6.11.12

Oristano, un papà cerca 5 uomini-eroi Salvarono suo figlio caduto nel pozzo 30 anni fa


Riordinando il magazzino del negozio    ,  dopo il periodo  dei morti  ,  ho trovato questo articolo  interessante  che ricorda il caso di Alfredino Rampi

Due anni dopo la morte di  Alfredino Rampi a Oristano rischiò di ripetersi la stessa tragedia. Il padre del bambino che fu ingoiato dal ventre della terra, ora cerca gli uomini-eroi che gli restituirono suo figlio sano e salvo.

La  cosa mi fa  ridere   per  il fatto che  se   ricorda   e sente il bisogno solo ora  dopo di  più di  30 anni    dal fatto  . Quindi  concordo  con i commenti  lasciati  sul sito  dell'unione sarda  a tale  nees  e che sotto riporto  
ray60
04/11/2012 20:17
pubblicita
senza troppa pubblicita credo che basterebbe andare al posto di polizia oppure dai vvff. sicuramente ci sara un verbale redato in cui saronno riportati i nomi e cognomi di questi (uomini eroi ) che salvarono la vita ha suo figlio
Pietropaolo2
04/11/2012 03:50
meglio tardi che mai.
sind'è scirau unu pagheddu tardi... sig mario. farlo 29 anni fà ? ma possibile che neanche il "salvato" tiziano, oramai ben oltre i 30 anni, non abbia mai avuto, in questi anni, il pensiero di dover ringraziare i suoi salvatori personalmente ? Bamboccione... ci pensa papà !!
 Ma  ora la  vicenda   dall'unione  sarda del  3\11\2012 

Nicola Pinna
nicola.pinna@unionesarda.it


Oristano.Tiziano Trogu oggi ha 31 anni. Pinuccio Nonnis lo liberò infilandosi nel pozzo
«Devo conoscere il mio salvatore»
Trent’anni fa un pompiere evitò la stessa tragedia di Alfredino


Era il 23 agosto del 1983. Il piccolo Tiziano Trogu giocava con un amichetto in vico Marroccu (oggi via Neapolis). Mentre inseguiva il pallone cadde in una cavità del terreno che, nascosta dal fango, si era aperta al suo passaggio. Cinque vigili del fuoco e due poliziotti lo tirarono fuori dal ventre della terra. Ora Mario, padre di Tiziano, cerca quegli uomini che lo salvarono dall'inferno che toccò invece ai genitori di Alfredino Rampi, morto nel pozzo di Vermicino.

 Il dramma è tutto raccontato in  quella foto scattata al San Martino da Romolo Concas: un bambino di due anni con le guance insanguinate e lo sguardo terrorizzato. Abbracciato a mamma Linda ripeteva che in
fondo al pozzo sentiva solo il  profumo della mortadella. Erauna strana suggestione,perché quel 23 agosto 1983 Tiziano Trogu ha visto la morte molto da vicino.Ha trascorso due ore e mezza a sei metri di profon-
dità,in fondo a un sifone lasciato scoperto da una squadra di  muratori distratti.
DRAMMA A CHIRIGHEDDU. Tiziano quel pomeriggio stava giocando con un altro bambino, a due passi da casa, e inseguendo una palla è scivolato nel vuoto. Si è ritrovato incastrato in un’intercapedine tra il terreno fangoso e i tubi in cementoche reggevano il pozzo.Per salvarlo i vigili del fuoco si sono calati con le corde e con una fatica disumana hanno smontato in poco tempo dieci piloni da un quintale ciascuno.Vico Marroccu, che ora si chiama via Neapolis,sembrava Vermicino:erano passati due anni dal dramma di Alfredino Rampi e in quel pomeriggio d’inferno la città intera pregava perché Tiziano venisse tirato fuori sano e salvo.
Cinque vigili del fuoco e due  poliziotti  compirono  un’operazione da eroi a tempo  di record.
«Li vorrei ritrovare,vorrei abbracciarli,perché quel giorno hanno fatto qualcosa di straordinario»,dice Mario Trogu, il padre di quel bambino che ora è diventato un uomo grande e anche papà.
L’INCONTRO. Degli eroi in divisa,Mario Trogu non ricorda neanche il nome, ma di una cosa è sicuro: «Se leggeranno il mio appello si ricorderanno della storia, non si saranno dimenticati di Tiziano.A Oristano quel
pomeriggio lo ricordano in tan-ti». I primi indizi saltano fuori dall’archivio de  L’Unione Sarda. Il 25 agosto, nella pagina della Cronaca di Oristano,compare l’intervista ai soccorritori di Tiziano.
Il capo reparto che coordinava i soccorsi era Michele Piretto. Così lui stesso raccontava quei momenti di disperazione e speranza: «Non abbiamo perso tempo e abbiamo deciso subito di smontare quanti più tubi fosse possibile.Ho fatto scendere il vigile Pinuccio Nonnis in fondo al pozzo con la scala di corte, aiutato dagli agenti della Mobile,Peppino Putzolu e Salvatore Meloni.
Con l’aiuto di altri vigili  ( Scognamillo,Addari,Adolfi,Fancello ) abbiamo imbragato i tubi e li abbiamo tirati fuori.Poi Pinuccio Nonnis è sceso di nuo-vo nel pozzo e si è infilato nell’intercapedine. A testa in giù ha afferrato il bambino e lo ha portato su.Quando lo ha stretto bene lo ha passato a un altro vigile che si era calato con una scala.A quel punto Tiziano è tornato in superficie e ha riabbracciato la mamma».
TRENT’ANNI  DOPO. TizianoTrogu ora ha trentun’anni e vive a Ghilarza, realizza tatoo e piercing e ha aperto uno studio.Incontrare quegli uomini in divisa che lo hanno salvato è stato il sogno di tutta la vita.Ma se quella disavventura è finita nel migliore dei modi è anche merito di un altro bambino: Nicoa Montisci quel giorno giocava insieme a Tiziano, aveva solo quattro anni ma ha capito subito che l’amichetto era in pericolo. È corso a casa e ha lanciato l’allarme: «Mamma, mamma,Tiziano è caduto nel pozzo».

5.11.12

I NON BAMBOCCIONI , IL LAVORO NERO \ MORTI BIANCHE E LA POLITICA

Ci  sono  anche  storie  di ragazzi  " non schizzinosi "  che  non sono  nè  bambocioni nè pessimisti  \  sconfortati    ecco alcune storie   


«Laureati,non siamo schizzinosi» Storie di ragazzi che smentiscono il ministro Fornero:«Siamo pronti a tutto»


di Sabrina Zedda
CAGLIARI Dell’aiuto di mamma e papà ne fanno a meno:sanno quanti sacrifici hanno già fatto per
loro e non sono intenzionati a chiederne di più. Ma ai loro sogni non rinunciano. E allora altro che “choosy” (schizzinosi) come ha detto, tristemente, la ministra Elsa Fornero, la quale ha mostrato di inciampare ogni tanto sulle parole : inattesa di trovare il lavoro che possa dare dignità agli anni passa-
ti dietro a un percorso universitario c’è chi si offre per fare le pulizie, chi passa le serate servendo in ristorante e chi,stanco delle solite promesse,si reinventa artigiano.
Altro che schizzinosi i giovani laureati: concreti piuttosto,e perfino altruisti perché per loro lavorare significa creare un valore di cui possano beneficiare tutti. E’ il caso di Sara Cacciuto, 36 anni e due lauree: una di primo livello come Educatrice ambientale all’Università dell’Aquila, l’altra,magistrale, conseguita a marzo all’Università di Roma 3 in Scienze dell’educazione degli adulti. Tra l’una e l’altra un sfilza di lavoretti. «A L’Aquila per mantenermi agli studi –racconta – facevo due lavori,entrambi in località a tre ore dalla città in cui vivevo :la guida naturalistica in un parco durante la settimana,la cameriera nel weekend : lavoravo in una pizzeria».Per Sara i sacrifici sono continuati anche durante il percorso per la laurea magistrale a Roma: «Una città dove la vita costa cara e dove mi sono adattata a fare di tutto: pulizie nelle case, collaborazioni con l’università…»Una fatica che Sara è riuscita a sostenere grazie alla forte motivazione: «Il mio sogno è  aiutare la gente della mia città a mettere a frutto le proprie potenzialità: in tempi di crisi perché le cose cambino è necessario puntare sul potenziale umano».Per fare questo Sara ora sta frequentando anche un corso di specializzazione ma i soldi sono sempre pochi  e il lavoro è poco: «Lavorerei pure in un call center, ma alla mia richiesta non 
hanno risposto ».Davvero per niente choosy questa giovane che però ha ben chiaro cosa significa dare

dignità al lavoro: «Un lavoro dignitoso è un lavoro che abbia una retribuzione congrua:posso anche  fare le pulizie,ma chiedere per questo meno di otto euro l’ora significherebbe sminuirsi».Idee chiare le ha anche Giovanna Pala  ( foto a  sinistra  ) 28 anni e una laurea col massimo dei voti e la lode in Storia dell’arte.« Arrivo da Mamoiada e voglio stare a Cagliari, dove ho la mia vita,ma non posso più chiedere ai miei genitori di aiutarmi».Così anche per lei, che sogna un futuro da critica d’arte per valorizzare il prezioso patrimonio culturale della Sardegna  (lasua tesi di laurea è stata un omaggio a Eugenio Tavolara) la scelta, nel frattempo, di accontentarsi d’altro: « Diverse sere a settimana lavoro come
cameriera in un ristorante»,dice.Il resto delle giornate insegna invece italiano agli stranieri in una cooperativa di Quartu: dovrebbe pagarla la Regione con il fondi per progetti a favore dei giovani disoccupati, ma, si sfoga, «è tutto bloccato e lavorare senza una retribuzione fa calare la motivazione». Un altro che pur di lavorare ha messo da parte i titoli di studio è Massimo, laurea in filosofia e anni passati alla ricerca di un posto da laureato.«Alla fine ho preferito fare da me–racconta–Grazie ai miei genitori ho potuto chiedere un prestito e mi sono aperto una foto copisteria».
Storie di oggi, di chi per andare avanti ha capito che bisogna stringere i denti. Eppure sognare un posto da laureato non significa essere choosy ma cercare di ottenere quello che spetterebbe di diritto: «Siamo solo giovani che vogliono andare avanti – dice Giovanna Pala–Non per essereschizzinosi,ma per daren
senso ai tanti anni di studi».

INCIDENTI SUL  LAVORO . I drammi E LE STORIE

di  Pier Giorgio Pinna
SASSARI Sono scampati alla morte bianca. Ma a un prezzo altissimo.Uno scuro calvario. Mesi di sofferenze e riabilitazioni. Sempre in attesa di qualche spiraglio di luce: la speranza di un reinserimento. Le loro sono vicende drammatiche. 
           Da sinistra,due lavoratori rimasti gravemente feriti:Angelo Addis,40anni,di Ittiri,e GiuseppeSechi,64,sassarese.
Affianco un  incidente  sul lavoro 

Eppure,speculari rispetto a quelle di compagni sfuggiti per un soffio a una fine atroce sotto un trattore o tra le macerie di un capannone crollato. Certo, tutti hanno avuto più fortuna delle decine di operai che ogni anno perdono la vita nell’isola: per
capirlo è sufficiente un’occhiata ai quotidiani degli ultimi mesi,quando la spirale degli infortuni si è fatta angosciante.Però chi rimane ferito a causa d’incidenti terribili poi deve affronta re un inferno. E non è facile riuscire a riprendersi, anzi. Quseta è la storia di chi alla fine ce  l’ha fatta.
Giuseppe Sechi ha 64 anni e da 43 guida di tutto: « Mi mancano solo navi e aerei,per 

le regole della navigazione di selene lungarellae

a tutti i naviganti   eccovi  una bussola per orientarvi

 dalla stupenda   di  Selene  Lungarella  che  ha  fatto la scelta  di  iniziare con la gavetta senza  andare in tv ( x factor   , amici della de filippi , ecc )








Regole della Navigazione
Testo: A. Michisanti – Musica: A. Michisanti/F. Servilio


Cerco un modo per sentirmi vera
Cerco un modo per cambiare,giuro
Mille facce ho lasciato cadere
per ritrovare questo mio respiro

Fogli di carta gettati al vento
L’illusione di questi anni miei
E guardare a lungo il cielo immenso
senza capire dove sei

E poi senti che la vita ti regala tutti i sogni suoi
se provi a navigare questo mare e ti ascolti dentro…

1 fissa la tua meta, se ti perdi, se non sai più navigare
2 fissa la tua rotta, cerca poi una stella, lasciati guidare
3 abbandona la pretesa ad ogni costo, e la stella poi riappare
4 con lo sguardo attento scruta il Firmamento, non lasciarti andare
Odio, verità, dolore, amore, opposti da riunificare
5 quale posizione, quale direzione in questo naufragare?

In quest’ Oceano dell’Esistenza,
che quant’è grande lo sa solo Dio,
mille domande, poche le risposte…
Quando nasco Io?

6 alza gli occhi al cielo, aggrappati alle stelle nella notte scura
7 accogli l’Universo, senti che la Vita…è lì, ti aspetta ancora
8 lascia posto a un cuore che non mente, che non rifiuta e non distrugge
9 affronta la Tempesta con fermezza e se ti vien voglia di gridare,
fallo con tutta la forza che hai nel petto, ma dal cammino non deviare
10 fermati un momento, lanciati nel vuoto per sperare ancora

Accettare questo immenso Mare,
aprire il cuore a un'anima sincera
Ora so che posso navigare
posso rinascere e sentirmi vera




4.11.12

A mani nude contro il diavolo, vita e tormenti di un esorcista


  dall'unione sarda  del 4\11\2012
 di  Giorgio  Pisano (  pisano@unionesarda.it )

Incrocia il diavolo quasi tutti i giorni da diversi anni.Sulle prime,Satana parlava di sé in terza persona, insomma dandosi del lei come succede ogni tanto ai baroni della medicina, poi s’è reso conto che non poteva durare ed è passato al tu.
Don Giovanni Sini 
In fondo, sono colleghi: concorrenti ma colleghi. Lavorano sulla stessa materia prima: l’uomo. Don Gianni Sini,57 anni,figlio di un ex operaio Sir, è l’esorcista ufficiale della Diocesi di Tempio. Biparroco, nel senso che opera in due chiese (Nostra Signora de la Salette a Olbia e Nostra Signora del
Mare a Pittulongu ),è sacerdote molto popolare e molto amato.
Capelli grigi, lunghi e scomposti,da nouveau philosophe,ha un fisico proletario,mani polsi e braccia di conseguenza, jeans, giubbino scuro e polo.Commenta il Vangelo della domenica in una televisione locale (Cinque Stelle) ma si spende soprattutto nella guerra infinita contro il demonio. Racconta che attualmente si sta occupando di cinque casi «decisamente gravi» e sfodera un campionario arcinoto: la vecchietta semianalfabeta che parla ebraico senza averlo mai studiato, il bimbo che grida volgarità da far arrossire un camionista, il giovanotto che in piena crisi decuplica forze muscoli e aggressività. A riprova mostra qualche cicatrice, ferite di guerra.
Alterando luoghi e nomi per evitare che gli interessati vengano riconosciuti,ha raccontato undici storie sataniche nel libro pubblicato qualche mese fa con Sugarco (“Quando parlo col diavolo”) e già a un passo dalla terza edizione. Segno che l’argomento tira anche quando a parlarne non è un decano della categoria come padre Amorth ma un semplice sacerdote di provincia.
All'inizio dell’intervista, posa sul tavolo gli arnesi da lavoro: una stola viola,l’aspersorio, un crocifisso e un libretto molto maltrattato.Contiene le istruzioni per l’uso, formule che invocano l’allontanamento di Satana dal corpo di un  ossesso oppure ne  ordinano bruscamente la cacciata come una sorta di  foglio di via.Spossante?
«Tanto. Anche perché la partita non si chiude in una botta sola».
E qualche volta,confessa, non si chiude affatto.
Don Sini è entrato in seminario che aveva undici anni. Ne è uscito prete e senza conseguenze: «Nessun problema nei rapporti coi superiori né ripensamenti».
La chiamata vera e propria è arrivata tuttavia più tardi. E sarebbe finita in gloria con una carrierina da parroco se non avesse visto un esorcista all'opera . È stato colpo di fulmine. Da quel momento volle, fortissimamente volle dedicare cuore e breviario alla madre di tutte le battaglie: quella contro il Male e il suo ufficiale rappresentante. Male che non prevede «soltanto possessioni» ma anche tentazioni e perfino blitz nella politica. «Chi altro volete che ci sia, se non il demonio, quando si prendono certe cattive decisioni?» 
Quali, per esempio?
«L’eutanasia, per dirne una». Ma si potrebbe serenamente aggiungere anche il testamento biologico o il registro delle unioni civili.Argomenti tuttaltro che spirituali e che riguardano la discesa in  campo di nostro signore degli inferi.
Com’è  il  diavolo?
«Diversamente da come viene rappresentato nella letteratura o nei film, strana e terribile creatura con le corna,è -lo aveva detto Paolo VI - personaggio misterioso, pervertito e pervertitore. Il suo compito è, prima di tutto, attrarre e poi stravolgere la mente e i buoni valori.
 La sua più grande conquista far dire alle persone che lui non esiste».
Obiettivo?
«Annacquare la divisione tra Bene e Male».
L’ha  mai  visto?
«Ci parlo spesso attraverso gli ossessi o le ossesse. Ne altera la voce, lo sguardo, fa dire cose orride».
Ma  s’è  mai  manifestato  davanti  a  lei?
«Fisicamente no. Non dimentichiamo però che, come insegnano le Scritture, è un essere immateriale. So comunque di gente che l’ha proprio visto di persona».
Da  quanti  anni  fa  l’esorcista?
«Il primo caso l’ho affrontato negli anni ’80.Avevo 33 anni».
Addestramento?
«Uno non ce l’ha scritto nel dna che farà l’esorcista. La preparazione si  acquisisce   seguendo i confratelli che già esercitano. Il mio maestro mi ha poi affidato gli strumenti (crocifisso, stola,aspersorio e manuale) che Satana riconosce ufficialmente come armi contro di lui».
Quanti  casi  ha  esaminato finora?
«Alcune centinaia.Non dimentichiamo comunque che i casi di possessione sono i meno numerosi,uno \ due per cento. Incontro sette-otto persone al giorno ma raramente si può parlare di anime possedute».
Effetti  collaterali?
«Beh,certe volte la cappella dove opero si trasforma in una specie di palestra.La lotta tra Bene e Male non è sempre fatta soltanto di parole. Ho preso pugni,graffi, calci, sputi: fa parte del lavoro».
Il  demonio  è  interessato  alla  Sardegna?
«Abbastanza, in linea con Sicilia e Calabria che stanno ai primi posti mentre il Piemonte è soprattutto terra di sette. Nelle zone interne della Sardegna ci sono usanze che sconfinano nel profano,scivolano nello spiritismo,cercano sistemi per stabilire un contatto coi morti, si rivolgono a maghi per far togliere le fatture. E tutto questo è opera sua».
Sua,  di  chi?
«Del diavolo, ovviamente».
In  famiglia  o  gli  amici  l’hanno  mai  presa  per  matto?
«Alcuni sacerdoti tendono a denigrare o a ridicolizzare il ruolo dell’esorcista,dicono che vediamo il demonio dappertutto».
Luoghi  preferiti  per  l’attacco?
«Quelli dove non c’è verità, non si segue il Vangelo e si preferisce il culto di Satana attraverso sedute spiritiche o addirittura celebrando la messa nera, che è la parodia e la profanazione di quella vera».
Travestimenti  per  non  farsi  riconoscere?
«Noi potremmo avere come compagno  di lavoro un posseduto e non lo sappiamo. Perché la ossessione si manifesta solo in certi momenti, mica 24 ore no stop».
Poi?
«A un certo punto, quando si rende conto di non farcela più, l’ossesso bussa alla nostra porta per chiedere aiuto.Sa di avere dentro di sé un altro e vuole liberarsene».
La  psichiatria  le  chiama  sindromi  dissociative.
«Può essere. Ma noi abbiamo indizi precisi per capire se si tratta di vera possessione e non confonderci».
Cioè?
«Dev’esserci una forte avversione al sacro e alla fede, alla Madonna e ai santi, disagio a stare in un luogo di culto o accostarsi ai sacramenti. Tant’è che quando debbono fare la Comunione avvertono una irresistibile repulsione».
Altri  segnali?
«Parlare una lingua sconosciuta.È impressionante ascoltare una donna di settant’anni parlare ebraico quando sai che non ha nemmeno frequentato la scuola dell’obbligo».
Che  genere  di  messaggi  manda  Satana?
«Mi invita a lasciar perdere,urla il suo diritto a possedere una persona,ride delle mie preghiere.Io replico con altrettanta forza: prima lo invito con le buone a lasciare quel corpo, poi passo alle maniere forti».
E  cioè?
«Leggo ad alta voce il rito dell’esorcismo, gli ordino di andare via. Purtroppo però non dipende da me il fatto che si allontani più o meno velocemente.È Dio a decidere. Di solito bastano pochi mesi ma stiamo seguendo casi molto difficili che ci stanno impegnando da anni».
C’è  una  profilassi  anti-demonio?
«Una prevenzione,vuol dire? L’importante è non entrare in contatto col mondo dell’occulto. Non scambiare la fede con surrogati o forme di superstizione,abbracciare una vita vicina a Nostro Signore e ai sacramenti».
Vittime  predilette:  facciamo l’identikit.
«La fascia più esposta è quella che va dai 18 ai 45 anni. Ma può essere  infettato chiunque, compre-
si i religiosi. Ho personalmente seguito il caso travagliato di alcune suore possedute, che pure facevano la Comunione tutti i giorni. Finché non hanno avuto  una crisi nessuno se n’è accorto».
Che  tipo  di  crisi?
«Rifiuto della Comunione e un’esplosione di rabbia che faceva dire parole scurrili,discorsi impensabili sulle labbra  di una monaca».
Bambini?
«Ce ne sono e rappresentano un mistero: se negli adulti c’è un episodio o un’esperienza del passato a spiegare la possessione, nei bimbi non abbiamo  niente di tutto questo. M’è capitato di dover aiutare un bambino di quattro  anni».
Chi  gliel’ha  portato?
«I genitori.Non riuscivano a spiegarsi la sua aggressività: non stava mai fermo e, se veniva rimproverato, non esitava a colpire mamma e babbo».
Non  sarà  stato  ipercinetico?
«No,sotto c’era qualcos’altro: il demonio.E alla fine l’ho scoperto.Ho chiuso a chiave la porta della cappella.Lui voleva uscire a tutti i costi,dava calci e pugni alla madre per farsi aprire. Altrettanto al
padre,che però aveva perso da tempo la pazienza e gli mollava ceffoni molto forti».
L’avete  messo  ko?
«Non ce n’è stato bisogno.A un tratto si è rivolto verso di me,pronto a colpire. Gli ho detto: attento, ti restituisco le botte una per una. All'improvviso ha digrignato i denti, ringhiava come un cane e ha tirato fuori una voce profonda,cavernosa: chi sei tu per fermarmi?»
Com’è  finita?
«Ho iniziato a leggere il rituale ma quando sono arrivato a metà mi ha interrotto: prete, l’hai capito o no che mi stai  rompendo le palle?»
Magari  non  ce  l’aveva  con  l’esorcismo.
«Abbiamo interrotto e il padre, in separata sede,mi ha confessato che da giovane partecipava a sedute spiritiche. Ecco che tutto si  spiegava».
Tara  familiare,  in-somma.  Come  tante  malattie.
«Proprio così.Allora ho capito  che il diavolo stava giocando in casa e dovevo affrontarlo allinterno della famiglia: il bambino  non era altro che  una vittima inconsapevole».
Con  lei  ci  ha  mai provato,  Satana?
«Come no. Mi sabota la macchina,mi fa trovare le ruote a terra o il cambio sfasciato. Ma io  non m’arrendo facilmente».
Tentazioni?
«Continuamente,cerca di deviarmi dal  mio ministero».
Donne?
«No, questo non mi è mai capitato ma  non mi sorprenderei se provasse anche questa trappola».
Il  caso  più  incredibile? 
«Quello di una ragazza di quattordici  anni, cresimata di recente, che manifestava una forte avversione al sacro. Non  riconosceva più nulla, come se non fosse mai passata in chiesa».
Vabbé  ma  il  diavolo?
«Sono riuscito a liberarla dopo quattro  mesi. Ho recitato l’esorcismo in forma imperativa, è caduta a terra come morta. Poi si è ripresa».
La  sua  vita  è  tutta  un  match.
«Lo è.A Oristano,durante la presentazione del mio libro,una donna m’ha lanciato due sedie addosso dopo averne scaraventato un’altra contro una vetrata  mandandola in frantumi».
Posseduta  o  polemica  verso  il libro?
«In passato l’avevo esorcizzata. Evidentemente Belzebù stava tornando alla carica.È stato necessario tenerla immobilizzata.Ho dovuto rifare l’esorcismo in diretta. Si è ripresa dopo un’ora».
Da  pugile  di  Dio,  quanti  incontri  ha perso?
«Per il momento nemmeno uno perché non siamo arrivati alla fase finale.Abbiamo tre casi ancora aperti. Il Male alla fine dovrà soccombere,non può vincere».
Cosa  risponde  a  chi  sostiene  che  siete solo  ciarlatani?
«Contra factum non datur argumentum. Io mi limito a dire: venite con me,state a vedere e poi ne riparliamo».

Donatella Turri la Bardot sardo-veneta: «Così salvo i cani torturati»


 Come  si può desumere sia    da quest'altro articolo della nuova  sardegna   un attrice e  un appartenente  al mondo  dello spettacolo ha scelto     già  da tempi  non sospetti  , almeno cosi sembra, la  causa  animalista   


Dalla nuova sardegna del 4\11\2012 un artitcolo interessante di Pier Giorgio Pinna

INVIATO A SANPANTALEO
Ha vissuto cinque vite. Nell’ultima salva cani torturati,feriti,abbandonati. «Fellini mi diceva che ero troppo “pispoletta” per la parte che nella Dolce Vita fu poi affidata a Valeria Ciangottini, eppure nonostante gli occhi malandrini e quella mia aria sbarazzina io già allora avevo un’unica grande passione: non il cinema, ma gli animali. I randagi.I gatti.Tutte le bestie.Persino i topi». L’ex attrice Donatella Turri, due matrimoni alle spalle e nessun figlio,ha 69 anni,ne dimostra 20 di meno ed è sempre bellissima. Sardo-veneta, sin da piccola legata all’isola, abita da decenni in Gallura.Prima a Porto Cervo. Adesso sulle colline di San Pantaleo. Dopo tante esperienze internazionali fatte alleSeychelles, a Ischia, a Saint Tropez e tra Roma e Milano anche nella moda, oggi è questo il suo
regno: un gommone di cinque metri all’ancora e una casa con una meravigliosa vista sul mare
della Costa, popolata da undici meticci raccolti per strada e tre micioni dimenticati dai vecchi
padroni che ti guardano con l’aria di saperla lunga.
La prima vita. Sembra uscita da un romanzo la storia di Maria Donatella Turri Gandolfi,(  foto sotto al centro  ) questo il suo nome completo.

Donatella Turri con alcuni dei suoi undici cani nella casa sulla collina di San Pantaleo (Foto servizio Gavino Sanna)
Di madre veneziana (la signora Aldina,che poi avrebbe spesso accompagnato la figlia minorenne sul set), l’ex attrice è nata nel marzo 1943, due mesi dopo la morte improvvisa del padre,padovano. «Mamma al momento del parto venne trasportata in calesse da Riccardo Bacchelli,
l’autore del Mulino del Po», ricorda lei oggi tramandando i racconti di famiglia. «E sin da bambina ero scatenata: via, in strada, sempre dietro a barboncini e cuccioli»,aggiunge.
La seconda vita. «Quando avevo 14 anni,dopo un primo trasferimento a Bologna, mia madre si sposò con quello che sarebbe poi diventato il mio papà per sempre,l’imprenditore Gandolfi: politicamente vicino al Partito liberale italiano,operò in Sardegna con cantieri a Oristano e divenne a lungo il presidente regionale dei costruttori – continua l’ex attrice – È da quel momento che è nato il mio amore per l’isola.
Mio papà, d'altronde,non era il tipico miliardario che pensa solo a fare soldi: si trovò un socio, lavorava 15 giorni al mese e i restanti li passava viaggiando con noi: “Perché dovrei faticare a far soldi se poi non ho il tempo per spenderli?”, era la sua frase preferita».La terza vita. E il cinema? «Il debutto avvenne nel 1960 a Roma con “I dolci inganni” dopo un provino fatto al Liceo Internazionale dove ancora studiavo» - dice Donatella Turri–Lo stesso anno ho partecipato a “Risate di gioia”,nel 1961 a“Che gioia vivere” e nel ’62 ho fatto la protagonista in “La cuccagna”. È sul set di quest’ultimo film, ritratto in controluce dell’Italia del boom economico, che ho conosciuto Luigi Tenco.
All'inizio mi considerava una pariolina antipatica.
Poi, prima che si uccidesse a Sanremo,siamo diventati amici. Ma non siamo mai stati fidanzati, com'è stato scritto».
La quarta vita. Perché è finita così presto con il mondo della celluloide? «Guadagnavo bene, lavoravo poco, ma non faceva per me: in giro c’erano troppi palloni gonfiati. E la mia famiglia era più che benestante di suo. Mi sono guardata attorno. Ho frequentato il Piper. Sono diventata una delle ragazze di Bandiera Gialla. E mi sono divertita un sacco con Arbore e Boncompagni. Più avanti, con un’amica,
ho rilevato la Documento film.
C’erano frammenti in bianco e nero di estremo interesse,anche sulle miniere del Sulcis. Dopo averli catalogati e sistemati,li abbiamo venduti al Dipartimento storia-educazione della Rai».Negli anni’80 e’90,mentre si dedica a creazioni di moda e franchising,sposa Giancarlo Gorrini,assicuratore che dopo Tangentopoli chiamò in causa Di Pietro per il famoso caso della Mercedes ( l’allora pm venne inseguito scagionato da tutte le accuse).Da lui si è separata anni fa. La quinta vita. Molto prima, però, il trasferimento definitivo nell'isola. «Ho avuto a lungo un appartamento a Porto Cervo, ma l’ho venduto per comprare questa tenuta di quasi due ettari a San Pantaleo dove i cani possono stare meglio–spiega oggi Donatella–Qui a casa,l’ho chiamata AbbaIlde,vivono randagi che in passato sono stati sotto posti a sevizie feroci». Adesso hanno età comprese tra i 10 e i 2-3 anni.Con loro,un paio di cuccioli che presto saranno dati a nuovi proprietari.Mentre due cani da caccia abbandonati da automobilisti sulla provinciale che porta al paese sono stati “alloggiati”,
sempre a cura di Donatella,in altrettante cucce lungo la viuzza che porta alla sua abitazione.Ma per via dei continui Sos che arrivano dalla Lida di Olbia la residenza dell’ex attrice è una specie di polo per aiutare animali sofferenti .Dove i super felini Alice, Zazà e Taitù dimostrano come a volte sia una leggenda il perenne conflitto cane-gatto. Dei randagi che tiene con lei Donatella conosce tutto: «Si chiamano Natalino, Virgola, Schumy,Ciro, Tobia, Belinda, Lothar, Arturo, Rambo, Lulù e Minnie.
Uno era stato scaraventato nella campana del vetro: per segare il cassonetto abbiamo dovuto pagare il Comune.Un altro sepolto incaprettato, solo la testa fuori dalla terra.Un altro era finito nel laccio di un bracconiere. Un altro ancora aveva la colonna vertebrale frantumata, solo il 50% di possibilità di sopravvivere a un intervento durante il quale gli hanno applicato tante placche metalliche: per mesi sono stata china sul pavimento con lui per aiutarlo a camminare, è lui Schumy, ora è veloce come una lepre». Lei non lo dice, ma pur di salvarli ha speso decine di migliaia di euro.«Adesso non sono più ricca,eppure quando vedo un animale soffrire non so resistere e lo aiuto»,si limita ad aggiungere prima di corrervi a verso la sua sesta vita.

sempre  dalllo stesso giornale

Successi  e  mondanità Quei film con Chabrol e Monicelli Negli anni’60 ha lavorato anche per Lattuada e René Clement


È durata un decennio l’avventura nel cinema di Donatella Turri.Intutto ha partecipato a 11film.
Il primo diretto da Lattuada, il secondo da Monicelli,ilterzo da Renè Clement e il quarto da Luciano Salce(  foto  a destra )  Per il grande regista  francese Claude Chabrol  ha girato nel 1969 «Una moglie infedele”.«Mi hanno attribuito tanti fidanzamenti , ma uno è vero: ho
avuto un flirt con Ugo Tognazzi», racconta oggi Donatella.
«Lui – prosegue – non voleva : per via della differenza d’età,diceva. Così sono stata io a a conquistarlo», racconta ancora lei.
Che, sino al primo matrimonio  con lo sceneggiatore Maurizio Bonuglia,d aneddoti di quel periodo potrebbe fare un elenco sterminato:«... come quella volta che mia madre lanciò una secchiata d’acqua contro Celentano e Don Backy: loro volevano farmi una serenata sotto il nostro albergo mentre insieme giravamo “Uno strano tipo” , ma avevano sbagliato stanza e con le chitarre si erano piazzati per due ore davanti alla sua camera anziché sotto la mia ».
In quella fase della sua carriera, Donatella ha conosciuto Claudia Mori, «non ancora mo gliedi Adriano», Sylva Koscina e tanti altri protagonisti di Cinecittà.C’era scritto da allora nel suo destino che sarebbe diventata
una Brigitte Bardot in difesa degli animali? «Macché, macché...io BB l’ho conosciuta,era nostra vicina Saint Tropez,stupenda,fantastica, una meraviglia della natura. In quel periodo stava con l’attore e playboy Gigi Rizzi. Non facevano che litigare. Noi sentivamo le urla ogni notte.Lei alla fine lo ha sbattuto fuori dalla sua villa:ce lo siamo ritrovati nudo sulla terrazza del nostro residence».(pgp)





si al ricordo del 4 novembre no alla festa delel forze armate

ecco perchè  non mi piace  il 4 novembre   e preferisco il ricordo  alla celebrazione 


.  Perchè  succede sempre  cosi   gli alti papaveri   scaricano le  loro  resposabilità anche  gravi   su  i loro  subordinati  come del caso sotto riportato  

  dall'unione sarda  del 3\11\2012

 
































Paolo Gaspari ha ricostruito la verità grazie alle memorie di 16 mila prigionieri Le bugie di Caporetto.
Sconfitta,non vile disfatta «Cadorna scaricò le colpe sull’esercito travolto» Il toponimo Caporetto è entrato nella lingua italiana come sinonimo di disfatta, ritirata in massa. Come Waterloo per i francesi,per gli italiani la cittadina oggi slovena è diventata il simbolo della più tragica sconfitta della Prima Guerra mondiale che vide l’esercito austro-ungarico e tedesco sfondare le  linee alpine sull’Isonzo e riversarsi nella pianura veneta.L’Italia fu a un passo da perdere la guerra. Ma da quella battaglia durata due settimane scaturì la reazione che portò alla riscossa sul Piave e alla vittoria.
 Quella vittoria, che si celebra domani con la ricorrenza della fine della Grande Guerra,nasce dagli eventi di Caporetto.

 Scusate  l'interruzione ma  è più forte  di me ,   certi colegamenti mi  vengono all'improvviso  e  cerco di bloccarli  . Per una riflessione su tutte le guerre. Una intensa canzone del grande e indimenticabile Fabrizio de André con le straordinarie foto di Lisa Bernardini.

 Rprendiamo  con articolo 

La storia della ritirata è stata finalmente riscritta grazie alla scoperta di una mole enorme di documenti negli archivi militari, non perché tenuti segreti per nascondere la "vergogna"del nostro esercito,ma solo perché  volutamente ignorati dagli storici. Oggi è possibile sapere la verità e restituire l’onore a quelle migliaia di ufficiali, sottufficiali e truppa che combatterono eroicamente, molti morirono e in 300 mila furono fatti
prigionieri, per fermare l’enorme offensiva messa in atto dagli austroungarici. Su di loro fu fatta cadere la colpa della sconfitta: gli eroi si ritrovarono ad essere indicati come i codardi che fuggirono in massa apren-
do le porte dell’Italia all’invasore e la loro memoria è stata tramandata con l’ignominia della  disfatta.
NUOVA VERITÀ. La realtà della sconfitta è ben diversa da come è stata sinora raccontata. Fu determinata non dalla viltà dei soldati (se non in pochi casi),ma dall’impari entità delle forze in campo, da un esercito
stremato dalle 12 battaglie dell’Isonzo e da tre anni di trincea,dall’impossibilità in quelle condizioni di tenere un fronte lungo 20 chilometri davanti al massiccio sfondamento.Ma soprattutto fu causata dalle gravissime responsabilità strategiche del comandante in capo generale Luigi Cadorna e dei suoi diretti collaboratori, i quali immediatamente scaricarono i loro plateali errori sui reparti in  ritirata. Da qui nacque la leggenda nera di Caporetto,rafforzata dal fascismo per esaltare la riscossa del Piave e per altre  ragioni sostenuta
nel secondo dopoguerra.
da http://www.gasparieditore.it/
IL LIBRO. La nuova verità emerge grazie al poderoso studio dello storico friulano Paolo Gaspari. Un volu-
mone di 600 pagine edito dallo stesso studioso che a Udine guida una importante casa editrice specializzata nei libri sulla Prima  Guerra, apre la  strada a ricerche  inedite e a una  nuova interpretazione di quei  giorni. Certo, ci vorranno  anni prima che questa verità trovi spa zio nei manuali  scolastici e nelle  università dove è sempre lungo e  difficile cambiare  la tradizione degli studi, ma un solco è stato tracciato.
Paolo Gaspari,che vive a contatto con i luoghi e i ricordi della Grande guerra,insieme ad una pattuglia di esperti si occupa della storia  militare del ’15-’18. Tra i numerosi volumi sinora pubblicati anche tre di dieci dedicati interamente alla Brigata Sassari. 
«Seguendo il corso dei nostri studi, abbiamo messo assieme
le tessere di un complicato mosaico. Ed è venuta fuori un’im-
magine ben diversa di quella che abbiamo sempre visto su
Caporetto», spiega Gaspari.
IL BOLLETTINO. Tutto comincia con quel famigerato bollettino  del 27 ottobre 1917 firmato a  Roma dal generale Cadorna (che poi verrà sostituito con il
generale Armando Diaz): «Alcuni reparti del IV Corpo abbandonarono il 25 ottobre posizioni importantissime senza difenderle. Circa 10 reggimenti arresisi in massa senza combattere. Vedo delinearsi un disastro, contro il quale combatterò sino all’ultimo...la mancata resistenza di reparti della 2 Armata vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico… L’esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno per combattere il quale ho inviato al governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta».Come si vede Cadorna scarica sul basso e anche sopra di lui.
I MEMORIALI. La verità esce  dallo studio di 16 mila memoriali scoperti negli archivi dell’Esercito che conservano le dichiarazioni raccolte a caldo dagli ufficiali catturati dai tedeschi e rientrati dalla prigionia. Si tratta delle testimonianze in diretta dei quattro quinti dei graduati che si ritrovarono coinvolti a Caporetto.«In questi memoriali gli ufficiali, dal generale al diciannovenne sottotenente,dovettero raccontare quanto era accaduto e quanto avevano visto dal 24 ottobre al giorno della cattura. Solo poche centinaia di giovani scrissero un paio di stringate paginette,la gran parte lasciò mezza dozzina di fogli protocollo e alcuni 40-50
fogli con gli schizzi delle posizioni,facendo i nomi dei sottufficiali e dei soldati coinvolti nella loro vicenda personale».
Inoltre Gaspari ha potuto esaminare 400 interrogatori fatti ai militari sopravvissuti.
Gli ci sono voluti tre anni per fotocopiare circa 7mila di questi memoriali, tutti quelli riguardanti i reparti della 2a Armata accusata di viltà da Cadorna. «Come si può immagi nare si tratta del più grande archivio italiano di diaristica: il fatto che sia legato alla storia militare è senz’altro una delle ragioni per cui la cultura italiana non l’aveva preso in considerazione.
Mi sono emozionato nel trovare testimonianze di fatti rimasti sconosciuti,di vere battaglie ignorate dalla storiografia italiana (Cividale, Udine,Codroipo, solo per citare le maggiori). La storia raccontata dagli ufficiali di prima linea mi ha consentito,attraverso lo studio incrociato delle testimonianze, di ricostruire quasi tutti i combattimenti  I vinti di Ca-poretto diventano di colpo coloro che ci svelano ciò che altri hanno mascherato o taciuto».
Cosa accadde, allora? In  estrema sintesi: è fuori di dubbio che la tattica, l’addestramento e l’armamento dei tedeschi a Caporetto erano superiori. Alcuni reparti "imperiali", meglio preparati e freschi,compirono autentiche imprese nell’occupare posizioni decisive.Il Bollettino di Cadorna parla di reparti in fuga, ma i reparti sono costituiti dai battaglioni di  poche centinaia di uomini e  non da migliaia di soldati delle divisioni.«Le cose andarono di-versamente», conclude Gaspari: «Attaccati e circondati da forze fresche e prepoderanti gli italiani combatterono sino a morire o ad essere catturati in 300 mila. 
Un numero enorme,di cui non si seppe nulla sino a guerra finita.Furono interrotte le comunicazioni e il comando di Cadorna incapace e disorganizzato,questo sì,per ordinare una reazione, scaricò le colpe della disfatta sui soldati».
                                                    Carlo Figari


chi ancora resiste

Dovunque c'è qualcuno che combatte per un posto in cui stare o per un lavoro decente o per una mano d'aiuto. Dovunque qualcuno lotta per ottenere la libertà, guarda nei loro occhi, mamma, e vedrai me Bruce Springsteen

Innocente



Voglio immaginarlo forte, Carmine. Di quella forza che solo gli insegnanti, i colleghi possono conoscere: quella forza fatta di sguardi, di costanza, di notti affaticate e piane, di voci appassionate e calde. Aeree, stellate. Perché così sicuramente doveva sentirsi Carmine di fronte ai suoi studenti: un albatro nei territori della conoscenza, e l'aula diventava emozione, pianeta. Carmine aveva tutta la sua vita lì e anche di più. Insegnante, artista della pazienza. I suoi erano sogni di radici. Perché senza la scuola non si vive, tutt'al più si esiste.Carmine non ha più r-esistito. Si è reciso la giugulare con un colpo netto, alcuni giorni fa, dopo la constatazione che in quell'aula non sarebbe più tornato, che era condannato a restare un precario per sempre, "ammettendo di essere fortunato", chiosava poi, amaro. Aveva appena conseguito la laurea specialistica: "E dovrei essere gioioso ma sono triste perché il ministro Profumo ci sta distruggendo il futuro". Con l'elevazione a 24 ore settimanali di servizio lui era tagliato fuori, addio supplenze annuali. I giornali raccontano che era passato a scuola a salutare i colleghi.Quel nodo in gola, quella minuscola bolla di silenzio che lo ha preso, fino a soffocarlo, proprio lì, nella gola, io la conosco bene. Io che, come lui, ho attraversato vent'anni di precariato, più fortunata solo perché, probabilmente, nata e vissuta al Nord. Hanno scritto, della sua, "vita precaria". No. Era una vita lacerata. Quella bolla è diventata gigante non solo per l'ultimo colpo, quello che lo ha ucciso. Lo è diventata perché la pazienza si era lisa, sfibrata, umiliata. Dopo anni di silenti sopportazioni sulla presunta pigrizia dei docenti, invettive sulla nobiltà del suo impegno, mentre nessuno, come noi, sa quanto appassionante e doloroso sia occuparsi di altri esseri umani, giovani, fiorenti, quelli che proseguiranno il nostro cammino. Cultura è coltivazione, è prosecuzione nell'orto dell'umanità. Un atto comunionale. Quando la comunione s'interrompe, la vita cessa di essere umana.Di quanta violenza è fatto questo disperato amore degli intellettuali! Una fine come Seneca: o, forse, flaubertiana, nel senso di scioccante e impudica e "illetterata". Non esiste alcuna letterarietà nello svenarsi, è qualcosa di convulso e barbaro e primordiale. Quel gesto ferino è stato compiuto proprio sull'organo che trasmetteva conoscenza. E' stato un assassinio della parola e dell'arte. Ha testimoniato la resa dell'umanità. Non son più io, non son più uomo.Pochi giorni fa lo pseudo-intellettuale Giuliano Ferrara, direttore del "Foglio", berciava in tv: "Dài, su! l'Italia è ricchissima, vanno tutti in Bmw, il Paese è pieno di champagne e caviale... Voglio sapere una cosa: perché non si suicida più nessuno? Forza! Suicidiamoci! Adesso sono 6 mesi che non si suicida più nessuno ... Esigo un suicidio al giorno! Anzi, due!".Dall'altra parte, il silenzio. Contemporaneamente a Carmine si è tolto la vita un operaio sardo, anch'egli cinquantenne, che aveva perso la moglie due anni fa in seguito a un tumore e che doveva badare ai due figli, anch'essi disoccupati. Non trovava lavoro da sei anni.Perdonatemi, avrà sicuramente pensato, non sono degno di fare il padre. Non ne posso più.No, Carmine, no, ancora ignoto lavoratore: non siete voi gli indegni. Se il moloc post-capitalista oggi è stato saziato, sappiate che non siete morti invano. Sembrano vuote parole, e forse lo sono; inadeguate, senz'altro. A voi le hanno tolte, e voi avete creduto di rimanere muti per sempre. Ma il vostro urlo silente le ha restituite a noi. I funerali di Carmine si svolgeranno oggi alle 13, nella Basilica di San Tammaro a Grumo Neviano. Se costoro si tacciono, grideranno le pietre.

3.11.12

Vicenza Baby-nuotatore rasato a zero “Punito come gli ebrei”

Non Aveva  tutti  i torti   il  caro e  "  compianto  "  (  perso per  strada  )  cofondatore  del  vecchio blog   (  cdv.splinder.com )  Danny , alias  Danilo Pilato   che commentando  la morte  di Pantani  scrisse  un post   critico  sullo  sporalla  faccia dell'educazione  spartana  e  del  sacrificio  


qui la  versione originale  della sigla   del serial  in questione  )  con   o senza  droghe  e mezzi  sintetici


Infatti  leggete  nell'articolo sotto  da  repubblica  del  3\11\2012   a che cosa  s'è arrivati  .  Posso capire  , meglio  , allontanamento   \ la  scissione del contratto   ,  da parte degli istruttori   della  piscina  o della  squadra    se << Non si impegnava >>  ma  da li  a fare una cosa del genere  non nè  educativo nè formativo  

                        “Rasato come un ebreo”la punizione dell’allenatore

VICENZA — «Ora ti rasiamo i capelli, come agli ebrei». È la minaccia shock che due insegnanti di nuoto hanno rivolto ad un baby-atleta vicentino di appena 11 anni. La colpa da espiare: non aver vinto la gara di nuoto cui aveva partecipato.
Una minaccia che si è tradotta in gesto vero e proprio, eseguito da un’atleta più anziana della comitiva. A denunciare l’episodio, avvenuto a maggio, i genitori del piccolo.
GLI hanno rasato i capelli, come agli ebrei. È l’accusa shock a  tre istruttori di nuoto di Vicenza che avrebbero così punito un baby-atleta di appena 11 anni. La colpa da espiare: secondo alcuni non aver vinto la gara di nuoto a cui aveva partecipato,secondo altri non aver tenuto in ordine la propria stanza e aver commesso delle marachelle durante una trasferta a Locarno in Svizzera, dall’ 11 al 13 maggio scorso. La punizione sarebbe stata eseguita da un’atleta più anziana della comitiva. A denunciare l’episodio,che sarebbe avvenuto durante una meeting internazionale di nuoto, i genitori del piccolo che dopo la trasferta hanno visto tornare loro figlio completamente rasato, con una croce di capelli disegnata in cima alla testa.
L’undicenne ha spiegato di essere stato punito in questo modo dal responsabile degli allenatori, un uomo di 52 anni, e  dalla sua vice di 28, i quali avrebbero poi assegnato l’esecuzione materiale della “lezione” a un’atleta più anziana.
Partendo dall’esposto dei genitori, ora la Procura sta indagando per abuso di mezzi correzione e i tre al centro delle accuse saranno ascoltati dai magistrati il prossimo 8 novembre.  Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il taglio dei capelli sarebbe stato minacciato, ma  non attuato, anche nei confronti di un secondo ragazzino della stessa età, i cui familiari hanno a loro volta presentato denuncia. Il piccolo avrebbe evitato la punizione solo perché i genitori presenti a Locarno lo hanno allontanato dalle competizioni. «Abbiamo stabilito immediatamente di sospendere cautelativamente i due istruttori — spiega il responsabile della società di nuoto vicentina — . Lo abbiamo fatto per difendere i bambini e dar modo agli allenatori di spiegare le proprie ragioni nelle sedi opportune».
I maestri di nuoto si sono giustificati sostenendo che è abitudine rasare i capelli in occasione delle gare, che altri bambini lo avevano già fatto, e che la croce disegnata sulla testa del piccolo rappresentava solo il simbolo della Svizzera, senza alcun riferimento antisemita.
Tant'è , dicono, che in altre trasferte avevano fatto disegnare stelle o bandiere sul capo dei bambini, a seconda del Paese in cui gareggiavano. Una versione che nell'interrogatorio del prossimo 8 novembre dovrà convincere i magistrati. E in-
tanto arrivano le prime reazioni. Lo stesso responsabile della società sportiva ha ammesso: «Se la dinamica si rivelasse come hanno esposto i genitori, si tratterebbe di una cosa che si allontana totalmente dai valori sportivi che professiamo».Più duro il commento del sindaco della cittadina in provincia di Vicenza in cui è accaduto l’episodio: «La società di nuoto ha fatto bene ad allontanare i tre perché la punizione scelta è assolutamente poco felice».
Sulla vicenda indaga la squadra mobile di Vicenza, che però tiene il massimo riserbo considerata la giovane età dei protagonisti.






in tempo di crisi e di fame busa e non si vuole emigrare meglio addattarsi a tutti i tipi di lavoro anche queli per cui non abbiamo studiato la storia di La scommessa di Paolo Ladu, noto “Cipolla”: lava vewtri da 40 anni

  dala nuova  sardegna   9\1\2025  di Valeria Gianoglio Nuoro La bottega di Paolo Ladu, noto “Cipolla  "è un furgone vissuto, un ampio...