31.7.14

Da Sassari alla cattedra di Microbiologia in California, Manuela Raffatellu racconta il suo sogno americano


L’attitudine a bruciare le tappe l’ha dimostrata sin da piccola «ho imparato a leggere prima di aver compiuto due anni, grazie a mia madre, docente di Lettere alla scuola media» e, a vedere i risultati, l’ha mantenuta intatta nel tempo. Laurea con 110 e lode a 24 anni in Medicina e Chirurgia a Sassari, Manuela Raffatellu, vive dal 2002 negli Stati Uniti. Qualche settimana fa è diventata professore associato con “tenure” -col posto fisso – di Microbiologia e Immunologia alla facoltà di Medicina dell’UCI (Università della California, Irvine), 149 esima nel ranking mondiale secondo il QS World University Rankings 2013, e prima assoluta tra quelle americane nate meno di 50 anni fa.                                                                                                                                                        A 38 anni, la docente sassarese vanta una serie impressionante di riconoscimenti; citiamo in ordine sparso: il premio ICAAC della ASM (Società Americana di Microbiologia), l’Astellas della IDSA/NFID (Società Americana di Malattie Infettive) e quello della fondazione Burroughs Wellcome
Fund per lo studio delle malattie infettive. Nel 2013 e nel 2014 è stata menzionata per la qualità eccellente del suo insegnamento all’interno dell’università ed è stata invitata a tenere diversi seminari, incluse alcune lezioni magistrali, in tutto il mondo: dalla Svezia a Taiwan, dalla Germania al Messico e in tanti prestigiosissimi atenei quali Berkeley e Stanford.
«Attualmente – racconta – faccio soprattutto ricerca di base, dirigo un gruppo di otto persone e insegno Microbiologia e Immunologia agli studenti del corso di Medicina. Mi interessoprincipalmente dell’interazione di batteri patogeni come la salmonella con l’ospite e con il microbiota, la flora normale intestinale. Con la mia équipe studio anche i meccanismi d’azione dei probiotici, batteri che hanno effetti positivi sulla salute; ci occupiamo inoltre del potenziale sviluppo di vaccini. Passo la maggior parte del tempo nel mio ufficio a scrivere lavori scientifici e progetti. Quasi ogni giorno mi confronto con gli studenti, i dottorandi e i post-doc: analizziamo i dati e discutiamo gli esperimenti successivi. Circa una volta al mese faccio un viaggio per illustrare la mia attività. Faccio circa 50 mila miglia di volo ogni anno».                                                                                                                                     Un talento, il suo, che non è sfuggito al sistema a stelle e strisce, lestissimo ad accaparrarsi sistematicamente i migliori, puntando su merito e trasparenza. Due principi che, soprattutto in Italia, riempiono da anni il dibattito pubblico ma che sono poco praticati, diversamente da quanto avviene negli USA, come racconta lei stessa: «Sei anni fa, superando la concorrenza di 150 candidati, una ragazza straniera di 32 anni ottenne all’unanimità l’incarico di realizzare un laboratorio; le affidarono 700 mila dollari per comprare strumenti, assumere personale e fare ricerca. Nel tempo ha portato all’università molti più soldi di quelli che le erano stati concessi e, quindi, si è rivelata un ottimo investimento. Quella ragazza ero io. Questa fiducia nei giovani non esiste altrove, che io sappia».Certamente non nel nostro dove, da decenni, i posti di responsabilità sono occupati militarmente dalle stesse persone; alfieri di un sistema ingessato che ci tiene inchiodati malinconicamente ai nastri di partenza della competitività, spingendo chi vuole emergere a cercare altri approdi. Una scelta, quest’ultima, che Manuela Raffatellu ha preso 12 anni fa: «Sono andata via perché volevo imparare a fare ricerca e capire se quella poteva essere la mia strada. Ho scelto gli Stati Uniti perché sono ancora il Paese più all’avanguardia in questo settore e anche perché sono la terra delle opportunità. Recentemente sono andata alla cerimonia per i nuovi dottorandi di tutte le facoltà della mia università, c’erano giovani di 100 nazionalità differenti che parlavano 80 lingue diverse. Credo che la forza degli Stati Uniti sia proprio l’accoglienza e la valorizzazione dei migliori, indipendentemente dalla loro provenienza. Io dico sempre ai ragazzi che mi scrivono dall’Italia e che vogliono venire qui per fare un’esperienza lavorativa di pensarci bene; questa è una realtà difficile da lasciare. L’altra faccia della medaglia è che gli USA sono basati sulla competizione. Mi rendo conto che questo stile di vita non è adatto a tutti. La mia esperienza sinora è molto positiva, sono riuscita a realizzare molto di più di quello che pensavo. Il mio progetto è continuare a fare il mio lavoro ad alti livelli e contribuire alla formazione di altri ricercatori. Tuttavia – conclude Manuela – non escludo di poter tornare in Italia, un giorno, se si dovessero presentare le opportunità giuste».
Giovanni Runchina

mamma le turche di © Daniela Tuscano [ vietato alle donne ridere in turchia ]

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#kahkaha 

In fondo 'sto vicepremier turco, fino a ieri conosciuto ai meno, io lo capisco. Vorrebbe vietare alle donne di

ridere in pubblico (ma se evitassero pure in privato non sarebbe male, vero?). Ripeto, lo capisco. L'avete visto in faccia? Ha un ghigno così tristo, così goffamente onanistico. E tanto, tanto invidioso. La risata, si sa, è spontanea. Chi ride mostra i denti, esplode di gioia incontenibile. Chi ride, non sorride. Il riso è aperto, il sorriso velato. Nessun maschio si è spinto a vietare alle donne il sorriso; anzi, in molti casi glielo raccomanda. Perché il sorriso è grazia, pazienza, sottomissione e recita. Il sorriso si può simulare; ma la risata no, quella nasce dal di dentro, è l'irrompere dello spirito bambino nella vita adulta. E i bambini sono anarchici, così come il riso dissacra il potere e la gerarchia. Questo, il tetro vicepremier lo sa bene. E sa che il riso delle donne è impudente il doppio, perché sono belle e osano essere felici. Ma l'invidia del potere, quand'e' anch'essa così smaccata e nuda, non suscita nemmeno indignazione; al massimo, pietà. 

Sull'umorismo involontario Pirandello ha scritto pagine immortali. "Una risata vi seppellirà" è la classica profezia che si autoavvera.



 Ma, in un simile frangente, non sembra neppure il caso di scomodare la letteratura. Ci bastano un paio di foto. La risata solare d'una bella ragazza di Istanbul, scattata proprio in risposta alla sgangherata "fatwa" dell'imam mancato, e il sorriso, stavolta maschile, d'un fascinoso giovanottone nudo e disponibile. Esclamata l'una, sussurrato l'altro, entrambi forti e vitali. Robe turche, insomma, che il vice ingrugnato non può che sognare, rosicando.



© Daniela Tuscano

29.7.14

Quanto piace la “pornografia sentimentale” al pubblico




ha ragione http://l-isola-di-lolla.blogautore.repubblica.it/2014/07/28/ in cui parla ( vedere articolo sotto ) di spettacolarizzazione o meglio pornografia dei sentimenti dei sentimenti . Che dire , se non che , purtroppo è la dura realtà. ormai da quasi 40 anni su 60 che la tv italiana ( limitandoci ad essa ) è una tv sempre più cannibale , è alla frutta e non sa cosa sfruttare per fare ascolti

Ci hanno abituati alla spettacolarizzazione dei sentimenti, ci hanno abituati al fatto che possiamo assistere alle tragedie altrui comodamente seduti sul divano, con le patatine al pepe rosa sul tavolino e l’Aperol soda in mano. “Carramba che sorpresa” è stato un precursore della pornografia sentimentale, ma chi poteva immaginarlo mentre guardava la Carrà nel suo caschetto sfavillante quasi vent’anni fa? Ci hanno anestetizzati, resi insensibili di fronte alle lacrime e ai singhiozzi di madri esasperate, di famiglie lontane, di storie finite. In televisione e sul web tutto è vendibile, mercificabile, riutilizzabile,
come in un allevamento intensivo delle emozioni. E se non sono vere, queste emozioni, allora si pilotano, come il Grande Fratello ci insegna: il colpo di scena, l’entrata di un nuovo personaggio, la tensione creata ad hoc per far scontrare i concorrenti. In questo enorme “The Truman show”, dopo anni di Barbara D’Urso con le sue espressioni sgomente, nonostante io mi sia impermeabilizzata anche di fronte alle lacrime più sincere, ho scoperto che posso ancora scandalizzarmi. Recentemente, dopo l’abbattimento dell’aereo di linea malese diretto verso Kuala Lumpur, sono state diffuse alcune foto del profilo Instagram di un ragazzo che era presente a bordo. Una in particolare mostrava il suo passaporto e la didascalia da brividi: “Adios amigos”. I commenti degli amici che gli auguravano buon viaggio, qualcuno addirittura esprimeva la sua invidia. Ebbene sì, ci sono cascata anche io, con tutte le scarpe, in queste sabbie mobili del macabro: mi sono ritrovata a cercare il suo nome sul web e a guardare il suo profilo con il resto delle foto. Mi sono ritrovata a sorridere scorrendo uno dopo l’altro gli scatti con i suoi amici abbracciati in riva al mare, i tramonti, la sabbia bianca, i viaggi che faceva, la sensibilità e il gusto estetico evidente in ogni foto. Che vita piena doveva avere, che vita ricca, ho immaginato; “come mi dispiace”, ho pensato. Ed eccolo lì, il risultato matematico e lineare: ancor più della tragedia stessa, è il gusto del macabro che attira, che è vendibile, sfruttabile. Mentre leggevo la storia di quel ragazzo, a poche ore dalla tragedia, quando ancora i corpi senza vita dovevano essere estratti dalle macerie, a fianco alle sue foto e ai suoi sorrisi, alle sue didascalie tipiche di chi ha il mondo in pugno e non vuole far altro che vivere la vita zaino in spalla, i banner pubblicitari di Google Adsense spuntavano di lato: uno a sponsorizzare i fanghi anticellulite per la temuta prova costume e un altro per un volo last minute verso un’isola tropicale. Il destino beffardo sembrava in grado di fare del sarcasmo anche in questa occasione. Consapevole che i motori di ricerca non hanno sentimenti (ma io sì) ho dovuto chiudere immediatamente la pagina, premendo forte la X rossa in alto, per uscirne il più presto possibile. Quasi vergognandomi di aver morbosamente violato quel profilo, quelle foto, quegli stralci di vita di uno sfortunato ragazzo a me sconosciuto.

E'  proprio vero, il mondo ormai va così e non possiamo farci niente ( se non lottare contro i mulini a vento ed essere scambiati per pazzi o snob ) o meglio avremmo potuto, se la società cioè non avesse accettato passivamente e acriticamente programmi spazzatura non modo da fornire spirito critico e elementi di resistenza al lavaggio del cervello alla generazione precedente ( quella degli anni '80 \90 ) che ha ormai già messo al mondo dei figli plasmati su questi schemi.
Avremo evitato che la [ sic ] Rai rispondesse alla nascita Mediaset con lo stesso livello inculturazione anziché con la cultura e che quindi ormai i media rappresentano la seconda famiglia, dettano legge e direi buona parte dell’educazione che i più giovani assorbono in maniera viscerale..
IO come l'autrice dell'articolo sopra riportato faccio parte di quella generazione di mezzo , cioè fra il 68 e il reflusso \ edonismo degli anni 80 (  vedere  i due  due  documentari sotto in particolare  il secondo  cioè Videocracy - Basta apparire  2009 diretto da Erik Gandini.  qui maggiori dettagli  \  informazioni  )




ma devo dire che, nonostante la consapevolezza e qualche anticorpo al pattume culturale dello stato attuale delle cose, a volte mi lascio coinvolgere dal gusto del macabro, dalle spettacolarizzazioni televisive dei sentimenti, dalla teatralità dei racconti..purtroppo questo fenomeno non accenna a diminuire e non sembra conoscere crisi..e tuttavia, come accennavi, rischiamo di renderci sempre più insensibili..dirò una banalità però fa riflettere come ci si commuova per uno sconosciuto quando spesso non si degna nemmeno di uno sguardo i mendicanti (ormai sempre più anziani) che ti chiedono una moneta per andare avanti..
Infatti dopo aver visto :  1)    le prime due edizioni del grande  fratello ed   un edizione d'amici   . La  prima  per  curiosità , nonostante  sia  il  mie vecchi   che il prof  di letteratura  dell'epoca   lo sconsigliavano  , ma  io  per la mia testardaggine di vedere  le  cose  a  tutti i  costi  e  non fidarmi  di giudizi aprioristici  , ma soprattutto per  vedere  come la tv  avrebbe messo in atto quello   che  G. Orwell aveva predetto  con il suo   romanzo   1984  . La seconda ( anche se alternata alla versione comico\ satirica di mai  dire  grande  fratello   della Gialappas  ) perchè " imposta  " dai miei coinquilini    e perchè  certi personaggi  , se pur manovrati   con i microfoni facevano ridere  .  2)  la  prima ( o una delle prime  edizioni )  di amici  perchè  c'era un mio compaesano fra i protagonisti     e perchè  credevo fosse  come il film  e  poi la serie  omonima    saranno famosi  .
Ma  dopo aver  visto  il  film   the truman show    (  sotto il promo )  sto attuando   la stessa scelta di


 Clizia  autrice  del  commento al post citato prima di Lolla 29 luglio 2014 alle 12:46
Personalmente non guardo mai questi programmi….reality o varietà in cui si chiede alle persone di piangere pubblicamente sulle proprie tragedie. Sarò anche cattiva ma ultimamente mi chiedo se siano davvero reali, perchè se lo fossero come può una persona straziata dal dolore più lacerante accettare di truccarsi, vestirsi e prepararsi per raccontarlo in tv? Allora non è dolore…. perchè diciamocelo, se la mia famiglia è stata devastata da una tragedia l’ultima cosa di cui io mi preoccupo è truccarmi per andare in tv e piangere davanti a tutti…… Eppure queste sono le stesse storie che tutti i tg anticipano….le storie di cronaca nera di cui tutti i giornali parlano e riparlano, quindi sono reali. Eppure non capisco. A me darebbe fastidio dover parlare con un giornalista di mio figlio morto sgozzato …. penso che piuttosto che uscire di casa e vendere dichiarazioni mi tagllierei un dito, ma anche un braccio e il resto del corpo. mi viene da pensare che siano tutte montature per fare notizia….
Eppure sembrerebbero proprio vere.
Io non ho mai seguito il grande fratello, anche se ricordo abbastanza bene le prime tre-quattro edizioni che ho guardato di tanto in tanto ma le consideravo quasi come una soap, per me erano paragonabili a qualsiasi programma tv, una storia con attori e copioni. Niente di vero , serio o reale. E invece ultimamente sto riflettendo sul fatto che il GF come tutti gli altri reality in cui tot persone vengono “rinchiuse” in case, isole , ecc, possano essere considerati dei veri e propri esperimenti sull’uomo. non penso che l’idea sia “male”. “Cosa succederebbe se io metto dieci persone in questa casa senza tv, computer, cellulari per 100 giorni? Cosa succede? In passato molti studiosi si sono avvicinati al fare questo genere di cose. Può sembrare crudele come cose però a me incuriosisce…… e lo seguirei se purtroppo non ci fosse questa spettacolarizzazione dei sentimenti. se non si chiamassero in causa persone con passati oscuri da dover raccontare per fare audience o continue entrate e uscite dalla casa, dalla cantina, dalla suite, dalla stalla…… ora è diventato caotico e quello che poteva di base essere un programma a mio parere interessante è diventato un vero e proprio pollaio. Non è possibile che appena accendo la tv veda gente piangere e vendere la propria storia….. mi viene da chiedere se davvero questi ragazzi stiano tutto il tempo chiusi nella casa o no. In genere la spettacolarizzazione dei sentimenti non la tollero, sembrerà brutto ma ora noto che si è diffusa sul tubo. Oltre alla miriade di ragazze che si svegliano scoprendo che la loro più grande aspirazione è quella di diventare makeup artist (nulla da ridire…..mestiere rispettoso come tutti gli altri, se fosse autentico e non una moda) e che piangono ad ogni video perche raccontano la loro piccola tragedia personale, o quanto si siano commosse per la tal cosa o il tal evento. io di base sono una persona riservata e non amo parlare dei miei problemi a tutto il mondo, d’altra parte trovo che lo sfogarsi sia importantissimo e quando succede e ho intorno persone che amo sto meglio…come d’altra parte mi fa piacere che persone che amo si sfoghino con me o abbiano anche dei crolli in pubblico perchè esasperate da una serie di eventi e io in qualche modo riesca a dar loro conforto.
Al di la di tutto ciò che ho detto, che può essere condiviso o meno (ci mancherebbe!!!!) la domanda finale che mi pongo è la seguente: probabilmente le vicende di vita chiacchierate o le tragedie sono reali. Sono reali tutti i fatti di cronaca nera, sono reali le storie delle ragazze che su internet piangono la loro storia personale…….. ma in ogni caso se hanno la forza di mettersi davanti ad uno schermo e vendere tutto quello che è successo piangendo e disperandosi….sarà vero anche il loro dolore?
Anche   a costo di passare  per  snob  o    suscitare clamore  e preoccupazione   perchè  durante  un uscita  con la compagnia  tutti\e  stanno parlando di reality e menate  varie  ed  io  non guardando simili sconcezze  ( metaforicamente  parlando  )   sono rimasto   in silenzio    per  una buona mezz'oretta  . Ora  se   tutti  faremo un gesto di resistenza    come suggerisce   questa  famosa  canzone   di Sabrina  Guzzanti  





e smetteremo di mandare   il cervello all'ammasso in cassa integrazione   cvin riprenderemo la  nostra  dignità  e  avremo una  tv  meno cannibale

28.7.14

c'era bisogno di chiamare gli stranieri per recuperare la costa concordia ? basta applicare lo stesso sistema usato 74 anni fa per l'incrociatore trieste

fra  i tanti bla  .. bla  ...  spesso futili e  morbosi per  riempire  le pagine dei giornali sul recupero  prima  e  il viaggio  funebre  della costa  concordia    ci si  è   dimenticati  che un recupero simile avvenuto  con gli stessi sistemi   è avvenuto   quasi un secolo  fa  , sempre  in italia . 

da  la  nuova  sardegna  online del 27\7\2014


La Costa Concordia recuperata come l’incrociatore Trieste affondato a Palau
Il precedente in Sardegna: nel 1950 la nave da guerra fu raddrizzata con tecniche simili a quelle impiegate al Giglio per la nave da crociera






PALAU. Flash dal passato per fotografare l’attualità di oggi. Nelle acque della Sardegna sono già stati sperimentati alcuni metodi avveniristici simili a quelli usati in questi giorni per recuperare e trainare la Costa Concordia sino a Genova. E lo si è fatto 64 anni fa. Nel 1950 la Marina italiana ha promosso, e portato a termine con successo, un’operazione all’avanguardia per quei tempi. Al centro della complessa missione, l’incrociatore Trieste. Il filmato dell'Istituto Luce, conservato su Youtube, 

mostra la parte finale dell'operazione avvenuta a La Spezia dove la nave venne trainata. Nelle acque della Sardegna sono già stati sperimentati alcuni metodi avveniristici simili a quelli usati in questi giorni per recuperare e trainare la Costa Concordia sino a Genova. E lo si è fatto 64 anni fa. Nel 1950 la Marina italiana ha promosso, e portato a termine con successo, un’operazione all’avanguardia per quei tempi. Al centro della complessa missione, l’incrociatore Trieste.Trasporto in 4 fasi. Ecco come si sono svolti i fatti. Prima è stata fatta risalire in superficie da un fondale di 25-30 metri la nave, che era stata colpita da aerei anglo-americani nella primavera del 1943 durante un massiccio bombardamento davanti a Palau. Poi applicati alla chiglia dell’unità militare - lunga quasi 200 metri e larga più di 20, 13.885 tonnellate di stazza a pieno carico - enormi cassoni riempiti d’aria.Tappa successiva: il trasferimento con i rimorchiatori sino alla Spezia, centinaia di km percorsi col relitto a galla ma non ancora in posizione verticale. Quindi, nel porto ligure, si è proceduto a raddrizzare lo scafo. Anche in questo caso, lavoro tutt’altro che semplice (soprattutto se si considerano i mezzi, di sicuro meno progrediti rispetto agli attuali, che i militari italiani avevano a disposizione in quegli anni).empi e modalità. La parte finale del lavoro, comunque, ha richiesto a sua volta diverse fasi, qualcuna delicatissima. Innanzitutto, decine di palombari militari hanno asportato le sovrastrutture sulla tolda dell’incrociatore, tamponato le falle, creato compartimenti stagni. Successivamente, sotto le direttive dell’ingegnere triestino Antonio Merceglie, dal pontone della nave è stata pompata aria compressa nella parte destra più interna.Nello stesso tempo, per ottenere un riequilibrio perfetto, gli uomini incaricati della manovra hanno fatto entrare acqua nel lato destro della stiva ottenendo così un’efficace contro-spinta. Al termine sono stati riempiti d’acqua marina anche 7 cassoni da 20 tonnellate ciascuno. «Una leva invisibile», spiegavano i commentatori nel dopoguerra, «ma capace di far girare l’intera nave riportando la chiglia e le eliche nella posizione originaria».La storia e i ricordi. Ma come mai si riparla adesso di quest’impresa compiuta tanto tempo fa? Tutta l’operazione è descritta in diversi libri. E se ne può trovare traccia su internet: fra l’altro, nel documentatissimo sito della Marina italiana. Non solo: su You Tube scorre un video girato dall’istituto Luce nel 1950 sul “raddrizzamento” del Trieste.Ma il nuovo spunto alla rievocazione del caso, naturalmente, è arrivato dallo spettacolare traino della Concordia, ancora in fase di ultimazione in queste ore. Un trasporto così straordinario ed eccezionale che è stato “coperto” dai media di tutto il mondo attraverso giornali, tv e web. E che ha suscitato grande interesse in Sardegna. Richiamando alla mente di molti anziani che vivono tra La Maddalena e Palau ricordi del passato su questo precedente.Prima le terribili immagini dei bombardamenti. Poi quelle della nave colata a picco. Infine le sequenze dell’immane lavoro per riportare a galla l’incrociatore e indirizzarlo verso le Bocche di Bonifacio per il trasferimento nell’area militare dello scalo spezzino.La logistica. Allora come oggi la città ligure resta una delle maggiori roccaforti della Marina. Non solamente per la presenza di cantieri e altre importanti sedi e strutture operative, ma anche per le elevatissime competenze professionali degli uomini in servizio.Specialisti. Caratteristiche note sin dall’epoca nella quale è stato organizzato il traino dell’incrociatore dal nordovest dell’isola verso la Corsica e la Liguria. E che sono state alla base dell’attività di recupero del relitto.Significativo, proprio sotto quest’aspetto, lo spezzone di cine-giornale presentato dagli operatori e dai giornalisti dell’istituto Luce.Il video, che in quegli anni veniva trasmesso nelle sale cinematografiche negli intervalli della proiezione dei film, rivela dettagli e particolari sui sistemi utilizzati. E mostra i tecnici e i marinai all’opera per rimettere in posizione verticale la grande nave militare, affondata sei mesi prima della corazzata Roma (in questa seconda circostanza, dopo l’armistizio dell’8 settembre, l’attacco era stato sferrato dagli ex alleati tedeschi della Luftwaffe tra La Maddalena e l’Asinara).L’epilogo. Ciò che invece i pochi minuti di video dell’istituto Luce non possono rivelare è quel che succederà in seguito. Sempre nel 1950, il governo di Roma prende accordi col ministero della Difesa spagnolo per la cessione dell’incrociatore alla regia marina iberica. All’origine della vendita, l’idea di Madrid di trasformare l’unità navale italiana in una portaerei. Il Trieste è così portato in un porto spagnolo. Ma il progetto viene poi abbandonato. Sei anni più tardi, la demolizione.
L’ex assicuratore Giuseppe Pala ha 81 anni e non lavora da tempo. Ma la sua memoria è intatta come quando si occupava di contratti e polizze. «E certo non dimentico le tremende scene del Trieste bombardato alla Sciumara, ce le ho qui in testa da quando ero un bambino di 10 anni», dice.È uno dei testimoni che si sono fatti avanti per sottolinerare «come in tv non si faccia altro che presentare quello della Concordia come un primo caso per l’Italia», e invece «già nel 1950, quando di anni ne avevo 17 ed eravamo tornati da un bel pezzo a Palau dopo essere rimasti sfollati a Sant’Antonio, ho potuto vedere all’opera le squadre della Marina e i palombari che recuperavano il relitto facendolo tornare a galla e lo predisponevano per il traino sino alla Spezia».«Da ragazzo, in barca, andavo nel punto dove l’incrociatore è affondato – continua – Il Trieste si era adagiato su una fiancata, in alcuni punti con i remi riuscivamo a toccare la parte più vicina alla superficie. Ma non ci avvicinavamo spesso perché ovunqueo c’era catrame: quando è stato colpito aveva i serbatoi pieni». Il lavoro per riportare la nave in assetto, rammenta, era durato molto. «E tutti, da terra, a Palau, lo seguivamo con attenzione – aggiunge – Sino a quando abbiamo visto che venivano usati i cassoni d’aria e altri sistemi sofisticati per sostenerla».«Così un giorno del 1950 abbiamo visto partirea la squadra: l’incrociatore era trainato con cavi d’acciaio da due rimorchiatori davanti mentre un terzo stava dietro – conclude il racconto Pala - Poi ho saputo che alla Spezia avevano raddrizzato lo scafo e che il relittto era stato venduto. Da allora è passato tanto tempo, ma io ricordo tutto benissimo e mi è sembrato giusto non dimenticare gli uomini che per primi si sono impegnati in una missione tanto difficile». 







25.7.14

il destino e come una lotteria . Malata di cancro prepara il funerale ma .... la diagnosi si rivela errata la storia di Denise Clark

da  unione sarda  Venerdì 25 luglio 2014 14:39

A Denise Clark era stato diagnosticato un cancro in stadio terminale: lei aveva organizzato il suo funerale e scritto lettere d'addio ai suoi figli. In realtà la diagnosi era errata.
Le avevano dato pochi mesi di vita, quindi Denise Clark, 34 anni, di Aberdeen (Regno Unito), aveva pensato a tutto: organizzare il suo funerale, dire addio ai suoi figli con una lettera, godersi l'ultima estate con la sua famiglia.

Si è però scoperto che quella diagnosi, che parlava di un tumore in stadio terminale, era sbagliata. La donna quindi farà causa all'ospedale.
La storia, raccontata dal Telegraph, è iniziata 5 anni fa, quando era incinta del suo secondo figlio, Luca. Un esame aveva riscontrato un cancro al collo dell'utero e, per salvarle la vita, i medici avevano fatto nascere in anticipo il bambino e sottoposto la mamma a una serie di cure. La malattia, le avevano detto, era stata debellata. Due anni fa il problema si è ripresentato: nuovi esami e diagnosi devastante; il tumore si era riformato. Questa volta, però, le rimaneva poco tempo, perché era in stadio avanzato. La donna, che nel frattempo si era separata dal marito, che non aveva retto alla difficile situazione, era rimasta con i suoi due figli, aveva seguito delle terapie in diverse cliniche specializzate per "allungare" il periodo di tempo per stare in vita, spendendo oltre 10mila sterline.
Per quest'estate aveva preso delle ferie speciali dal lavoro per trascorrere le vacanze con i bambini (Harvey, 10 anni, e Luca, 4). Aveva scritto loro delle lettere, che avrebbero potuto leggere e conservare: "E' stato struggente mettere nero su bianco quelle parole", racconta Denise. Poche settimane fa, invece, il colpo di scena: quella diagnosi si è rivelata errata. "Nessuno potrà mai restituirmi la serenità persa in questi anni, i sorrisi mancati, i pianti devastanti ogni giorno e ogni notte", ma una cosa non dimenticherà mai: "Il viso dei miei bambini quando sono tornata a casa e ho detto loro: la mamma non se ne va più".

23.7.14

ecco cosa succede ad usare specie massaggiare il cell mentre si guida . video shock di Peter Watkins-Hughes


lascio un po' di spazio  cosi le persone sensibili e deboli di stomaco  fanno ancora  in tempo  a  non vedere  questo  video  regista è l'inglese Peter Watkins-Hughes (vedi il suo profilo http://goo.gl/KKlimF). , cerco  scioccante  , ma  visto che la  gente   non capisce   e  ti guarda  ridendo o sconsolato quando  gli lo fai notare  , la dura e cruda realtà   mi sembra l'unico mezzo . 
Il video è abbastanza un pugno nello stomaco (quando vedrete il neonato probabilmente penserete che si siano spinti troppo oltre), ma secondo me è giusto che sia così.....
Poi è fatto benissimo - recitazione, montaggio, effetti speciali meccanici e digitali sono tutti di alto livello.
 A  voi al scelta  se  guardarlo  o meno  .




rivoluzione nel mondo delle modelle ? nuovo calendario pirelli 2015


Segnatevi questo nome perché se ne parlerà per tutto il 2015. Con il suo sorriso dolce, gli occhi scuri e intensi e le sue gambe chilometriche è entrata di diritto tra le muse del Calendario Pirelli. E poco importa se la bilancia segna 90 kg.......
Grazie all'amico Dario  chicchero   che  sul suo facebook   ha  riprtato tale  news  .

The Cal dà il via a una nuova era: dopo aver visto modelle fin troppo magre avanzare a grandi falcate sulle passerelle, adesso la bellezza si libera di un fardello per esprimersi a modo suo. Non c'è taglia che regga e ogni donna diventa una possibile donna da copertina. A soli 29 anni, Candice Huffine rappresenta il punto di rottura con gli stereotipi ricercati dal fashion system: «Ieri sera, prima di venire qui sul set con le altre ragazze, pensavo a questa cosa di essere la novità. E mi sono venute le lacrime agli occhi. È davvero un cambiamento forte voler inserire nel cast una ragazza con la mia immagine» ha dichiarato la modella a Vanity Fair, dal backstage del set fotografico di New York. «Penso che oggi siamo in timing per lanciare un messaggio di bellezza più completo. C’è un’evoluzione nel nodo del costume e il pubblico desidera anche una femminilità più morbida. Sono un modella con qualcosa in più che la gente è pronta a vedere».

  per  sicurezza    mi lo  metto anche con il il codice  embed  
Il Calendario Pirelli è un passaggio obbligato per entrare nell'Olimbo dei “bellissimi”. Tantissime le protagoniste top model, tra cui Kate MossNaomi CampbellMilla JovovichGisele Bündchen,Isabeli FontanaBianca BaltiElisa Sednaoui; mese per mese, sono state ritratte anche bravissime attrici come Sofia LorenPenelope Cruz e Julianne Moore; e anche se non tutti se lo ricordano, è apparso anche qualche artista uomo, come Alessandro Gassman, John MalkovichEwan Mc Gregor e Bono

Ma mai, fino ad oggi, era entrata una modella curvy. Per lo shooting siglato 2015, è stato chiamato  Steven Meisel che sarà il testimone della rivoluzione in atto.  

rottura di un tabù e di un luogo comune anche i down si sposano la stria di Mauro& Marta i primi in Italia

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http://www.videomedica.org/videomedica/?p=11610
Consapevolezza senza pietismo per combattere la paura dell’handicap. Un messaggio importante ed ironico da parte di chi l’handicap lo vive dalla nascita. – intervista a DAVID “ZANZA” ANZALONE attore, autore, regista e, come recita la sua carta d’identità alla voce professione “Handicappato”


E'  proprio  vero  che in Italia  ( eccetto qualche malpancista )   è più  avanti  la  gente delle istituzioni Finalmente   si rompe  un tabù ed  una convenzione   consolidata  cioè che  per  sposarsi  si debba per  forza  di cose  essere  sani  . ma  purtroppo..... c'è  retrogusto amaro a  tutta  la  vicenda  ma  qualcuno gli aiuta  
Ma iniziamo  dal   lato bello  preso da  diverse pagine del web  ( non ricordo i  siti , ma come  già detto  nel  manifesti   e  faq  del  blog  ,  ripeto    se qualcuno\a   degli aventi diritto  o i loro rappresentanti legali  si  faccia avanti   e il post  sarà modificato  con le  aggiunte  o la cancellazione


L’amore non ha sesso, non ha età e nessun confine. La storia che nelle ultime ore sta appassionando tutta Italia ha come protagonisti Mauro e Marta, 40 anni lui, 30 anni lei, affetti dalla sindrome di Down che domenica 6 luglio nella chiesa di San Bonaventura al Palatino, a Roma, hanno coronato il loro sogno d’amore e si sono finalmente sposati ( scopri qui la proposta di matrimonio a una ragazza malata di tumore).A darne la notizia è stata L’AIPD Nazionale che si occupa persone affette da questa patologia aiutandole a vivere serenamente, conducendo una vita completamente normale e, tra le altre cose, segue i ragazzi nell’avventura della vita di coppia e della convivenza, aiutandole ad arrivare al fatidico “Sì”. Quello di Mauro e Marta è il primo caso assoluto di matrimonio tra persone Down in Italia all’interno dell’Associazione Italiana Persone Down, “ma non resterà l’unico: l’amore è democratico e sono molte le coppie che negli anni si sono formate” – ha dichiarato Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell’AIPD, al Corriere della Sera ( guarda qui la foto degli sposi con un ciclone alle spalle ). “Da noi l’indipendenza è una conquista recente. Questi ragazzi e le loro famiglie hanno cominciato soltanto da poco a sperimentare percorsi di autonomia” sottolineando con orgoglio il risultato ottenuto dai due giovani e del cammino di felicità che hanno iniziato a percorrere insieme.Insieme da 10 anni, conviventi da tempo Mauro e Marta hanno fatto il grande passo sposandosi stabilendo in Italia il primato di coppia down sposata che fa parte dell'Associazione Italiana Persone Down. I due lavorano e hanno vissuto insieme a Casa Petunia, una casa famiglia a bassa assistenza per le persone affette dalla sindrome di Down.Le foto delle loro nozze hanno conquistato il web che si è congratulato con la coppia e ha augurato loro tanta felicità. PROGETTO DI VITA – Marta e Mauro, lei receptionist per Adecco lui impiegato all’Asl, si sono scambiati le fedi nuziali  dopo 10 anni di fidanzamento e dopo 4 anni di convivenza passati nella casa famiglia Petunia, progetto della Fondazione Italiana verso il Futuro: “Ci siamo conosciuti ad una festa di compleanno: prima è nata un’amicizia, poi lui si è dichiarato…” confessa Marta, “La cosa che più ci trasporta è la fiducia. Ci sappiamo sopportare, e se litighiamo troviamo un punto d’incontro. Da quando l’ho conosciuta ho avuto subito la voglia di creare il mio nucleo familiare” spiega Mauro.La coppia, prima ancora di decidere per il grande passo, aveva già raccontato la propria storia a XLove, programma di Italia 1 spin-off de Le Iene. Sul tema suggerisce  http://www.giornalettismo.com/  (  mi sembra  di ricordare  )  anche l’ottimo Hotel 6 Stelle, docu-fiction di Rai3 prodotta da Magnolia cui l’AIPD ha collaborato.Questa coppia felice, come tante se ne vedono il giorno del matrimonio, ha però segnato la storia del nostro paese.


20140714 74104 10492155 10152539348029841 4407641787110 478x289 Mauro e Marta sposi: sono i primi in Italia… ecco perché





le foto sono prese da http://www.direttanews.it/2014/07/14/







il lato brutto della cosa è  che  Mauro e Marta non avevano programmato di vivere la loro nuova vita a “Casa Petunia”.

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Mauro e Marta non avevano programmato di vivere la loro nuova vita a “Casa Petunia”. La sua indisponibilità è diventata un problema perché fino a ora non sono riusciti a trovare un appartamento in affitto. “Molti proprietari - sottolinea l'Associazione persone Down - si rifiutano di affittare quando sanno che nella casa vivranno persone con disabilità”. La conferma viene dai genitori di Marta: “Non chiediamo un servizio gratuito da parte delle istituzioni – hanno dichiarato – ma ci piacerebbe che i nostri figli potessero trovare un'abitazione che abbia costi sostenibili per i loro stipendi e per il loro stile di vita”.Non esiste solo il “dopo di noi” (cioè il problema dell'organizzazione della vita dei disabili dopo la scomparsa dei genitori), ma esiste anche un “durante noi”, la possibilità di avere le stesse opportunità delle persone “normali”. Non è un problema da poco. In Italia, il 60 per cento delle persone Down ha superato i 18 anni di età e molte di loro, con qualche sostegno, sarebbero in grado di condurre una vita autonoma, in una casa.
Ma solo in pochissime realtà (a Pisa e a Venezia, per esempio) le Asl o gli istituti per le case popolari hanno reso disponibili delle abitazioni consentendo l'avvio di esperienze di preparazione alla vita indipendente. Casi isolati. “Il tema dell'abitare – commenta Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell'Aipd – ci interroga con urgenza e possiamo affrontarlo solo con creatività, individuando soluzioni con e per le persone Down, integrando professionisti e volontariato, valorizzando tutte le risorse possibili. Ci piacerebbe che qualche ente uscisse allo scoperto”.
Tanto più che in questi tempi di tagli al welfare, quando le risorse sono sempre più esigue, investire sull'autonomia significa dover ricorrere con meno intensità alle struttura assistenziali nel “dopo di noi” e, quindi, determinare risparmi notevoli per la collettività. Il lieto fine della storia di Mauro e Marta ci riguarda tutti.

ma  

A lanciare l'appello è stata Anna Contardi, la presidente dell'Aipd: “Il mercato pubblico e quello degli enti – ha detto – si attivino, per evitare di dover ricorrere ai privati. I quali in questi casi nutrono sempre molti dubbi perché recidere un contratto di affitto fatto a persone che presentano disabilità risulta più complesso. La storia di Mauro e Marta – ha continuato .- non è una storia eccezionale. E potrebbe spianare la strada a tante persone che un giorno si troveranno nella loro stessa situazione”.

L'Aipd propone una soluzione di buon senso: che gli enti proprietari di un patrimonio immobiliare ricavino dagli stabili in disuso soluzioni di 'sperimentazione abitativa'. Pieno il sostegno della trasmissione Baobab che ha messo a disposizione la propria mail (baobab@rai.it) per chiunque voglia offrire un contratto d'affitto ai due giovani.Ad aggravare il problema di Mauro e Marta, una delle tante conseguenze dei tagli al welfare. Infatti la casa-famiglia dove nel 2012 avevano cominciato a convivere, dopo un fidanzamento durato otto anni, non può garantire più il servizio. Non c'è quindi una soluzione-ponte in attesa dell'arrivo di un contratto d'affitto, a parte il ritorno nelle case di famiglia. Dove, ovviamente, sarebbero accolti a braccia aperte. Ma sono gli stessi genitori a sostenerli nel loro percorso di autonomia. “Ci piacerebbe – ha dichiarato la madre di Marta - che i nostri figli potessero trovare un'abitazione che abbia costi sostenibili per i loro stipendi e per il loro stile di vita”.

22.7.14

- le cose belle della vita le storie di Edinma tokodi e Ciro Sabatino

ecco due  storie  di (r)esistenza  culturale  \  guerriglia contro culturale  .La prima  viene  ( non  sono riuscito a trovarlo , salvo le  foto  prese  con il mio cellulare  dalla versione cartacea  ,  evidentemente  non lo mettono sul sito  , l'intervista  fatta  sempre  da taddia  , per  il settimanale  topolino   )  da la stampa   del 13\4\2014  a  cura  di F. Taddia 

Non la mia personale “guerriglia” voglio usare il verde urbano per ribaltare il rapporto tra uomo e natura: se tutti avessimo un giardino personale da coltivare avremmo un rapporto molto più equilibrio con ciò che ci circonda”. Ispirazione artistica e vocazione ecologica: è dal virtuoso incontro di queste due istanze vitali che Edina Tokodi, in arte Mosstika, ungherese di nascita e newyorchese di adozione, ha abbracciato e fatto sua la forma espressiva dei “Moss graffiti”, ovvero la “street art” realizzata con il muschio. “L’idea iniziale era quella di creare dei veri e propri   
giardini prefabbricati da apprendere alle pareti, per arredare artisticamente gli spazi pubblici. Ora invece i miei “disegni” di muschio hanno l’ambizione di richiamare l’attenzione sulla carenza nella nostra quotidianità di momenti di riflessione sul rapporto con l’ambiente: sono punti esclamativi diffusi in tutta la città”.  Ed ecco allora spuntare sulle pareti di case, palazzi ed edifici abbandonati, divertenti animali e giocose sagome umane, dai verdi più variegati, soffici e invitanti da accarezzare. La tecnica assomiglia a quella dello stencil, con le figure che vengono ritagliate in laboratorio e poi applicate sulle varie superfici verticali, creando stupore e rivitalizzando strade e quartieri che necessitano di boccate d’ossigeno.




“Voglio portare al passante il senso della terra, l’emozione dell’arte, la gioia dell’inatteso. E diventa quindi per me fondamentale la reazione dei pedoni: vedere se si fermano a guardare, a giocare, a toccare. Verificare incuriosita se lasciano i miei lavori intatti, se scelgono di prendersene cura o, al contrario, di deturparli. A volte i graffiti rimangono

per settimane, altre volte per poche ore: ma non importa, quel che conta è contribuire, in modo ecologico e sorprendente, alla metamorfosi visiva delle nostre metropoli”.


La  seconda è una come la prima una sorta di reazione \ guerriglia contro culturale alla crisi economico e sociale

 DA  http://www.huffingtonpost.it/titti-marrone/  del 18\7\2014

"Iocisto", prima libreria d'Italia ad azionariato popolare. Metodo SuperSantos come antidoto agli sfracelli e alle "lacrime napulitane "

  


Scrivere un blog su Napoli e da Napoli può essere cosa che sgomenta, perché ci si sente Cassandre costrette a raccontare solo di cornicioni che uccidono, alberi e lampioni che si schiantano sulle persone, affreschi e tesori antichi sbriciolati, manti stradali spalancati in voragini, pentiti che svelano decenni di sversamenti di veleni. È questa la fine che ha fatto la famosa, usuratissima porosità indicata da Benjamin come tratto distintivo della città, suo segno di vitalità, di non omologazione. Come non bastasse la tragedia di Salvatore Giordano, il ragazzino schiacciato dal crollo del fregio alla Galleria Umberto, a Napoli collassano - per incuria, indifferenza politica, forzata rimozione - anche iniziative culturali, idee originali, comparti produttivi, mentre i bouquiniste di Port'Alba sono allontanati da un blitz da contrasto al crimine. E mentre anche oggi s'inanella la consueta sfilza di notizie nefaste, i politici sono indaffarati a litigarsi i posti nelle liste di elezioni regionali cui sempre meno i cittadini avranno voglia di partecipare, mentre l'amministrazione pubblica sembra vivere su Marte, lontana com'è dai problemi reali.
Allora, vista l'inefficacia di tante denunce, la sordità e l'inettitudine delle istituzioni, la ripetitività di una cronaca quotidiana che sembra inchiodarti sempre allo stesso spartito, due sono le alternative: o annichilirsi e tacere, oppure cercare altrove. Scardinare la gerarchia delle notizie abituali e tentare di raccontare le buone pratiche, i fatti positivi, i segnali di riscossa.
Eccone uno, piccolo ma importante. Quartiere Vomero, 120 mila abitanti, il più densamente popolato della città, la zona residenziale egemonizzata dal commercio. Tra tanti negozi di abbigliamento, ristoranti, pizzerie, snack bar, nemmeno una libreria: l'ultima, Loffredo, ha chiuso poche settimane fa. La penultima era Fnac, dove già i libri erano oscurati dai mega-schermi al plasma e dai cellulari in tutte le salse: sparita anche quella, al suo posto solo tv e telefonini. Succede che un poliedrico operatore culturale, Ciro Sabatino, posti un suo sfogo su Facebook: Le librerie chiudono? Vabbe', allora la libreria ce la facciamo noi. 
Il post di Ciro Sabatino che ha dato inizio alla vicenda 
E in pochi giorni, circa seimila persone dicono "io ci sto", si attivano, danno corpo e gambe a un progetto che sembrava impossibile. Ci si divide in tre gruppi: chi cerca la sede, chi prepara un piano finanziario, chi raccoglie suggerimenti per riempire di contenuti l'idea iniziale. Ci si autotassa, si decide di lanciare una campagna di raccolta di fondi. Senza tanti clamori sulla cosiddetta "società civile", categoria usurata e spesso equivoca, senza aspettarsi interventi dall'alto, stanziamenti di fondi pubblici, tavoli istituzionali, partendo semplicemente da un bisogno reale, individuando una priorità cui dare spazio, alcune persone che non si conoscevano tra loro hanno pensato di provare a non dare per persa la città ma di partire in proprio, con una piccola idea da trasformare in realtà.
E' nata così la prima libreria ad azionariato popolare d'Italia. Per ora c'è un'associazione, una pagina su Facebook - "Iocisto" - c'è la sede, un bellissimo spazio in via Cimarosa, angolo dell'oasi pedonale facilmente raggiungibile perché accanto alla funicolare centrale. Il primo passo dell'inaugurazione è per il prossimo lunedì, 21 luglio, quando si lancerà il crowdfunding, cioè la sottoscrizione, ma ai soci piace di più parlare di "metodo Supersantos": come quando, da ragazzi, prima della partitella di calcio si faceva la colletta tra gli interessati per comprare il pallone. Però qui non si gioca: il 21 a Napoli sono attesi i maggiori esperti di crowdfunding, in una serata in cui si terrà un'asta di oggetti insoliti, libri autografati o rari, servizi offerti dai soci. Si potranno comprare giornate in libreria, "pezzi" dello spazio e raccogliere fondi, puntando a un certo tetto per allargare l'associazione e garantire il lancio delle attività vere e proprie. Poi partirà la "fase due" con la trasformazione dell'associazione in spa, il via all'azionariato popolare ma senza la possibilità di fare scalate: a nessuno sarà permesso di superare la quota massima consentita, di cinque azioni.
La libreria, che per ottobre sarà fornita di libri, arredi e tutto quanto è utile a dare sostanza ai bellissimi spazi per ora vuoti, sarà aperta fino a tarda sera. Avrà una sezione speciale dedicata ai piccoli editori ma allo stesso tempo ospiterà tutti i titoli più richiesti, assicurerà servizi a domicilio, un'area multimediale, uno spazio ragazzi, uno musicale, un settore dedicato alla degustazione di prodotti tipici.
Certo, nessuno s'illude che il "nuovo inizio" di Napoli possa venire da una libreria. 

il logo della libreria da http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/07/16/foto/

Né si è così ingenui dal pensare che tutto sia facile com'è sembrato fin qui, che non sorgano contrasti, divergenze, interessi contrapposti. Però, una volta tanto, può servire fermarsi a riflettere sul metodo che quest'iniziativa adombra. Nessuno ha voglia di cedere alla retorica delle cose nate "dal basso", all'idea di svolgere funzioni supplenti rispetto a quelle da pretendere come doveroso appannaggio della dimensione pubblica. Ma se si vuole cercare un antidoto allo sfracello, è ora di uscire dalla logica delle "lacrime napulitane", di sperimentare anche qui pratiche di cittadinanza diretta diffusissime in altre città europee e statunitensi. "Iocisto" è per ora solo una goccia nell'oceano dell'incuria e dei disastri partenopei, ma chissà che non dilaghi. Già crescono, sulla pagina Facebook, le richieste di adesione da varie parti d'Italia, e non solo. Per iscriversi, basta versare la quota di 50 euro all'Associazione Iocisto, Iban IT08E0326803403052816901630.



IL Vomero è una zona di Napoli con scuole, cinema, qual­che tea­tro e libre­rie. Cinema e libre­rie però stanno spa­rendo. Nel giro di poche mesi, hanno abbas­sato la sara­ci­ne­sca nel quar­tiere ben due editori-librai par­te­no­pei e la Fnac è diven­tata Trony. I libri ci sono ancora, ma sono cir­con­dati da tele­vi­sori dalle dimen­sioni sem­pre mag­giori. Non se la pas­sano benis­simo nep­pure i punti ven­dita che fanno capo a edi­tori famosi, sparsi tra il cen­tro sto­rico e Chiaia. A Port’Alba, sto­rica zona della città dove si tro­vano per­sino i testi fuori com­mer­cio, i vigili hanno fatto sgom­brare le ban­ca­relle. Al posto dei volumi e dei negozi di stru­menti musi­cali spun­tano le riven­dite di pata­tine fritte. Per rea­gire allo scon­forto, il gior­na­li­sta Ciro Saba­tino ha aperto il gruppo face­book «Io ci sto», dando il via alla prima libre­ria ad azio­na­riato popo­lare.


In pochi mesi tre­cento soci con un inve­sti­mento minimo di cin­quanta euro hanno per­messo di rac­co­gliere circa tren­ta­mila euro. «Con­ti­nue­remo con la ricerca di nuovi sot­to­scrit­tori – ha spie­gato — abbiamo orga­niz­zato uno spet­ta­colo e messo all’asta cimeli per rac­co­gliere altri fondi. A set­tem­bre avvie­remo il cro­w­d­foun­ding in inter­net. Dob­biamo rag­giun­gere i set­tan­ta­sei­mila euro per par­tire in autunno». Per ora c’è la sede, in via Cima­rosa 20, e l’associazione: ad acco­gliere i futuri let­tori, L’amico ritro­vato di Fred Uhl­man su un espo­si­tore al cen­tro del cor­ri­doio, sem­bra quasi il primo cent di Pape­ron de’ Pape­roni.
«I circa tre­cento metri qua­drati della libre­ria — ha con­ti­nuato Saba­tino — sono vuoti per­ché vogliamo che tutti i soci e coloro che (dalle 10 alle 22 ogni giorno) ver­ranno qui a cono­scerci o asso­ciarsi pos­sano vedere cre­scere la libre­ria volume dopo volume, scaf­fale dopo scaf­fale. Con­di­vi­de­remo le scelte e anche le deci­sioni sugli eventi da ospi­tare. Per ora abbiamo coin­volto let­tori tra i trenta e i cinquant’anni. Ci aspet­tiamo anche i ven­tenni e gli scrit­tori».
A orga­niz­zare il lavoro pensa Alberto Della Sala, ex libraio di volumi anti­chi: «Non ci siamo chie­sti per­ché le libre­rie chiu­dano, lo sap­piamo già, ma piut­to­sto per­ché alcune sono aperte. Per que­sto offri­remo ai clienti ser­vizi a valore aggiunto, il rela­tivo gua­da­gno ci per­met­terà il lusso di ven­dere libri. Qui non avremo libri sco­la­stici, ma chiun­que potrà por­tarci la sua lista e glieli con­se­gne­remo a casa il giorno dopo: non ci gua­da­gne­remo niente ma fide­liz­ze­remo i clienti, facendo la dif­fe­renza con i siti online».
Tra i ser­vizi in pro­gramma, la ricerca di libri fuori cata­logo e la ven­dita di volumi usati. «Guar­de­remo
da http://www.vesuviolive.it   e da http://www.insorgenza.it/
anche ai tanti migranti che ven­gono al Vomero per lavo­rare e che non tro­vano niente da leg­gere a Napoli. Avremo una parte di libre­ria mul­tiet­nica con testi in diverse lin­gue ma anche scrit­tori napo­le­tani tra­dotti, sia clas­sici che con­tem­po­ra­nei». Fino a otto­bre sarà uno spa­zio aperto per discu­tere di let­te­ra­tura o suo­nare. L’azionariato dif­fuso ser­virà anche a met­tere in cir­colo idee. «Magari un giorno potrebbe esserci una libre­ria Io ci sto anche a Scam­pia — ha con­cluso Della Sala -, a Fuo­ri­grotta e in ogni città in cui le per­sone vogliano fare la pro­pria libreria».



Macché censura, Tony Effe è lo specchio del mondo quindi non rompete se va a san remo

Chiedo scusa per coloro avessero già letto i miei post su un fìnto ribelle o un nuddu miscato cu' niente ( cit dal film  I cento passi  ...