività tramite il riutilizzo dei beni confiscati.

 

13.4.22

I no vax che speculano sulla morte di Mariasofia Paparo, la nuotatrice stroncata da un infarto a 28 anni La giovane nuotatrice del Circolo Posillipo di Napoli Mariasofia Paparo è morta a 28 anni per un infarto, generando ondate di commenti antiscientifici da parte dei no vax



Mariasofia Paparo aveva quasi 28 anni, cresciuta a San Giorgio a Cremano (Napoli), si stava per laureare e poi sposare col suo Matteo, una carriera da nuotatrice professionista e una vita davanti.
Un infarto l’ha portata via all’improvviso. Un dolore indicibile. La fatalità ha sorpreso tutti, tranne i no vax, che sono immediatamente accorsi per collegare il decesso al fatto che la giovane fosse vaccinata.
I  quali   che ci crediate o meno, in questo esatto momento sui social orde di no-vax (che non sono spariti, purtroppo) stanno banchettando  come  potete  vedere    dagli screenshot cher riporto sotto su questa tragedia straparlando di “strane correlazioni”, “sieri sperimentali”, addirittura dando esplicitamente la colpa al ministro della Salute Speranza. Hanno avuto più , almeno fin ora , i pro- vax oltranzisti , visto che Secondo fonti vicine alla famiglia della giovane nuotatrice, deceduta per un infarto a 28 anni,  non era vaccinata per una non meglio spiegata patologia non correlata alla sua morte. Cadono sul nascere così le voci che si sono alimentate intorno alla possibile correlazione tra il farmaco e l’episodio cardiaco che ha causato la sua morte prematura.
Neanche di fronte a una ragazza di 28 anni morta di infarto si fermano.



 
Mi auguro solo che questi miserabili vengano denunciati, identificati e paghino tutto questo scempio, dal primo all’ultimo.
Alla famiglia la più totale vicinanza personale e umana.



I no vax che speculano sulla morte di Mariasofia Paparo, la nuotatrice stroncata da un infarto a 28 anni


Non contano i dati scientifici che non hanno evidenziato alcuna correlazione tra episodi cardiaci a lungo termine e vaccino anti-Covid, così come nessuno si è soffermato a capire se Paparo fosse effettivamente immunizzata contro il virus: l’importante per alcuni soggetti è ribadire le proprie idee antiscientifiche piegando i fatti per farli aderire alle proprie tesi. “Quante dosi del siero sperimentale?”, chiede qualcuno, mentre altri si lanciano in analisi statistiche da cameretta: “Non si contano più i giovani atleti con problemi cardiaci.

Il fenomeno è talmente macroscopico da non poter essere nascosto”. La peculiarità di queste persone è additare di essere propagatori di “fake news” le testate quando parlano di vaccini e Covid per poi basarsi su notizie diffuse dagli stessi giornali per propaganda personale. Sono in molti ad invocare un processo allargato a tutti i membri dell’esecutivo, mentre il più bersagliato è il ministro della Salute, Roberto Speranza.


Quindi  Cari - si fa per dire - No-vax, avete sciacallato per 24 ore sul nulla, avete banchettato su una tragedia immane, sulla pelle di una giovane donna e del dolore della sua famiglia per dimostrare una correlazione delirante e inesistente. Non ci sono parole in grado di rendere l’idea di tanta miseria. Vi auguro di provare vergogna, anche se ne ignorate il significato. Chiedete scusa se potete ed avete lo stesso coraggio che avete avuto nel speculare sulla sua morte alla famiglia, solo questo.E poi cali il silenzio.

12.4.22

Menù senza prezzi per le donne: galanteria o sessismo velato ?


La denuncia social di Abbie Chatfield, influencer australiana, ha riacceso il dibattito mai sopito del tutto sui menù senza prezzi  o blond menù per le donne presenti in alcuni ristoranti italiani. Approfondiamo la questione e proviamo a trarre qualche conclusione in merito.





Il suo intervento ha riaperto l’annosa e dibattuta questione dei blind menù, menù senza prezzi solitamente rifilati alle donne in alcuni dei ristoranti più prestigiosi e patinati della penisola. 
Per alcuni si tratta di un gesto di galanteria nei confronti di quello che, anacronisticamente parlando, è ancora considerato il “gentil  sesso”. Per altri, invece, proprio in ragione di ciò, è una pratica sessista che andrebbe estirpata. Mi sembra  assurdo   che nel  2022 che  una  donna   venga  considerata  non in grado   di poter scegliere  di  pagare  una  cena  o  un pranzo al proprio uomo .
Tra i sostenitori , oltre me    comune    mortale  ,di questa tesi,  c'è appunto  Abbie Chatfield, noto volto del web e della tv australiana, che qualche giorno fa ha “denunciato” via Instagram un rinomato ristorante veneziano per averle consegnato un menù senza prezzi. La denuncia social dell’influencer ha riacceso il dibattito sulla questione.
Infatti  «La denuncia a mezzo social ha raccolto » come dice quest articolo del sito alfemminile.com « parecchi consensi, ma anche qualche critica, soprattutto da parte di utenti italiani che hanno intimato all’influencer di “prendere lezioni di educazione”, considerando i blind menù una soluzione di cortesia. A costoro, Chatfield ha chiesto, invece, di ammettere una volta per tutte che si tratta di un gesto sessista, fondato sulla credenza sbagliata e ormai obsoleta che siano sempre gli uomini a pagare la cena alle donne e mai viceversa.»
Putroppo ’influencer australiana non è il primo personaggio pubblico a indignarsi sui social per il trattamento ricevuto tramite la consegna di un blind menù. Già a novembre, Augustina Gandolfo, modella argentina nonché moglie del calciatore dell’Inter Lautaro Martinez, lamentava di aver ricevuto un menù senza prezzi durante una cena in un elegante ristorante nel centro di Milano. Dopo l’episodio, Gandolfo aveva pubblicato uno sfogo su Instagram, scrivendo : 
“"Lo sapevate che in Italia in diversi ristoranti non mettono i prezzi sul menu che danno alle donne? E se volessi pagare io? Sono indignata. La cosa peggiore è che molti italiani giustificano questo fatto dicendo che succede solo nei ristoranti di un certo livello. E quindi le donne non possono pagare se si tratta di una cena più costosa?".

Ecco quindi che se, se per qualcuno potrebbe sembrare un gesto galante, per molte donne si tratta invece di un’umiliazione. Dietro al blind menù si celerebbe, appunto, l’assunto per cui le donne non sarebbero in grado di pagare una cena, specie se esclusiva e sontuosa, per sé e per i propri ospiti o, forse peggio, quello stereotipo che considera le donne al pari di “parassite”, “mantenute” e “gold digger”.
Allora Cosa non va nei blind menù? che questa pratica  viene  d'alcuni considerata  assimilabile alla rimozione dell’etichetta col prezzo quando si fa un regalo. La differenza? In quel caso, la persona che fa il regalo comunica apertamente le proprie intenzioni al commerciante che provvederà a togliere il cartellino. In realtà quando si parla di blind menù, invece, non vi è alcuna esplicita richiesta e, nella stragrande maggioranza dei casi (se non in tutti), la persona che riceve il menù completo di prezzi è sempre di sesso maschile, poiché il cameriere  generalmente  dà per scontato che sia lui a offrire la cena e mai la donna.

Dunque, dove sta il giusto? L’ideale sarebbe quello di garantire la massima trasparenza a tutti i commensali, senza dare per scontati dettagli o intenzioni mai esplicitati. Tuttavia, qualora si voglia mantenere questa usanza (  secondo  me  ormai anacronistica   se  viene applicata   in questo caso come è successo   solo  alle   donne  o solo  a  gli uomini )  in segno di galanteria, il consiglio che diamo al personale addetto alla sala è quello di chiedere a tutti i clienti, qualunque sia il loro genere, se hanno questo particolare desiderio già in fase di prenotazione o accoglienza nel locale e, solo in caso di risposta affermativa, procedere in tal senso.

Macché censura, Tony Effe è lo specchio del mondo quindi non rompete se va a san remo

Chiedo scusa per coloro avessero già letto i miei post su un fìnto ribelle o un nuddu miscato cu' niente ( cit dal film  I cento passi  ...