14.9.21

in italia stiamo regredendo fra sessimo , razzismo , talebani nostrani parte 1

 Infatti Al patriarcato italico come dimostra anche il mio post precedente non servono barbe e kalashnikov, gli basta l’ipocrisia.

Perché lui:
1) non vieta l’aborto, ma riempie gli ospedali di ginecologi obiettori, i consultori di personale cattolico e nega qualsiasi forma di educazione sessuale ed affettiva a scuola
2) non chiude in casa le donne, ma applica male una legge contro lo stalking che lascia a piede libero gran parte dei persecutori obbligando le vittime a vivere nel terrore o peggio essere uccise
3) non lapida le mogli infedeli in piazza, ma non fa nulla contro una cultura che legittima i maschi a stuprare ed ammazzare le donne che li hanno delusi
4) non impedisce alle donne di lavorare, ma le paga il 30% in meno dei maschi e le obbliga a chiedere il part time per potersi occupare gratuitamente dei lavori domestici.

E dopo l’ennesime donne sgozzata dal marito, anche questa sera ci indigneremo perché i talebani impongono la sharia, e così dormiremo tranquilli convinti di essere quelli bravi, belli e buoni.

proprio mentre finisco questo post leggo sulla home di facebook questo post di

È il minuto 60 di Milan-Lazio.Tiémoué Bakayoko, centrocampista francese del Milan di origini ivoriane, fa il suo esordio in campionato a San Siro.Dal settore ospiti cominciano a partire fischi, insulti e cori razzisti al suo indirizzo. Uno, in particolare, su tutti: “Questa bana** è per Bakayoko”.
Come due anni fa, come sempre. Come se fosse una cosa normale.Al punto da costringere lo stesso giocatore a scrivere un post su Instagram che fa malissimo leggere: “Per tutti i laziali che hanno insultato me e Franck (Kessie, ndr), siamo forti e orgogliosi del colore della nostra pelle”. L’idea stessa che nel 2021 un calciatore, un essere umano, arrivi a scrivere pubblicamente di essere orgoglioso di essere nero, il fatto che ci sia bisogno di ribadirlo, è già di per sè una sconfitta clamorosa.E non chiamateli “tifosi”, questi sono fascisti, quelli veri. E in uno stadio o in una manifestazione sportiva non devono entrare mai più, semplicemente non hanno diritto di cittadinanza. Solidarietà totale a Bakayoko e Kessie, ma abbiamo tollerato anche troppo.

L'esclusione, la solitudine e poi la gioia che esplode. Diventare genitori ai tempi del Covid



Messaggi, foto, videochiamate, filmare ogni istante con il neonato in camera non basta, non è confrontabile con l'emozione della realtà. Stavolta la tecnologia non può replicarla. Le voci di neo genitori da Napoli e dalla Campania


di Tiziana Cozzi
12 SETTEMBRE 2021 










Tommaso Oliviero, docente di Economia bancaria alla Federico II, ha visto il suo Lorenzo, esattamente due settimane dopo la nascita. "E' stata un'esperienza traumatica, prima la gravidanza e poi il parto in pandemia - racconta - quando l'ho visto, ho pianto tantissimo, la tensione accumulata in quei giorni è stata tanta. Ho aspettato davanti all'ospedale per ore che nascesse, sul marciapiedi davanti alla Clinica dei Fiori di Acerra. E, mentre aspettavo, pensavo ai racconti gioiosi dei miei amici, la nascita è uno dei momenti più belli della vita. A me tutto questo è stato negato. Un periodo meraviglioso è stato trasformato in un incubo dal Covid. Da ottobre non ho assistito più alle ecografie, non mi consentivano di entrare in stanza. Accompagnavo mia moglie Tania dal ginecologo e aspettavo in macchina". È cominciata così, la storia di Tommaso e Katia, una nascita tanto attesa ma giunta in pandemia, un travaglio prematuro e tutte le ansie da affrontare ciascuno per proprio conto. Il Covid ha separato giovani coppie, ha lasciato mamme da sole in sala parto, ha sottratto non solo abbracci ma gioie.
E l'emblema di questa gioia a metà, sono i racconti di chi quello spaesamento lo ha vissuto sulla propria pelle. "Lorenzo è nato prematuro di due mesi - continua Tommaso - il giorno del parto ho accompagnato Tania in ospedale e non l'ho più vista, ho fatto perfino un tampone ma non mi hanno fatto entrare. Ero in contatto con lei al telefono finché è stato possibile, poi è rimasta due settimane in clinica solo per vedere Lorenzo che era in terapia intensiva. Abbiamo affrontato anche un notevole costo economico, la stanza era a pagamento. Alla fine tutto è andato benissimo, il periodo dello smart working da casa mi ha permesso di vivere al cento per cento mio figlio ma mi è mancato stare accanto a mia moglie". Il momento più bello della vita vissuto da sole. Entrare in sala parto e farsi forza senza lo sguardo e il conforto del compagno. Questo il rimpianto più grande delle giovani mamme. Diventare papà e restare fuori dalla magia del momento della nascita.


Nei due anni di pandemia, le regioni del centro-sud hanno mantenuto l'abituale maggiore proporzione di cesarei rispetto al nord del Paese. Un privilegio, poter avere accanto una persona di propria scelta durante il travaglio o il parto, concesso solo al 51 per cento delle donne meridionali, il 54 per cento dei neonati è potuto restare accanto alla mamma, tra questi il 27 per cento ha praticato il contatto pelle-a-pelle. Durante il ricovero il 69 per cento delle mamme e dei neonati hanno potuto condividere la stessa stanza e il 76 per cento dei piccoli ha ricevuto il latte materno. Nei mesi iniziali alla nascita le mamme sono state più spesso separate dai bambini mentre successivamente, anche grazie a una migliore organizzazione dell'assistenza, negli ultimi tempi i dati descrivono un maggiore rispetto della fisiologia della nascita e una maggiore attenzione nel favorire il contatto madre-bambino, il rooming-in e l'allattamento.E se i papà raccontano il dolore dell'esclusione, le mamme narrano dei parti in solitudine. Veronica Fornello è mamma di Miriam, oggi 11 mesi. "Ho scoperto di essere incinta a fine febbraio 2020 dopo poche settimane mi sono rintanata in casa, non sono più uscita, avevo paura. È stato difficile non vedere le persone care, non ho potuto condividere la gravidanza con mia sorella, mi sono mancati gli affetti". Quando è il momento, Veronica partorisce da sola ma tornata in stanza, trova a sorpresa, sua madre: "E' stata prigioniera in camera, non poteva uscire ma mi ha aiutato, per fortuna. Mi sentivo spaesata, pensavo al mio compagno che non poteva nemmeno prendere in braccio mia figlia. Una sera, mi sono affacciata e l'ho visto in strada, aspettava sotto la mia finestra. È stato terribile, sono scoppiata a piangere". La gioia di partorire, di tenere stretta tra le braccia la sua piccola ma il rammarico di farlo da sola. "Mi è dispiaciuto non aver provato quella gioia condivisa, ho partorito con persone estranee ma se ci penso quella mano amica mi è mancata, mi avrebbe dato più forza una carezza in più, anche se i medici sono stati amorevoli ma le parole di un compagno sono un'altra cosa. Lui mi è mancato molto, l'ho rivisto dopo 4 giorni, quando ci siamo incontrati ci siamo commossi, ci siamo abbracciati, sembrava che non ci vedessimo da una vita". Messaggi, foto, videochiamate, filmare ogni istante con il neonato in camera non basta, non è confrontabile con l'emozione della realtà. Stavolta la tecnologia non può replicarla.
Anche Nicoletta Colella, 35 anni, ha partorito il secondo figlio a novembre 2020 con l'incubo Covid. "I vaccini non c'erano ancora, se ne parlava, mi sono ritrovata in sala parto senza nessuno dei miei cari, è stata durissima, solo dopo un po' ho potuto informarli che era tutto ok. È stato difficile respirare con la mascherina, vedevo girarmi intorno medici e infermieri mentre ero in travaglio, mi è mancata una presenza, è andata bene, non posso lamentarmi, mi sono imposta di concentrarmi sul respiro ma mi è mancato avere una presenza familiare accanto. Il mio compagno mi ha detto che era fiero di me, del coraggio che ho avuto in una situazione così difficile". Il rimpianto più grande per Daniela Russo, 40 anni, mamma di Giuseppe, è aver sottratto la scuola alla primogenita Rosanna, 6 anni, proprio per le ansie legate al Covid. "Ha perso il suo ultimo anno d'asilo, ho preferito non mandarla a scuola, avevo paura del contagio. Durante la gravidanza non ho preso trasporti pubblici non sono uscita molto, mi sono chiusa in una bolla di smart working. Il Covid mi ha toccato proprio su gravidanza e parto, mi ero ripromessa di concentrarmi sulla seconda gravidanza, invece è stato brutto non poter condividere il momento della nascita con mia madre, i miei cari, è stata la cosa di cui ho sofferto maggiormente".Daniela ha partorito a Villa delle Querce, in camera con lei, suo marito Luigi ma le è mancata la condivisione con la famiglia. "Quando è nata Rosanna la stanza era strapiena di parenti, invece per Giuseppe è stato un momento intimo, di maggiore consapevolezza, eravamo soli. Allora ero circondata da tante persone che ti ovattano, ti stanno vicino, invece stavolta ho fatto dal primo giorno la mamma. Sono scesa dal letto e mi sono presa cura di Giuseppe, da subito, è stato bello. Il ritorno a casa invece è stato solitario, la cosa più triste è che mio fratello ha visto mio figlio da poco, quando aveva già 4 mesi". È stata una maternità difficile, carica d'ansie quella di Adriana Schiavo, 35 anni, "ho trascorso l'intera gravidanza in casa, non andavo nei luoghi chiusi, evitavo i supermercati, non entravo in casa di amici, ho lavorato in smart working fino a 8 mesi, disinfettavo tutto ossessivamente, il mio compagno andava a lavoro con 3 mascherine. Quando è nato mio figlio, poi, ho avuto paura di uscire. L'ho portato in un negozio di giocattoli pochi giorni fa, per la prima volta, a 7 mesi. Abbiamo subito limitazioni enormi, mi è mancata una gravidanza normale. Spero di poter provare cosa voglia dire in futuro".

Nel triangolo tra Freud, l'allievo suicida Tausk e una donna c'è il lato oscuro della psicanalisi Cosa unì e poi divise davvero Sigmund Freud e Paul Tausk. ., murales pubblicitari troppo belli e i cittadini chiedono di lasciarli ed altre storie



Nel triangolo tra Freud, l'allievo suicida Tausk e una donna c'è il lato oscuro della psicanalisi


Cosa unì e poi divise davvero Sigmund Freud e Paul Tausk. Perché un laureato in legge, giornalista e commediografo e solo dopo, grazie a Freud, alla seconda laurea, psicanalista, rischiava di oscurare il maestro. Quali erano le dinamiche del triangolo che legava i due a Lou von Salomé, amante di Tausk ma anche di Rielke e chiesta in moglie da Nietzche. Perché il brillante psicanalista allievo di Freud si tolse la vita povero e senza pazienti nel 1919. In "Fratello animale" (Rizzoli 1973) lo studioso di scienze politiche e docente a Harvard Paul Roazen ci aiuta scoprire alcuni punti oscuri all'origine della 'filosofia pratica' del Novecento: la psicanalisi 
Saggi e romanzi che non vengono più ristampati dei quali recuperare la memoria. Pagine importanti per capire il presente, da ripescare nelle biblioteche, nei mercatini dell'usato o dimenticati nello scaffale alto della libreria: libro vecchio fa buone idee



repubblica  12 SETTEMBRE 2021 

La street art incontra la pubblicità grazie ai grandi marchi che riempiono la città di opere che attirano lo sguardo per la loro bellezza e che conquistano anche i residenti dei quartieri da Garibaldi a Porta Romana

Venere di Botticelli in corso Garibaldi (fotogramma)



In corso Garibaldi una Venere con orologio e borsetta allunga lo sguardo sullo struscio dei passanti, in corso di Porta Romana si fermano tutti a fotografare una facciata alla Gaudì comparsa come per magia. In via Canonica, arrivando dall'Arena, è sbocciata una grande peonia rosa. E in via Spallanzani, da qualche giorno, si è accesso il dibattito su un palazzo completamente rivestito da un motivo a fiori bianchi e neri.
Che Milano si stia colorando di murales in ogni suo quartiere è noto ma, a guardarle bene, alcune di queste facciate dipinte nascondono (o mostrano) qualcosa di diverso: sono pitture pubblicitarie. È il cosiddetto mural advertising che sta via via rimpiazzando i vecchi cartelloni: si dice addio ai posteroni patinati ingabbiati nei sostegni di ferro, ma soprattutto si saluta la logica dello spot tradizionale. Che siano inserzioni mascherate dall'estro degli street artist o vere e proprie opere d'arte su commissione l'effetto non cambia: la promozione incontra la città senza deturparne le facciate, regalando a chi passeggia inediti arazzi urbani.
Secondo i registri del Comune ad oggi i murales pubblicitari sparsi per la città sono circa una ventina: la tendenza, iniziata qualche anno fa, è in crescita. Spuntano come funghi: alcuni sono la semplice trasposizione su muro della vecchia esplicita réclame, ma molti sono street art a tutti gli effetti. L'ultimo, comparso qualche giorno fa tra lo stupore di molti e il disappunto di alcuni, occupa tutta la facciata di un edificio dei primi del Novecento che svetta all'angolo tra via Spallanzani e viale Regina Giovanna. Quel "Feels like Prada" contornato di fiori stilizzati in bianco e nero ha scatenato il dibattito social. Così, mentre in tanti si sperticano in "bellissimo" e "meraviglioso" c'è anche chi non gradisce: "Questa ultima genialata toglie l'eleganza che possedeva questa zona", sentenzia Mirella su Facebook mentre per Rosamarina "sulla carta sarebbe bello il disegno ma su una casa mi pare di no". Non c'è niente di più scontato ma efficace per dare senso ai battibecchi sul web: i gusti son gusti.



Ammirata senza riserva è invece l'opera dello street artist Cosimo Caiffa, in arte Cheone: il suo "The Vision" che ricopre la facciata laterale di Casa Maiocchi, l'edificio che Piero Portaluppi ha firmato nel 1920 in corso di Porta Romana 111, è stato fotografato da chiunque e quelle sue finestre dai contorni ondulati che ricordano le case di Barcellona progettate da Antoni Gaudì, hanno fatto il giro di Instagram in questi mesi, dando al murale una visibilità che ha valicato i confini milanesi.
Fotorealismo e illusione ottica hanno rapito i residenti del palazzo e i commercianti della zona, che stanno chiedendo che l'opera non venga rimossa: sì perché sempre di inserzione pubblicitaria si tratta (il committente, che si mostra in maniera discreta sulle finestre del primo piano, è la Mv line group, società che produce tende) e come tale ha una scadenza. "Sappiamo che a fine settembre non ci sarà più e siamo molto dispiaciuti, anche perché è impossibile creare qualcosa di più straordinario di quest'opera", racconta Matteo Pescarzoli, condomino dello stabile. "È un'attrazione di grande valore per la nostra zona - gli fa eco Sabrina Frigoli, presidente dell'associazione dei commercianti di Porta Romana - un richiamo per tutte quelle persone che vengono qui apposta per fotografarlo". Da Clear Channel, la concessionaria dello spazio in facciata che ha altri due murales a Milano, la venere di Corso Garibaldi 81 sempre dipinta da Cheone, e un muro del Leoncavallo, non c'è alcuna chiusura: i vertici stanno ascoltando le richieste di tutti e si dicono disposti a trovare una soluzione condivisa qualora dal Comune partisse una richiesta ufficiale per salvaguardare il murale. "Sarebbe un regalo fantastico", sorride lusingato l'artista.
L'elenco stilato da Palazzo Marino è lungo: c'è la peonia mangiasmog di via Canonica 25 dipinta dagli Orticanoodles (il LifeGate Wall sul quale girano, a rotazione, diversi sponsor), piazza Santo Stefano e via Larga, via Casale 3 (dove ora c'è il gemello di via Spallanzani), via Pioppette 3, Largo La Foppa, varie pareti in Corso Garibaldi, via Gian Galeazzo 3, via Melchiorre Gioia, via De Castillia 24, via Lodovico il Moro 129, via Pietro Morselli 3, via Varese 1. Il meccanismo è identico a quello delle pubblicità tradizionali: stessi costi dei vecchi spot, per quanto riguarda i canoni comunali legati alle dimensioni del muro, cui si aggiungono le tariffe degli inserzionisti e i costi di realizzazione.
"Le aziende hanno compreso la potenza visiva della street art", spiega Mauro Ferraresi, professore di Sociologia della comunicazione all'Università Iulm: "Un tipo di comunicazione liquida, che argomenta meno di uno spot tradizionale ma che entra nella memoria visiva delle persone per rimanerci a lungo". La logica, precisa Ferraresi, "è legata al concetto di sponsorizzazione più che di pubblicità". Il messaggio, cioè, è semplice: "Goditi questo momento estetico che ti è stato offerto da me, azienda "illuminata". E funziona"

Ventisette anni, di Vetulonia, è quasi un alieno della musica italiana. Il suo primo disco è un “bestiario”: otto fiabe dedicate alla sua terra

repubblica  17 AGOSTO 2021

Bestiario musicale, il disco con cui Lucio Corsi ha esordito





Immaginiamo una festa di fine anno. A bordo piscina. Con il Martini, la burrata, il deejay set e purtroppo i fenicotteri rosa gonfiabili. Si festeggia la nuova musica italiana, quella degli enfant prodige maghi dell’algoritmo e della prosa, dei nativi digitali favorevoli alla decrescita felice e dei periferici che si sono arricchiti in un click.
Ci sono tutti, vincitori e vinti di Sanremo, X Factor, Amici, scalatori di classifiche di Amazon e Spotify: un parlamento rovesciato per età, ambizioni, colori, motti, sogni. Hanno tutti i capelli rosa, blu, verde elettrico, doppi tagli, tatuaggi, anelli, taglie sbagliate, extra large. Discosto, c’è un tipetto che sembra schizzato fuori dalla copertina di un disco degli Yes, The fool on the hill. Si chiama Lucio Corsi.
Ventisette anni, di Vetulonia, città etrusca in provincia di Grosseto, piena Maremma che lui descrive così: «Il farwest italiano, la Toscana brulla, dura e magica dove agirono briganti e butteri». È cresciuto in campagna, in un podere circondato da alberi che «fanno l’ombra vera», dove c’è «il buio vero, quello che non si ricava: esiste», e gli animali sono apparizioni fulminee ma costanti. Per questo, il suo primo disco è dedicato a loro, gli animali che per lui hanno sempre meno spazio e allora «i draghi sono diventati lucertole», perché le città si espandono indiscriminatamente – lui dice che sono «metropoli tentacolari»: parla come parlava Luciano Bianciardi, grossetano come lui, e come lui spaventato da Milano, fortemente scettico rispetto a quella che chiamava «la società divertentistica e copulatoria».
A gennaio del 2017, quando la nuova musica italiana era ancora l’indie, almeno per i giornali, Corsi pubblicava Bestiario musicale: otto tracce, ciascuna dedicata a un animale del bosco di cui faceva un ritratto e una fiaba. Il cinghiale era «terremoto delle zolle, uragano delle fronde»: in una diretta social dal Museo della Scienza di Milano, ha spiegato che con quel verso intendeva che i cinghiali hanno trasformato il paesaggio, smussato le colline «che si sa, un tempo erano quadrate», comportandosi come agenti atmosferici.
Poeta, cantastorie, aedo, musicante di Brema, folletto, stramba creatura: lo hanno definito in questi e cento altri modi, tutti giusti e insufficienti. Diciannove anni a Vetulonia, dove torna appena può perché solo lì riesce a scrivere, lo hanno reso impenetrabile al suo tempo, a ogni tempo: lui sta nello spazio, non nel tempo. La cosa più precisa che si può dire di lui è che non assomiglia a niente. Certo, richiama gli anni Settanta e certo, il film che gli ha cambiato la vita è Velvet Goldmine, e i dischi che lo hanno allevato sono di Rondelli, Gaber, Paolo Conte, Bowie, Graziani, Dalla, Flavio Giurato (il suo preferito). Ma non assomiglia a niente lo stesso, non ai rapper suoi coetanei, che ascoltano e amano altro, e non ai Maneskin che ascoltano quello che ascolta lui e amano molte delle cose che ama lui, chitarre incluse. L’approccio artigianale alla musica, che studia da quando aveva quattordici anni, è uno dei molti tratti che lo pone in attrito rispetto alla tendenza contemporanea. È un feticista della strumentazione, sul palco siede al piano con in bocca un’armonica.
Nella sua Gibson del ’74, dopo averla comprata, ha trovato l’esoscheletro di uno scarabeo: lo ha lasciato lì, anche se fa rumore. Gli animali, ancora: sempre.
Una delle ragioni per cui Lucio Corsi è così interessante e, sebbene unico, anche esemplare, è che incarna bene lo spirito ecologista della sua generazione. Quello spirito che è facile definire woke (woke è ciò che avantieri avremmo definito radical chic) e che certamente contiene svariate dosi di faciloneria adolescenziale e conformismo intellettuale, ma che è anche, soprattutto, il carburante di un’etica nuova, che nasce da un amore pragmatico e romantico per il mondo intorno. La solidarietà, concetto che agli adulti tardo novecenteschi pare tuttora buonista, per la generazione di Lucio Corsi è un fatto concreto, la condizione della relazione tra uomo e natura e, di riflesso, tra uomo e uomo. L’armonia con il creato, che noi più avvertiti siamo abituati a sbeffeggiare come rimpasto fricchettone, è per loro un fatto di solidarietà, intesa come vincolo, e quindi dovere, e quindi accesso al diritto: intesa come la intende l’articolo due della Costituzione italiana. Solidarietà e anarchia: «C’è un movimento punk nella foresta, gli alberi con i capelli verdi sulla testa, e le galline con le creste mal viste dalla guardia di finanza, che non si accorge del crimine che avanza». Che cantastorie fantastico. L’anno scorso, sul limitare del primo lockdown, Corsi era in tour con il suo secondo disco, Cosa faremo da grandi: ancora otto tracce, ancora un disco concepito alla maniera del Novecento, con uno sviluppo, un tema portante e decine di affluenti. Insomma, un’opera. Era già Lucio Corsi: famoso e adorato dai superstiti della nicchia indie e dai traditori di quella indie pop, cominciava a essere trasversale, iconico, televisivo (è stato anche ospite fisso de L’assedio di Daria Bignardi), ma mai social.
Nel disco parla di vento, conchiglie, mare, lampioni, tempo e della grande impresa che è la rinuncia, di come preluda al cambiamento e di quanto sia necessaria e salutare. «La mia canzone parla di un modo di affrontare la vita dove si festeggiano più le linee di partenza che i traguardi»: quando suona dal vivo, Corsi non manca mai di raccontare i retroscena e i perché delle sue canzoni, come faceva Tenco, convinto di doversi sempre spiegare.
Com’è stato possibile che un ragazzo così speciale avesse un successo tanto disarticolato da tutte le regole del successo? Una parte di merito è della casa discografica che lo ha accolto, appena arrivato a Milano, la Picicca, e del suo manager, Matteo Zanobini, che il suo lavoro ce lo racconta così: «Il mio obiettivo è saper indirizzare gli artisti senza snaturarli. Con un talento puro che ha una visione molto precisa del suo lavoro, come è Lucio Corsi, la prima cosa da fare è preservare la sua anima, accompagnarla e intervenire il meno possibile, come si fa in cantina con un vino naturale. Non si aggiunge niente e si aspetta che la natura faccia il suo corso. In un mercato così veloce, è una strategia rivoluzionaria».
Il resto, è il talento puro di un ragazzo che è una creatura, e certe volte sembra una pianta, magari un vitigno. E per fortuna c’è qualche altro ragazzo, un po’ più adulto di lui, che lo protegge. La concordia generazionale è migliore della rottamazione, no?

12.9.21

Per Adinolfi non va bene che una donna vinca il Leone d’Oro con un film sull’aborto

 molti mi diranno ma perché dai spazio a tali imbecilli . Perche non è più tempo dei moderati e del silenzi o del lasciamoli perdere sono dei bigotti e retrogradi , sono solo una minoranza , ecc. infatti uno dei principali motivi per cui tali individui crescono ed si sviluppano ed la cultura sessista e patriacarle che sta alla base dei femminicidi \ violenze di genere ancora resiste è grazie alla nostra tolleranza ed alla nostra sottovalutazione . Dopo questo spiegazione. venivo alla cazzata del giorno detta da uno dei loro leader /punti riferimento .

Mentre tutti in Italia celebrano (giustamente) Paolo Sorrentino, a conquistare il Leone d’oro a Venezia è stata lei, Audrey Diwan 41 anni, regista, scrittrice, sceneggiatrice francese di origini
libanesi, è la sesta donna a vincere in 78 edizioni. La sesta. E lo ha fatto mostrando fisicamente uno di quei temi di cui al cinema non si parla (quasi) mai, come fosse tabù, intoccabile, non pronunciabile: l’aborto. “L’événement” racconta l’odissea di una studentessa universitaria costretta ad abortire clandestinamente, in condizioni estreme e a rischio del carcere, nella Francia del 1963, ma riporta in superficie un rimosso anche della società italiana, in cui conquiste

[....] 
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Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Legge 22 maggio 1978, n. 194.

La legge italiana che regola l'accesso all'aborto è la Legge 22 maggio 1978, n. 194, approvata dal parlamento dopo vari anni di mobilitazione per la decriminalizzazione e regolamentazione dell'interruzione volontaria di gravidanza da parte del Partito Radicale e del Centro d'informazione sulla sterilizzazione e sull'aborto (CISA), che nel 1976 avevano raccolto oltre 700.000 firme per un referendum - patrocinato dalla Lega XIII maggio e da L'Espresso - per l'abrogazione degli articoli del codice penale riguardanti i reati d'aborto su donna consenziente, di istigazione all'aborto, di atti abortivi su donna ritenuta incinta, di sterilizzazione, di incitamento a pratiche contro la procreazione, di contagio da sifilide o da blenorragia. Solo l'anno precedente il referendum sul divorzio aveva mostrato la distanza tra l'opinione pubblica e la coalizione a guida democristiana al governo. La Corte Costituzionale inoltre nel 1975 consentiva il ricorso all'aborto per motivi molto gravi.La legge 194 consente alla donna, nei casi previsti, di poter ricorrere alla IVG in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica. La legge 194 istituisce inoltre i consultori come istituzione per l'informazione delle donne sui diritti e servizi a loro dovuti, consigliare gli enti locali, e contribuire al superamento delle cause dell'interruzione della gravidanza. La legge stabilisce che le generalità della donna che ricorre all'IVG rimangano anonime. Il ginecologo può esercitare l'obiezione di coscienza. Tuttavia il personale sanitario non può sollevare obiezione di coscienza allorquando l'intervento sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo" (art. 9, comma 5). La donna ha anche il diritto di lasciare il bambino in affido all'ospedale per una successiva adozione e restare anonima.Questa legge è stata confermata dagli elettori con una consultazione referendaria il 17 maggio 1981. L'8 agosto 2020, l'uso della pillola abortiva Ru486 è stato esteso fino alla nona settimana di gestazione senza l'obbligatorietà del ricovero ospedaliero.[20]La sentenza n. 25767/2015 delle Sezioni unite della Corte di Cassazione ha stabilito il diritto della madre e del concepito al risarcimento del danno medico in virtù del diritto alla salute, all'integrità psicofisica e alla uguaglianza delle pari opportunità, negando l'esistenza di diritto a "non nascere se non sani" e il ristori risarcitorio del danno lamentato in relazione alla mancata opportunità abortiva che sarebbe scaturita da una diagnosi omessa o non sufficientemente accurata.[21][22] Il TULPS (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) vieta la pubblicità delle tecniche e dei farmaci abortivi (artt. 112 e 114). 
[...]


che credevamo ormai assodate sono state ufficialmente rimesse in discussione, dove il tasso di obiettori di coscienza in alcune zone è talmente alto da costringere alcune donne a tornare all’aborto clandestino o andare all'estero . Uno squarcio nel silenzio, finalmente.

Ma per qualcuno

Per Adinolfi non va bene che una donna vinca il Leone d’Oro con un film sull’aborto

Il film che ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia, “L’événment” della regista francese Audrey Diwan, parla di una studentessa che sceglie l’aborto clandestino nella Francia degli anni ’60. Questa cosa non è piaciuta ad Adinolfi, che ha avuto da ridire anche sul sesso del vincitore

adinolfi audrey diwan leone d'oro aborto

Sa di rischiare la prigione, la vergogna di chi le sta intorno e la sua stessa vita, ma va avanti per la sua strada. Anamaria Vartolomei è la protagonista di “L’événment” di Audrey Diwan, film che ha vinto il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia: è una  giovane brillante universitaria che nella Francia di inizio anni ’60 con l’aborto ancora illegale è determinata a non proseguire la gravidanza per continuare a inseguire i suoi sogni. Con l’avvicinarsi degli esami finali e la gravidanza sempre più evidente, Anne si decide quindi a praticare un aborto clandestino, pur sapendo di rischiare molto. Un film emozionante e che tocca temi sociali importanti, che non è piaciuto però a Mario Adinolfi
“È l’ennesima propaganda abortista che ormai subiamo con quotidianità”, ha detto il leader del Popolo della famiglia. “Sembra che la libertà del nostro mondo occidentale – ha aggiunto – sia la libertà di uccidere i bambini non nati e gli anziani malati o sofferenti con l’eutanasia. Questa è diventata la grande vittoria dell’Occidente”.
Ad Adinolfi non torna neanche che per il secondo anno consecutivo a vincere il premio sia stata una regista donna: “Ci pieghiamo a dei cliché, siamo obbligati a cercare la regista donna per dare il premio, è il secondo anno consecutivo, e anche questo sta diventando un cliché. E i cliché sono l’opposto dell’arte”. “Io ho paura che questa atmosfera cupa che ci stiamo portando dietro – ha concluso il guru cattolico – in cui libertà e diritti significano solo aborti ed eutanasia significhi che qualcosa sta andando storto nella nostra riflessione”.Per lui, a meritare il Leone d’Oro era il film di Paolo Sorrentino “È stata la mano di Dio”: “Davanti a un’esperienza di morte, perché muoiono i suoi genitori, il protagonista risponde con un grandissimo inno all’esistenza che passa anche attraverso quell’immagine di Maradona”. Fortunatamente non lo ha diretto una donna, altrimenti l’Adinolfi critico cinematografico avrebbe rischiato un cortocircuito.

N.b
  va bene     essere  contro l'aborto   ma  come  giustramente  ha  risposto    questa  senatrice  degli  Statri uniti  

 dev'essere  lasciata libertà alla  donna  di scegliere   cosa  fare  e  soprattutto   di poterlo fare  in sicurezza  . Cosi  come    dipoterne  parlare  , raccontare   d tali tematiche . 
Se  la  cosa   , cari  Adinolfi  e   company   vi dovese  dare  fastidio  , invece  di  dire  .....  o proibire  agli altri\e  di  parlarne    fate  un film  o    un altra  forma  artistica   dover  esprimete  il  vostro pensiero  .  Insomma  non rompete  ....    con le  vostre  crociate  ,  nella ,maggior  parte dei casi ,  per  lo più ipocrite    ed opportunistiche    . 

non esiste solo 'altro 11 settembre degi Usa ma anche un 11 settembre latino Americano ad iniziare dal colpo di stato in cile di Pinochet finanziato ed appoggiato dagli Usa

11 settembre 2001:
muoiono negli stati uniti 3.000 persone con un attentato triplice che mai l’america aveva vissuto sulla propria pelle.1.000 sono ancora senza nome.
11 settembre 1973:
muoiono in cile 2.000 persone con un colpo di stato militare che rovescia il governo socialista di allende.
38.000 hanno un nome, ma sono desaparecidos.


[sostenuto dagli stati uniti, pinochet diventa presidente della repubblica cilena e rimane alla testa del cile sino al 1990. l’ultimo computo delle vittime risale al 2011. nella foto la mappa degli stati americani in cui gli US hanno esportato la democrazia in salsa di golpe 🌹]


in tempo di crisi e di fame busa e non si vuole emigrare meglio addattarsi a tutti i tipi di lavoro anche queli per cui non abbiamo studiato la storia di La scommessa di Paolo Ladu, noto “Cipolla”: lava vewtri da 40 anni

  dala nuova  sardegna   9\1\2025  di Valeria Gianoglio Nuoro La bottega di Paolo Ladu, noto “Cipolla  "è un furgone vissuto, un ampio...