15.5.12

Ricordi tanti e nemmeno un rimpianto La Spoon River di Lee Faber di Matteo Tassinari




                                                      Il suonatore Jones


                                 
E' difficile, oggi più di 10 anni fa, con un blog, intrattenere qualcuno senza che questi con un occhio legga il post e con l'altro sfogli Repubblica, Wired o Vanity Fair. Mi sto rendendo conto che il linguaggio blogger è diventato esclusivamente "utilitaristico", per allacciare rapporti (o continuarli) non certo per comunicarsi facendosi architrave di altrui pensieri. Quando mi trovo al confronto con tal punto, o il non aver chiaro cosa gli altri pensino, lascio il compito a Fabrizio De André di non fregarmi in questo mio adolescente desiderio di voler parlare come i bambini che chiedono 3 perché per la stessa cosa. Un pò vecchio a zughè incora e burdèl, diceva nonna Iole. Perché la goffaggine è sempre attenta a specchiarti in vetri narcisi, chi in un modo chi nell'altro, le grame le facciamo. Per questo ridiamo e quindi, esorcizziamo anche il male 

Il bombarolo

Come la polenta con l'insalata, "L’Antologia di Spoon River" è una raccolta di epitaffi raccolti dal Mirror nel 1915 a firma di Edgar Lee Master. 244 personaggi, un intero villaggio, arti mestieri, una lucida analisi della società americana di quell’epoca. Fernanda Pivano, venuta in possesso grazie a Cesare Pavese dell’originale manoscritto inglese, lo tradusse nel 1942, cosa che piacque molto a Fabrizio "perché fu un atto che dimostrava un grande coraggio". De André inizia a lavorare su 9 poesie dell’antologia, ovvero, la Collina, Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore, Un medico, Un chimico, Un ottico e il suonatore Jones. Non traducendo, bensì, ricostruendo completamente l’opera e in alcuni casi, secondo la Pivano, superando addirittura l’originale per efficacia e profondità poetica. Nelle note di copertina la "Nanda", com'era conosciuta negli ambienti letterari, scriverà dell'autore della "Buona novella": “Fabrizio ha fatto un lavoro straordinario con l'Antologia di Spoon River di Master. Gli ha dato linfa nuova alle poesie, rendendole molto più attuali. Ha fatto un lavoro splendido. Sono molto più belle quelle di Fabrizio, che quelle di Master, ci tengo sottolinearlo”

"La canzone del Maggio"

Non c’è dubbio che sia Master che De Andrè siano due grandi poeti. Tutti e due pacifisti, tutti e due anarchici libertari e tutti e due evocatori di coloro che sono stati i sogni di molti di noi. Faber sarà sempre attuale, essendo un poeta di tale levatura che gli riesce bene scalcare i secoli. In questo, modo, con queste note, nel 1971 esce l'Lp “Non al denaro, non all’amore ne al cielo”. In mezzo ai personaggi del disco, spicca la figura del suonatore Jones, perché è l’unico ad avere un nome, perché è il suonatore e non un suonatore. Fabrizio lega chiaramente la sua storia intellettuale ed umana a quella del libero suonatore Jones, individualista che mangia per strada nelle ore sbagliate, portatore nell’Italia dei primi anni ’70, di valori non certo ben visti dal consociativismo borghese democristiano 

Anarchiaperfezionamento democratico

Riteneva che l’anarchismo fosse un perfezionamento della democrazia: “Mai avrei fatto la lotta armata, ma condividevo tutti quelli che oggi definiscono gli eccessi 68ini. Se alle manifestazioni un autonomo sgangherato, iniziava a tirare pistolettate, questo non lo condividevo sicuramente, ma condividevo la rivolta di un certo modo di amministrare la società” e conclude. “Il fatto che la rivolta non sia riuscita, forse è un bene se è vero che il grosso problema di ogni rivoluzione, i rivoluzionari finiscono di essere tali per  di ogni rivoluzione avvenuta è che una volta preso il potere, i rivoluzionari cessano d’essere tali per diventare amministratori”. Sulla base di queste considerazioni, prende forma nel 1979 anche il nuovo Lp “Storia di un impiegato” arrangiato da Nicola Piovani. Un album non felice secondo Faber, intriso d’ ideologia, Fabrizio non trova la giusta misura delle cose. E’ anima speciale la sua, senza mitizzarla, per carità, fugga da me la voglia di farne un santino, perché è sempre uguale alla prossima persona che incontrerò, ma non si chiamerà Fabrizio De Andrè. Chiuso. Tornando a Faber e non a me, la storia è quella di un impiegato che ascolta una canzone del maggio francese, una canzone di lotta. Una canzone di accusa a coloro che non hanno partecipato, che hanno avuto paura, e ricorda che ciascuno è coinvolto. E’ un disco molto complesso, quasi un presagio sulla triste vita politica degli anni ’70

"Verranno a chiederti del nostro amore"

Ma “Storia di un impiegato” contiene anche uno dei più alti esempi di canzone d’amore della storia della musica popolare italiana: “Verranno a chiederti del nostro amore”. Una lettera o comunque un monologo di un impiegato che guarda indietro e vede una storia fallimentare, conclusa con il suo ripiegamento ad una vita borghese con la sua ex compagna, piena di superfluo e agi quanto di schiavitù nascoste e indicibili. Nella sofferenza dell’impiegato, s’intuiscono parole sarcastiche molto dure, e un testo lungo al limite della prolissità. Lo stesso De Andrè comunque non sarà mai contento della riuscita di “Storia di un impiegato” e forse è l’album che più di ogni altro l’ha fatto sempre incazzare in qualche modo. Alla fine degli anni ’70 indugia spesso con la bottiglia e con la moglie Puny le cose vanno male ma senza inimicizia. Un disagio vissuto in due. Amore anche nel dirsi addio. O è troppo? Lo chiedo ai Catoni o Censori di turno, persone ben precise nella funzione delle loro qualificate discipline

Il poeta americano Edgar Lee 

lettera a valentina nappi reprise


chiedo scusa  A valentina per  le accuse  rivoltegli qui vedo che nonostante le dice : <<(....) Ovviamente non posso mettermi a replicare a tutti quelli che scrivono, dicono, ecc. qualcosa su di me. Anzi, non li leggo/sento/vedo nemmeno… >> legge e chiarisce meglio il suo pensiero precedente sul  suicidio dell'imprenditore  di Pompei




La persona suicidatasi a Pompei era un imprenditore edile che aveva problemi con Equitalia. Andatevi a vedere i lavori che ha realizzato la sua ex impresa, lavori assolutamente regolari (fino a prova contraria) ma esteticamente a mio avviso alquanto discutibili. L’Italia ha bisogno di ben altra architettura, il nostro meraviglioso territorio non merita tutta l’architettura “ordinaria” che lo abbruttisce.
Ma capisco che se il 60% dei ragazzi napoletani considera Equitalia peggiore della camorra (vedi: Equitalia, stangate e camorra – Quotidiano Net), perché “mentre quest’ultima offre lavoro e può garantire ricchezza e potere, quella ti opprime, ti getta sul lastrico e induce perfino al suicidio”, se addirittura “la camorra ci protegge e se qualcuno ci vuol far del male i clan ci difendono”, allora ci può anche stare che un suicida (peccato mortale per i cattolici, che dovrebbe escludere i funerali religiosi, a parte i casi di incapacità di intendere e di volere) con problemi con il fisco (perché di questo si tratta) possa diventare un mezzo eroe.
La verità è che dietro la “compassione” verso un suicida che aveva problemi con Equitalia, c’è la tendenza tutta italiana a non volersi prendere le proprie responsabilità e a voler scaricare su una “casta” (che guarda caso è sempre “lontana”, “mitologica” e non è mai costituita dalle persone che si incontrano nella vita di tutti i giorni) tutte le colpe. Atteggiamento da sudditi, non da cittadini.
La cosa grave è che il messaggio che si vuol far passare è che se uno che ha problemi col fisco si suicida è colpa del fisco oppressivo e non della persona che non era in regola. Un po’ come se, se un politico corrotto finisse indagato e si suicidasse, fosse colpa degli inquirenti.
Io – che, per inciso, le tasse le pago TUTTE – se la mia commercialista sbagliasse nel farmi la dichiarazione, di certo non me la prenderei con Equitalia…

13.5.12

Al confine fra alcolismo e morte: l'assemblea per il decennale DELL'ASSOCIAZIONE 'AMICI DELLA VITA' DI GIORGIO MASEDDU

Prima di riportare la storia d'oggi vorrei precisare che il copia e incolla non è per fare pubblico o riempire il blog e il mio spazio di Facebook su chi i post vanno in automatico ma è dovuto al fatto che solo i giornali locali o quelli nazionali nelle ultime pagine di cronache ai margini appunto ( salvo che esse non si ribellino o non commettano illegalità ) pubblicano tale news che riguardano le anime salve 


e che parlano d'argomenti come questi 



 In sardegna  L'alcolismo ha i numeri di un'apocalisse:  quarantamila famiglie convivono con un etilista. 

  da L'unione sarda Edizione di domenica 13 maggio 2012 - Cronaca Regionale (Pagina 9) 


I morti sono ottocento l'anno. C'è un fronte che resiste. È a Iglesias e si chiama “Amici della vita”, guidato da Giorgio Madeddu. Dice che all'origine della malattia c'è un disagio esistenziale.
L'assemblea dei resuscitati è convocata per giovedì al chiostro di San Francesco a Iglesias: si festeggiano dieci anni di vita ritrovata e un libro che raccoglie testimonianze e memorie dal sottosuolo degli alcolizzati. Di ogni genere: casalinghe adorabili, impiegati rigorosi, solerti vigili urbani, barboni disorientati, signorine insospettabili, pie donne divise tra Dio e la bottiglia, miserabili abbonati all'inferno dalla nascita.Non è il caso che vi prepariate a strizzare lacrime perché questa gente non ne ha bisogno e nemmeno le gradisce. Non chiede elemosine e neppure solidarietà. Si è salvata da sola. Grosso modo si tratta di oltre mille famiglie del Basso Sulcis terremotate dall'alcol.
Col tempo, visto che i risultati sono stati incoraggianti, hanno allargato l'orizzonte ai malati di tumore e agli autistici. Tutti insieme fanno un'associazione che si chiama Amici della vita , associazione - tenetevi forte - che non ha mai chiesto finanziamenti pubblici, non dipende dalla pietà di un padrino politico, non ha voti di scambio da offrire sulla piazza.


 e sempre  dallo stesso giornale  l'intervista  GIORGIO MADEDDU  (  foto  sotto a sinistra  )  GUIDA L'ASSOCIAZIONE 'AMICI DELLA VITA' di GIORGIO PISANO ( pisano@unionesarda.it )

L'assemblea dei resuscitati è convocata per giovedì al chiostro di San Francesco a Iglesias: si festeggiano dieci anni di vita ritrovata e un libro che raccoglie testimonianze e memorie dal sottosuolo degli alcolizzati. Di ogni genere: casalinghe adorabili, impiegati rigorosi, solerti vigili urbani, barboni disorientati, signorine insospettabili, pie donne divise tra Dio e la bottiglia, miserabili abbonati all'inferno dalla nascita.Non è il caso che vi prepariate a strizzare lacrime perché questa gente non ne ha bisogno e nemmeno le gradisce. Non chiede elemosine e neppure solidarietà. Si è salvata da sola. Grosso modo si tratta di oltre mille famiglie del Basso Sulcis terremotate dall'alcol.Col tempo, visto che i risultati sono stati incoraggianti, hanno allargato l'orizzonte ai malati di tumore e agli autistici. Tutti insieme fanno un'associazione che si chiama Amici della vita , associazione -tenetevi forte - che non ha mai chiesto finanziamenti pubblici, non dipende dalla pietà di un padrino politico, non ha voti di scambio da offrire sulla piazza.Dietro questo strano popolo di zombi miracolati c'è un medico che ha un'idea bizzarra e vincente per la lotta all'alcolismo: niente farmaci (salvo quelli essenziali)
 ma ricerca in se stessi e sostegno dei propri cari. Così ha fatto nascere i gruppi di auto-aiuto, che sono le cellule della rinascita. Giorgio Madeddu, 56 anni, due figli, vive e lavora a Iglesias. Quale sarebbe stato il suo futuro l'ha capito che era adolescente: una notte, tornando a casa dopo aver visto un film, ha calpestato nell'androne quello che credeva un fagotto di detriti dimenticato dai muratori impegnati in un cantiere vicino. Quando ha sentito un lamento s'è fermato di colpo. «Non era un fagotto, era un uomo. Un ubriaco che aveva cercato rifugio nel palazzo dove 
tenetevi forte - che non ha mai chiesto finanziamenti pubblici, non dipende dalla pietà di un padrino politico, non ha voti di scambio da offrire sulla piazza.Dietro questo strano popolo di zombi miracolati c'è un medico che ha un'idea bizzarra e vincente per la lotta all'alcolismo: niente farmaci (salvo quelli essenziali) ma ricerca in se stessi e sostegno dei propri cari. Così ha fatto nascere i gruppi di auto-aiuto, che sono le cellule della rinascita. Giorgio Madeddu, 56 anni, due figli, vive e lavora a Iglesias. Quale sarebbe stato il suo futuro l'ha capito che era adolescente: una notte, tornando a casa dopo aver visto un film, ha calpestato nell'androne quello che credeva un fagotto di detriti dimenticato dai muratori impegnati in un cantiere vicino. Quando ha sentito un lamento s'è fermato di colpo. «Non era un fagotto, era un uomo. Un ubriaco che aveva cercato rifugio nel palazzo dove abitavo».Quell'episodio lo ha segnato. A parte la laurea in Medicina e i corsi di psicoterapia della dipendenza, ha dedicato la sua vita ad una malattia (perché di malattia stiamo parlando) che ancora oggi stenta ad essere riconosciuta. Qualche numero, giusto per capirci, spiegherà meglio: in Italia gli alcolizzati sono un milione e seicentomila, ogni anno ne muoiono cinquantamila. In Sardegna quarantamila famiglie convivono con un alcolista e i cadaveri ammontano a ottocento l'anno. Madeddu non esita a dissentire da un gigante della materia, il farmacologo Gian Luigi Gessa, che fa risalire l'origine dell'alcolismo a Noè, primissimo ubriacone certificato. «Io invece ritengo che l'alcolismo nasca da un disagio esistenziale». Dunque, curando il disagio cancello l'alcolismo.Le cose stanno davvero così? Il terreno di discussione è decisamente scivoloso ma Giorgio Madeddu difende la sua tesi sulla base di un'esperienza cominciata venticinque anni fa e ancora lanciatissima in tutto il Sulcis. Dove l'alcolismo, racconta, è compagno della miseria. E quando tocca le donne propone poi statistiche taroccate perché omertà e vergogna non fanno affiorare nulla: questo per dire che i dati ufficiali sono, in realtà, infinitamente peggiori. «Noi siamo riusciti ad aprire una breccia evitando giudizi morali ed offrendo in cambio diagnosi e confronto».

Cos'è Amici della vita?

«Una comunità di famiglie alle prese con un disagio, una sofferenza. Contiamo cinquecento militanti e quindici centri d'ascolto tra Iglesias e Teulada. C'è un responsabile scientifico, che sono io, e numerosi specialisti che ci affiancano. Il nostro obiettivo è trasformare i pazienti in punti di riferimento per i nuovi arrivati».

Perché non chiedete contributi pubblici?

«Perché non ci si può liberare da una dipendenza e cadere in un'altra. Far capo ad amministrazioni pubbliche o a politici vuol dire che mettiamo in conto di sparire non appena chiudono il rubinetto dei finanziamenti».

Voi invece?

«Facciamo affidamento sulle nostre risorse e bastiamo a noi stessi. Il ginepro non muore nelle estati di siccità. Neanche noi. Interpretiamo la politica nel senso più autentico: stare al servizio degli altri».

Quindi vi fa schifo, la politica.

«Dai politici accettiamo una partecipazione spassionata, se vogliono darla. Ce ne sono di rispettabili: per esempio Tore Cherchi, ex presidente della Provincia. Ha sempre partecipato alle nostre iniziative e non ci ha mai chiesto nulla».

Quanti entrano in associazione per fare carriera?

«Impossibile: con noi c'è da impegnarsi a fondo. La regola numero uno è mettersi in discussione davanti a tutti, e non è facile da fare».

I gruppi di auto-aiuto?

«Nascono dall'esperienza americana avviata nel 1935. Sono comunità di alcolisti (ma non solo) che condividono speranze e disagi. Servono a sostenersi l'uno con l'altro».

Sedute di autocoscienza, insomma?

«No. Di solidarietà incrociata, che è un altro affare».

Cosa sono i 12 passi?

«Il percorso degli alcolisti, dalla presa di coscienza al risveglio spirituale. Funzionano anche coi malati tumorali. Durano tutta la vita. È una guerra permanente contro la società dell'apparenza».

Iniziative?

«Molte. Facciamo trekking, marce, pizzate analcoliche, giornate della sobrietà. Siamo una comunità in marcia».

Lei paragona gli alcolisti agli assetati di danaro e potere: perché?

«Perché dietro, in fondo, c'è lo stesso disagio di vivere. Sono molti i politici detronizzati che vanno in depressione e in dipendenza. Perdendo il ruolo (assistenzialismo e clientelismo) si ritrovano improvvisamente fragili».

Cattolico?

«Sì. E progressista».

Record dei suoi assistiti?

«Ho pazienti che si facevano dieci litri di vino al giorno. Dieci, e non per modo di dire. O signore che bevevano 25 birre, sempre al giorno. Il campione è vario».

In che senso?

«Birra e vino si consumano nei paesi, i superalcolici nelle aree urbane. I giovani invece amano l'abuso multiplo: alcol e cocaina, oppure eroina, ecstasy, canne. Ogni anno nascono in Sardegna venti bambini con ritardo mentale per abuso alcolico in gravidanza».

Successi?

«Applichiamo il Progetto don Bosco, che parte dall'accoglienza, prevede il trattamento a domicilio e si conclude con l'inserimento nel mondo del lavoro. Se tutto il nucleo familiare ci aiuta, risolviamo settanta casi su cento. Conta molto anche l'atteggiamento dei Comuni».

Che c'entrano?

«Di solito erogano assegni di sussistenza ad alcolisti che poi vanno a glorificarli al bar. Noi preferiamo invece che abbiano un lavoro socialmente utile, che ricevano salario e contributi perché solo così si sentono spinti a cambiare».

Saranno stati tutti d'accordo con voi.

«Il Municipio di Iglesias continua a preferire la logica degli assegni ad personam».

Percentuale di ricadute.

«Ampia e frequente. Il 70-80 per cento ci ricasca prima di arrivare alla sobrietà duratura. Il primo anno è il più difficile però è anche quello che fa riassaporare un po' di pace in famiglia, il rispetto ritrovato e perfino qualche euro in più».

Cosa le chiedono i suoi pazienti?

«Seguo 1.250 famiglie che fanno capo all'associazione e altre che, per ragioni loro, preferiscono stare nell'anonimato. La prima cosa che mi chiedono? Ricomporre il nucleo familiare disintegrato. L'alcol lo impoverisce, lo distrugge».

Poi?

«Hanno quasi tutti un sogno impossibile: riuscire in futuro a bere in modo moderato. Non si può. Aveva ragione Billy Wilder: un bicchiere è troppo, cento sono pochi . L'alcolista deve sposare la sobrietà per tutta la vita. Di solito ci riesce quando ha trovato una risposta al suo disagio esistenziale».

Cioè?

«C'era un vecchio che mi diceva: ero infelice quando bevevo perché bevevo, sono infelice ora che non bevo perché non bevo . Significa che non aveva risolto il problema che aveva scatenato l'alcolismo».

Capita che se ne vadano sbattendo la porta?

«Certo, soprattutto quando comincio a mettere il naso dentro la famiglia. Uno se n'è andato in malo modo perché gli avevo chiesto di non picchiare la moglie. Questi sono affari miei, dottore».


«L'Alcover vuol dire?
Mai. L'ho sperimentato nel 1990 e mai più utilizzato. È pericoloso perché non interrompe l'abuso alcolico e crea un cocktail micidiale. Prescriverlo è un'ottima soluzione per chi vuole lavarsene le mani».

Botte?

«Qualche volta ci siamo andati molto vicino, è inevitabile».

Che rapporto c'è tra crisi economica e alcol?

«Nessun rapporto ma un lavoro diventa fondamentale per un alcolista in terapia. Proprio per questo collaboriamo con la coop San Lorenzo di Iglesias, attivissima sul fronte-occupazione».

Quante volte ha pensato di non farcela?

«Molte, ma poi basta una telefonata per rimettermi in carreggiata. Purtroppo succede molto più spesso ai pazienti di pensare di non farcela più».

Cioè?

«Alcune volte ho creduto che un recupero sarebbe stato impossibile. E magari mi sbagliavo. Altre volte ho visto la vittoria a un passo e poi tutto è precipitato. In 25 anni di lavoro conto almeno duecento morti per patologie alcol-correlate. Che significa tumori (del cavo orale, dell'esofago), incidenti, suicidi».

Quante sconfitte?

«Ne ho di personali, brucianti. Penso a quel ragazzo polidipendente che mi aveva chiesto un colloquio. Ero infognato di lavoro e gliel'ho rimandato. Due giorni dopo s'è schiantato con la moto contro un muro. È accaduto molti anni fa ma io continuo a domandarmi: se l'avessi ascoltato, sarebbe successo lo stesso?»

Dove ha sbagliato?

«Ho sottovalutato l'importanza di creare un centro per ospitare quei malati che non possono essere trattati in famiglia. Oggi ci ritroviamo liberi ma anche senza il centro per le urgenze».

Il paziente che non dimentica?

«Un impiegato pubblico che ha perso il lavoro perché beveva. A seguire, l'ha scaricato la famiglia ed è finito a fare il barbone. In ospedale, dopo una crisi terribile di delirium tremens, sono riuscito a recuperarlo. Ma si rifiutava di frequentare i gruppi di auto-aiuto e io ero certo che ci sarebbe ricascato. Finché un giorno...».

Che succede?

«Succede che mi invita ad una partita della squadra di calcio che allenava. Era salvo. Sono stato un presuntuoso a credere che solo i gruppi di auto-aiuto potessero proteggerlo. Non esiste una ricetta unica e valida per tutti».

Considera un privilegio lavorare con questi malati.

«Esatto. Perché da questa gente ho imparato più che all'università. L'eroismo delle mogli degli alcolisti che non si arrendono sono un esempio strepitoso di senso della vita. Mi aiutano, mi stimolano, mi incuriosiscono».

Come fa ad essere ottimista?

«Non potrei non esserlo. Appena 25 anni fa la Medicina considerava alcolisti e tossicodipendenti irrecuperabili. Non venivano neanche studiati: erano scarti della società, più o meno degni di solidarietà, ma comunque scarti».

E allora?

«Allora io in 25 anni ho invece assistito a un gigantesco miracolo. Ho visto sotto i miei occhi centinaia di famiglie rinascere, ho visto morti in pole position ricominciare a vivere. Oggi gran parte di queste persone sono miei compagni di strada. Sono o non sono un uomo fortunato?»

Mentre continua a non versare la quota di tributi dovuta, il Governo ignora ancora l'IsolaPiano sud, beffa per la SardegnaI 2,3 miliardi andranno a Sicilia, Calabria, Campania e Puglia


  poi   non lamentatevi   del terrorismo  . la repressione  da  sola  non serve  il problema  va risolto alla radice 

  dalle cronache locali  


Mentre continua a non versare la quota di tributi dovuta, il Governo ignora ancora l'Isola

Piano sud, beffa per la Sardegna

I 2,3 miliardi andranno a Sicilia, Calabria, Campania e Puglia

La Sardegna beffata dal governo Monti. Nel piano per il Sud - che stanzia 2,3 miliardi di investimenti - l'Isola non c'è. Soldi solo per Campania, Sicilia, Calabria e Puglia.

Ancora una beffa per la Sardegna. Inascoltata sul Patto di stabilità, in credito sul versante delle Entrate e con la Finanziaria impugnata dal Governo Monti, ora viene scippata dei miliardi per il Sud destinati a crescita e sociale. Dalla rimodulazione dei fondi europei (2,3 miliardi, che andranno a Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) l'Esecutivo ha infatti escluso l'Isola. Il governatore Ugo Cappellacci e l'assessore Simona De Francisci protestano: «È l'ennesima penalizzazione».
LA RICHIESTA SUL SOCIALE È soprattutto l'esclusione dai fondi per l'inclusione sociale (850 milioni sul totale di 2,3 miliardi) a preoccupare il presidente della Regione e il responsabile della Sanità. Immediato l'appello al Governo Monti: «Occorre che l'Esecutivo adotti per la Sardegna un piano sul sociale che consenta anche alla nostra Regione di poter contare su finanziamenti per l'assistenza e di poter spendere i propri fondi in deroga al Patto di Stabilità». Per Cappellacci e De Francisci «è positivo che il Governo abbia rimodulato fondi comunitari bloccati a favore di interventi per il sociale. Interventi, tra l'altro, che la nostra Regione sta attuando da tempo grazie a progetti innovativi. A questo punto però, anche i sardi, e in particolare le fasce più deboli della popolazione, aspettano la stessa attenzione dal Consiglio dei ministri: è necessario un Programma almeno triennale in grado di consentirci di spendere tutti i fondi che rischiano di rimanere fermi a causa del Patto di stabilità». E ancora: «Il fatto di essere una Regione Obiettivo Competitività», concludono presidente e assessore, «non deve penalizzare una realtà come la Sardegna, considerata la crisi che stiamo attraversando, né essere un requisito per cui il Governo non mostri lo stesso riguardo riservato ad altre Regioni del Meridione d'Italia».
LAVORO Antonio Satta, segretario nazionale dell'Unione popolare cristiana (Upc), rivolge invece la sua riflessione alla seconda tranche della partita dei fondi europei: il miliardo e mezzo circa destinato alla crescita e, in particolare, alla promozione delle iniziative imprenditoriali innovative. Satta considera il Piano per il Sud del Governo Monti sbagliato concettualmente: «Avrebbe dovuto privilegiare le aree deindustrializzate della Sardegna, per permetterne il rilancio», dice l'ex deputato gallurese. «Non servono interventi a pioggia, ma azioni mirate. La Sardegna sta pagando un grave tributo alla crisi, in fatto di perdita di posti di lavoro e di reddito disponibile».
PDL E PD Tra i consiglieri regionali, invece, regna lo stupore. Tanto che il capogruppo del Pdl Mario Diana sembra insinuare qualche dubbio sul fatto che, in viale Trento, qualcuno possa essersi perso qualche passaggio istituzionale: «Pare impossibile pensare che il Governo sia arrivato a questa rimodulazione senza averne parlato nella conferenza Stato-Regioni», tuona. «Monti ha parlato chiaramente di un accordo raggiunto con le Regioni: per caso non corrisponde al vero?». Se Mario Diana è dubbioso, Giampaolo Diana, capogruppo del Pd, sferra bordate alla Giunta regionale e accusa il Governo nazionale di snobbare le esigenze dell'Isola: «A Roma cambia l'Esecutivo ma l'attenzione per la Sardegna continua a essere del tutto non rispondente alle attese dei sardi. L'unica costante che registriamo in questi tre anni è comunque l'assenza della Giunta regionale, e del presidente in particolare, che invece di brillare per la sua solita assenza avrebbe dovuto reagire immediatamente dal punto di vista politico. In situazioni come questa è già grave arrivare tardi. Se avessimo avuto una Giunta attenta e autorevole, capace di farsi sentire a Roma, forse non sarebbe andata a finire così».
IL SINDACATO Mario Medde, segretario della Cisl sarda, invoca invece l'indignazione dei sardi: «Non è più tempo di incontri politici, perché mentre si attende la loro convocazione il Governo Monti prende decisioni sulla nostra testa, da solo, tagliandoci fuori da tutto», dice il rappresentante di Bonanni nell'Isola. «Serve una forte mobilitazione di tutte le forze sociali, politiche ed economiche, da rafforzare con una grande manifestazione a Cagliari per reagire a quello che per il sindacato è un attentato all'autonomia della Sardegna e ai diritti dei sardi».
Lo. Pi.

“Hunger games”, i giochi di guerra si trasformano in un reality show

unione sarda  del  13\\5\2012

“Hunger games”, i giochi di guerra si trasformano in un reality show

Il film tratto dal libro della Collins cambia il cinema per ragazzi

Marianna Rizzini
Il “Grande fratello” all'ennesima potenza, la guerra per le risorse scarse che diventa spaventoso gioco televisivo, l'onnipresenza dell'occhio elettronico alla sua apoteosi, l'apocalisse vissuta da adolescenti che non hanno più nulla in comune con i loro coetanei innamorati e distratti in pieno “Tempo delle Mele”: il film “Hunger games” (tratto dall'omonimo libro), ora nelle nostre sale, inizia dove si fermano i reality show, e va oltre l'estremo limite, oltre il punto di confine da non superare tra spettacolo e vita vera. Ma qual è questo limite? È la domanda da cui è partita Suzanne Collins, scrittrice americana figlia di un reduce della guerra del Vietnam.
IL LIBRO Era l'estate del 2008, e Suzanne, facendo zapping tra telegiornali pieni di immagini guerresche e reality show demenziali, ebbe l'idea che la portò al primo libro di una trilogia che presto avrebbe sbancato in libreria, al cinema, tra il pubblico e tra i critici. Un blockbuster, sì, ma di quelli che fanno pensare; l'evoluzione del fantasy e, al tempo stesso, il passo che porta oltre la grande abbuffata di vampiri romantici di “Twilight”. C'è, nel film, uno stato del prossimo futuro, un Nord America da day after chiamato allusivamente “Panem”, un paese disperato e nichilista, dove una capitale gonfia di ricchezza, chiamata “Capitol”, guidata da un presidente tiranno (un magnifico Donald Sutherland) e da una pletora di “strateghi” sottomessi, affama e controlla ossessivamente i dodici distretti, gironi danteschi sempre più inospitali man mano che ci si allontana dal centro. Ci sono state, in un tempo non lontano, delle rivolte, sedate con la forza, spauracchio eterno del potere centrale che si ritorce contro gli abitanti sotto forma di punizione esemplare reiterata ancora e ancora: ogni anno, infatti, ciascun distretto deve estrarre a sorte un ragazzo e una ragazza di età compresa tra i dodici e i diciotto anni, e mandarlo a combattere con i concorrenti estratti dagli altri distretti nel reality mortale chiamato “Hunger games”, trasmesso in diretta da telecamere implacabili, successo di pubblico per un pubblico che non ha più nulla da perdere e che però cova, sotto la cenere, il germe della ribellione. Soltanto uno tra i concorrenti, alla fine, potrà sopravvivere alla lotta all'ultimo sangue, seguita dall'occhio televisivo onnipresente e dall'allegria fuori luogo del conduttore. Soltanto uno tra gli adolescenti buttati a combattere come nella Creta del Minotauro (Collins ammette l'influenza del mito di Teseo, ma nel plot riecheggia anche l'immagine dei gladiatori e il film giapponese “Battle Royale”, uscito nel 2000 tra mille polemiche, visto l'argomento: rieducazione di adolescenti ribelli attraverso una lotta indotta per la sopravvivenza, un “Dieci piccoli indiani” in cui ogni momento cade qualcuno, uno shock per l'opinione pubblica).
IL REALITY “Hunger games” aggiunge all'idea del sacrificio rituale con annesso scontro tra “fratelli” l'elemento del reality televisivo, deformandolo anche al di là della satira: gli strateghi del gioco, vestiti come damerini, perfettamente acconciati in stile Versailles, coltivano una raffinatezza di facciata che fa a pugni con la crudezza della crudele invenzione cui si dedicano a tempo pieno, tra schermi e grafici, tra incendi fatti scoppiare ad arte e mine antiuomo disseminate per passatempo, come se i concorrenti fossero ormai soltanto numeri, pedine intervistate con ghigno beffardo dal conduttore Ceasar Flickerman, parodia del conduttore di talk-show vanesio e superficiale, interpretato da un grande Stanley Tucci. La giovane protagonista, Katniss Everdeen, offertasi volontaria al gioco per salvare la sorellina Primrose, estratta a sorte sotto gli occhi annichiliti della madre vedova, non si piega fin dall'inizio alla commedia che precede il terribile gioco, fatta di banchetti, bei vestiti, camere d'albergo extralusso e dolci offerti per coccolare i poveri “tributi”, i ragazzi concorrenti in addestramento, alcuni già ubriachi di fama nonostante l'imminente e probabile morte agli “Hunger games”. “Solo uno sopravviverà”, continuano a ripetere gli strateghi, cercando di inculcare nella mente dei ragazzi che più saranno accattivanti per gli spettatori e per gli sponsor, più avranno la possibilità di ricevere dei “regali” utili durante il gioco: acqua, medicine, un tozzo di pane. Katniss è sgomenta, e altrettanto sgomento è Peeta, il ragazzo sorteggiato come lei dal distretto 12 e segretamente innamorato di lei nonostante Katniss abbia un debole per l'amico del cuore rimasto a casa. Eppure anche l'amore, sotto gli occhi implacabili delle telecamere manovrate dagli strateghi, diventa a forza elemento del gioco, costruito ad arte, fatto balenare come possibile ancora di salvataggio: “Se voi faceste i fidanzatini, forse gli sponsor vi aiuteranno”. Qualcosa disturba lo spettatore, in questo, perché nei reality che tutti vediamo, e su cui scherziamo, nell'amore tra tronisti o tra concorrenti del “Grande Fratello”, c'è già in nuce la deformazione, e già il confine tra vita e gioco si fa labile, fino al punto che chi guarda non è davvero sicuro che quell'amore sia vero, quell'amicizia sia vera, quelle parole non siano frutto di un copione.
I RICHIAMI È densa di simboli, anche un po' ingenuamente presi dalla letteratura europea, da Dante in giù, quella battaglia per la sopravvivenza condotta in un'“arena” fatta di selve oscure dove anche la ricerca del cibo diventa sfida con se stessi e con gli altri e dove si impara che le armi non sempre sono il vero vantaggio ma che neppure i più piccoli sono immuni dalle regole spietate di un potere malato, totalitario, imperiale nel senso deteriore del termine (quando arrivano a Capitol, i ragazzi sorteggiati devono percorrere una sorta di viale che si snoda tra due tribune, al termine del quale c'è il presidente).
Al di là dei rimandi storici all'ingrosso, la storia del reality mortale nel paese ridotto allo stremo amplifica le peggiori ansie del presente, ed è questo il motivo principale del suo successo anche tra gli adulti. Parlano dell'oggi sia la capitale corrotta che si volta dall'altra parte quando scorrono le immagini dei cittadini più disagiati sia il corollario di privilegiati che si affollano nello studio televisivo dove si svolgono le interviste della vigilia, inebetiti e dimentichi della sorte che attende 23 su 24 concorrenti. Parlano dell'oggi quei ragazzi spavaldi eppure consapevoli del vuoto che li circonda, e anche i loro antagonisti, stretti in gruppo contro i più deboli, anche se il gruppo non può essere salvezza nel gioco perverso in cui soltanto uno può salvarsi, e quell'uno servirà a rinforzare un establishment odiato che punisce preventivamente per scoraggiare la presa di coscienza.
I TEENAGER Non è un film per teenager, “Hunger games”, anche se sono i teenager che hanno decretato il suo boom oltreoceano - e Vittorio Zucconi, su Repubblica, si è incuriosito al punto da scrivere un vero e proprio reportage dal multiplex, tra cartacce, popcorn e giovani intenti a mangiare di tutto mentre sullo schermo i loro coetanei protagonisti del film si sfidavano per il cibo e per la vita.
Non è un film solo per teenager, “Hunger games”, anche se gli adolescenti corrono a vederlo, come se in qualche modo l'atmosfera asfittica in cui si muove Katniss, e quella brutta costrizione alla competizione, per giunta sotto l'occhio della telecamera, fosse qualcosa di familiare, almeno quanto la ribellione interiore della protagonista che crede nell'amicizia anche a costo di mettersi in pericolo. L'umanità disumanizzata si riscatta nel singolo, non c'è più una collettività che sorregge, l'unica via è la scelta individuale che sfida i diktat di chi detiene le leve del potere e della comunicazione, che alla fine sono un po' la stessa cosa. L'avidità, il cinismo, l'ansia di accumulare per i “tempi di crisi” pervadono questa storia di adolescenti-coraggio, ma l'eroina percorre la pur difficile via del ragionare con la propria testa (per esempio quando salva una bambina da un concorrente forzuto che la insegue, anche se la bambina stessa è potenzialmente un nemico).
LA SVOLTA Colpisce il fatto che schiere di ragazzini americani si siano identificati in questa storia, come se fosse finito per sempre il tempo degli “Happy days”, del “teen movie” classico, con l'amore da liceo che sboccia, il vestito per la festa, l'amico del cuore che tradisce, i chili di troppo, il ballo di fine anno come prova desiderata e temuta. Sembrano lontanissimi i giorni del suddetto “Tempo delle mele”, il film francese che negli anni Ottanta incantò una generazione con la storia di Vic, liceale parigina, dei suoi amici e della sua famiglia un po' pazza, con tanto di bisnonna irresistibile, maestra disinibita di sentimenti e confidente di primi baci. Vic, interpretata da Sophie Marceau, lottava per il permesso a stare fuori la sera, si preoccupava della crisi dei genitori, aiutava la sconclusionata amica Penelope, andava al cinema, provava gli abiti della mamma con la mamma complice, si innamorava perdutamente di Mathieu durante il ballo lento con ritornello storico (“dreams are my reality…”), rischiava di anticipare la sua prima volta, si dibatteva nei dubbi tra le cabine al mare, e intanto però si divertiva tra scuola, feste, prime incursioni nel mondo degli adulti. Ma “Hunger games” è anche diverso dall'universo ancora vagamente smielato di “Twilight”, pur con tutte le derive dark: il vampiro buono è davvero buono, la ragazza è davvero romantica, cambia l'ambientazione, non più da Mulino Bianco, ma gli elementi tradizionali del “teen movie” ci sono tutti. Nel mondo apocalittico di Katniss e degli altri concorrenti agli “Hunger games” non c'è spazio per casette col giardino e per danze da “Grease”, e l'innamoramento soccombe all'emergenza.
REALITY ESTREMO Che lo si giudichi bello o brutto, trash o interessante, “Hunger games” porta all'apice il filone “Truman show”, il film del 1998 diretto da Peter Weir e interpretato da un fantastico Jim Carrey. Un film in cui il reality show (ancora ai suoi albori ma già dilagante) viene già portato al paradosso: Truman Burbank, trentenne qualunque, non sa di essere il protagonista di uno spettacolo televisivo, il “Truman Show” che ha per oggetto la sua vita, ripresa in diretta fin dalla nascita da figlio di una gravidanza indesiderata. Abita su un'isola, Truman, che in realtà è un gigantesco studio televisivo creato dal regista. Tutte le persone che Truman incontra e con le quali si relaziona sono attori, compresi i genitori, gli amici e la moglie. Ma un giorno Truman comincia a insospettirsi, perché ha visto qualche crepa nel vecchio set e vecchie foto dall'aria posticcia. Gli viene voglia di fuggire, ma fuggire non si può, pena il fallimento del programma milionario. Pian piano prende coscienza della farsa, si sottrae ed esce. Ma che cosa lo aspetta là fuori, ora che ha capito che anche i suoi affetti più cari sono finzione da tubo catodico?
In “Hunger games” non c'è neanche più la finzione commerciale, perché anche il potere si regge sul gioco televisivo, e non può sopravvivere senza quel circo mortale. Il film, diretto da Gary Ross, è fin troppo ambizioso nel tentativo di denunciare l'estrema deriva sociale e mediatica, eppure cattura l'attenzione con quella sua continua allusione a un mondo depauperato di risorse, prospettive, sorrisi e affetti.

12.5.12

il caso della mancata messa per Peppino impastato . [ le divisioni nell'antimafia ecco perchè la mafia vince ]


  da  loa  stampa online  
CRONACHE
09/05/2012 - LA STORIA

Messa per Impastato,
il no della Chiesa















Il fratello di Peppino Impastato (centrale, con la polo a righe) durante una manifestazione a Cinisi

Il parroco: "I tempi non sono maturi". E il fratello accusa: terribile lasciarlo solo
anche da morto

LAURA ANELLO
CINISI (PA)
Di chi è la memoria di Peppino Impastato? A chi appartiene il testimone del ragazzo che sfotteva alla radio i boss di Cosa Nostra, che sventolava la bandiera rossa della rivoluzione sotto il loro naso, che sfidava Tano Badalamenti fin sotto casa, distante appena cento passi dalla sua?

Trentaquattro anni dopo il suo assassinio, la questione non è ancora chiusa, in questo paesone a trenta chilometri da Palermo dove - come dice il sindaco Salvatore Palazzolo «su ogni appalto pubblico che abbiamo bandito le imprese hanno pagato il pizzo alla mafia». No, le ferite sono ancora aperte, tanto che per Peppino, uomo di Democrazia Proletaria, dire messa è ancora un tabù.

«I tempi non sono maturi», ha spiegato don Pietro D’Aleo, parroco della Ecce Homo a Giovanni Impastato, impegnato in prima fila nelle manifestazioni in ricordo del fratello che per quattro giorni (grazie a un progetto della Fondazione con il Sud, in collaborazione con il Museo della ‘Ndrangheta e della Casa memoria Felicia e Peppino Impastato) hanno riempito la cittadina di dibattiti, incontri, cortei. «Noi avevamo chiesto una messa, ci ha risposto che era meglio di no», dice Giovanni.
Già, i tempi non sono maturi, tanto che la celebrazione è stata sostituita da una più laica «veglia di preghiera per la legalità e la giustizia sociale», officiata ieri sera da don Luigi Ciotti, tessitore di ponti di dialogo e pellegrino infaticabile sui luoghi della memoria.
«Non c’è alcuna polemica - dice il parroco - abbiamo

la normalità è il vero eroismo . nuova concezione d'eroe


Ricollegandomi  a  quanto dicevo  nel mio post precedente sul tipo di eroi ,    sia i fatti   che  sotto vado a narrare ( ed a riprendere  perchè ne  avevo già parlato in qualche post    , sul blog  ) e la canzone che trovate  alla fine sembrano che mi diano ragione  e in culo a  tutto il resto  






Reportage di    www.linkiesta.it/ 12 maggio 2012 - 09:24 
Storia eroica di un impiegato costretto a diventare imprenditore


Sembrava finita. Dopo la chiusura dello stabilimento della Metal Welding Wire, che lavorava il ferro, Stangalini e i suoi colleghi erano stati licenziati. Sembrava che ci fosse solo la cassa integrazione, e poi il nulla. Ma Stangalini non molla e, convinto che il settore fosse comunque in espansione, decide di vendere la casa per trovare il capitale iniziale e fondare una nuova impresa. Ce la fa e riassume i suoi vecchi colleghi. Una storia che finisce bene nell’Italia in cui chi riesce a fare impresa diventa un eroe.






ARZERGRANDE (Padova) – Cristian Stangalini, imprenditore quarantaquattrenne lombardo, è seduto dietro la scrivania dell’ufficio della sua O.m.p. Fili. L’azienda, quasi due anni di attività, produce fili per saldatura e ha sede nella zona industriale tra Piove di Sacco e Arzergrande, nel padovano. «La cabina elettrica dell’Enel è quella». Si gira un attimo, scosta la tenda che copre la vetrata dell’ufficio e indica una torretta dall’altra parte della strada, a pochi metri di distanza dal cancelletto d’ingresso. «Non hanno dovuto fare 150 chilometri di oleodotto per andare in una turbina. Il cavo passa proprio sopra di noi».
È il novembre 2010 quando Stangalini e moglie fanno apposita richiesta all’Enel. L’allacciamento, tuttavia, arriva solo nel giugno del 2011. Per sei mesi l’imprenditore paga l’affitto del capannone e (a vuoto) il noleggio di cabina elettrica e trasformatore. L’intoppo burocratico sull’elettricità, dice Stangalini, «è l’unica cosa che ci ha fatto veramente traballare». Di farsi rifondere le spese anticipate, però, neanche a parlarne. «Il consulente che mi seguiva dal lato energetico ha detto: “lascia perdere, te l’han data. Ringrazia il cielo che te l’han data”».
Qualche mese prima, nel luglio 2010, la Metal Welding Wire – un grosso gruppo della lavorazione del ferro con sede principale a Bergamo – decide di

11.5.12

De Gennaro viceministro. Dal massacro della Diaz a Palazzo Chigi: Monti ne nomina 1 per educarne 100

per coloro che via email che mi scrivono sul mio post sul film della diaz ( 1 2 ) : << è basta con s'to cazzo di scuola Diaz e di G8 2001 , lo sappiamo cosa è successo ., comunista di merda di più dovevano picchiarvi ,ecc >> . Ma



Ed il mio tempo non è denaro
ma il mare aperto dei sentimenti 
Le vele al vento del mio pensiero

finché quel vento resisterà. 






quindi scriverò finché mi pare soprattutto per i secondi , chi lo so già eviti di leggermi o mi legga in silenzio anziché commentare o rispondere con ovvietà 


da HTTP://ISEGRETIDELLACASTA.BLOGSPOT.IT/

VENERDÌ 11MAGGIO 2012 


Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, «ha deliberato la nomina a sottosegretario di Stato della presidenza del Consiglio del Prefetto Gianni De Gennaro con delega ai servizi segreti, che cessa dalle funzioni di Direttore del Dipartimento informazione e sicurezza»
Insomma ancora una promozione, questa volta nella sfera dell'alta politica, per il capo della polizia che ai tempi del g8 di Genova coordinò e pianificò l'orrenda mattanza della scuola Diaz dove 93 persone furono pestate a sangue, prelevate insaguinate e rinchiuse per tre giorni in un carcere appositamente predisposto all'interno della caserma di Bolzaneto.
Amnesty International ha definito quello che avvenne alla Diaz come "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale".

e se avete stomaci forti ,  e avete superato  quello l'eventuale visione  del promo ( o del film  )  da me recentemente  recensito  qui  non lavate questo sangue   sentite  cosa  è  successo a Bolzaneto   dalla diretta  voce  Marco Poggi, all'epoca in servizio come infermiere presso la caserma in questione  . colui che ha permesso l'apertura  dell'inchiesta giudiziaria su tali fatti 





In chiusura   del post   leggo  sulla mia  bacheca  di  facebook  questo post  Domani i radicali, come ogni anno, andranno alle 11 sul ponte Garibaldi di Roma per onorare la memoria di Giorgiana Masi 35 anni dopo il suo (ancora impunito) omicidio. 
Molti  Giovani    si chiederanno chi era  . Ecco alcune notizie  tratte  dalla   voce  Giorgiana Masi (  da  cui  sono state prese  le  foto   e  a cui rimando  per chi vuole ricordare , chi c'era  o  per  chi era di quel periodo  , o  sapere per chi non c'era  o  come me era troppo piccolo  )    su  wikipedia
Giorgiana Masi (Roma6 agosto 1958 – Roma12 maggio 1977) è stata una studentessa italiana uccisa a diciotto anni durante una manifestazione di piazza.Appartenente a famiglia di media condizione sociale (il padre era parrucchiere e la madre casalinga), Giorgiana Masi abitava con i genitori e la sorella maggiore in un appartamento di via Trionfale a Roma, nei pressi dell'ospedale San Filippo Neri, e frequentava il quinto anno del Liceo Scientifico Statale "Louis Pasteur". Giorgiana Masi (Roma, 6 agosto 1958 – Roma, 12 maggio 1977) è stata una studentessa italiana uccisa a diciotto anni durante una manifestazione di piazza.Appartenente a famiglia di media condizione sociale (il padre era parrucchiere e la madre casalinga), Giorgiana Masi abitava con i genitori e la sorella maggiore in un appartamento di via Trionfale a Roma, nei pressi dell'ospedale San Filippo Neri, e frequentava il quinto anno del Liceo Scientifico Statale "Louis Pasteur".



Sopra   La celebre foto raffigurante l'agente Giovanni Santone in borghese armato durante gli scontri. Alla sua destra un funzionario ed un agente in divisa 
Nel tardo pomeriggio del giovedì 12 maggio 1977 si trovava, in compagnia del fidanzato ventunenne Gianfranco Papini, nel centro storico della capitale, dove imperversavano violenti scontri tra dimostranti e forze dell'ordine. Alle ore 19,55 i due erano in piazza Giuseppe Gioacchino Belli, quando un proiettile calibro 22 colpì Giorgiana all'addome. Subito soccorsa, venne trasportata in ospedale, dove i medici non poterono fare altro che constatarne il decesso.)

Fatti  , sia  quelli del G8 di Genova 2001  sia  quello di Giorgiana Masi  che   confermano  che conferma   questa foto  che  ho trovato  in rete   e il discorso   che trovate  ala fine del post   tratto da il film il Gattopardo  tratto dal  romanzo  omonimo dello  scrittore Siciliano   Giuseppe Tomasi di Lampedusa



con questo è  tutto meditate  gente meditate


Macché censura, Tony Effe è lo specchio del mondo quindi non rompete se va a san remo

Chiedo scusa per coloro avessero già letto i miei post su un fìnto ribelle o un nuddu miscato cu' niente ( cit dal film  I cento passi  ...