Dopo una giornata affosa come acenato nel precedente post ho seguito nel Chiostro degli Scolopi (accanto al Teatro Comunale) mi sono goduto
Dai giornali dell'epoca |
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
Dopo una giornata affosa come acenato nel precedente post ho seguito nel Chiostro degli Scolopi (accanto al Teatro Comunale) mi sono goduto
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L’essere umano è un mammifero prevalentemente sociale, abituato a vivere in famiglie, unite spesso in grandi branchi, per lo più stanziali, perfino in città e megalopoli. Addirittura senza pari fra i mammiferi: solo alcune specie di uccelli, di pesci e di insetti possono competere o superarlo per addensamento di popolazione.Verrebbe quindi da pensare che siamo più propensi ad unire che a dividere. Probabilmente nella nostra eredità di specie è il primo dei due verbi a muoverci, tuttavia le cose possono complicarsi e, per l’equilibrio fra i contrasti, anche il secondo finisce con l’avere una sua estrema importanza.Unire, dal latino, significa mettere insieme gli unus. Due unus è già unione: eccoli nel rapporto amoroso, nella coppia, nella relazione d’amicizia, negli incontri. Da due unus può nascere una famiglia di tre, quattro o più. Da due unus può nascere un gruppo che si accresce di nuove unità. Perché unire è un verbo che non ha limiti: ci si unisce al circolo scacchistico, alla scuola di canto corale, ci si unisce allo stadio, nel gruppetto della piazza, alla manifestazione sindacale, al concerto. Ma ci si può unire anche in un progetto, in un’associazione, in un movimento. Ci si unisce per interessi, per gusti, affinità, per intenti, rivendicazioni e progetti.Unire è bello, ci dà delle buone sensazioni: di vicinanza, di complicità, di scoperta, di confronto, di conoscenza. Guardare gli altri occhi e cogliere comunanza nelle diversità. Soltanto l’unità d’intenti e di metodo può dare vera forza ad una lotta e renderla determinante. Cercare l’unità nelle diversità sta nei fondamenti della nonviolenza.Ma attenzione alle trappole, non solo prettamente semantiche, perché unire talvolta può far rima con dividere, come ad esempio quando viene cercata e fomentata l’unione di un popolo contro un altro, allo scopo di scatenare guerre per il predominio, territoriale ed economico. Si unisce, in questo caso, per altro in modo fittizio, una nazione, ma solo per dividerla da un’altra, od altre. Per alimentare l’odio in grado di giustificare la guerra e i grandi affari delle industrie belliche. Allo stesso modo può succedere che un ramo di una famiglia, che sembrava unita, si divida su una questione di quote ereditarie, causando ricorsi legali o ritorsioni. Così come accade che attivisti che sono uniti dagli stessi obiettivi, si dividano per punti di vista discordanti e dilemmi comunicativi.E’ peraltro ben noto come siano le divisioni interne ad un popolo la miglior garanzia per il suo dominio da parte di minoranze privilegiate. Ne segue che il sistema di potere stesso, mentre apparentemente inneggia all’unità del popolo, in realtà ne persegue e fomenta le divisioni, allo scopo di rendere innocue e controllabili le spinte al cambiamento. Niente di nuovo sotto il sole: riecheggia il romano “divide et impera”. Le divisioni fra i sudditi sono la prima garanzia della durata di un regime. E più il regime sarà forte e imperiale, maggiormente dovrà lavorare alla divisione fra i popoli sottomessi.Dividere, sempre dal latino, è far più parti dall’uno. Ma, attenzione, non scambiamolo per condivivere, che è dividere assieme, quindi in modo partecipativo. Condividiamo il pane, mettiamo insieme il cibo, condividiamo le conoscenze, gli strumenti di lavoro. Condividere è eguale per tutti, mentre il solo dividere, in assenza del con, cioè di compartecipazione, può risultare drammaticamente diseguale. Così la divisione in classi sociali mantiene l’insieme della popolazione in perenne conflitto, la divisione di ruoli, aspettative ed opportunità in base al genere crea violenza, invisibile o palese, spesso assassina, in molti contesti e situazioni. La divisione può essere anche etnica, non necessariamente attraverso leggi razziali, o interventi draconiani, ma anche in modi più sinuosi: basta lasciar naufragare qualche barcone senza adeguato soccorso, o metter su reticolati, costruire muri: quel che si raccoglie è discriminazione, ghettizzazione, talvolta persino apartheid.
UNIRSI NELLE DIVERSITA’
Non voglio qui far l’elogio dell’unire. L’unire assoluto non ha senso: se non si sta bene insieme è meglio dividersi, provare altre unioni ed altre forme. Se l’unione indissolubile del matrimonio non se la passa bene, con una sempre più ampia percentuale di separazioni e divorzi, non va sostanzialmente meglio alle fluttuanti alleanze fra i partiti politici, costretti sempre più di frequente a cambiare programmi, nomi e leader. E che dire dell’unità fra i movimenti della società civile: pacifisti, ecologisti, disarmisti, antagonisti, gruppi di cambiamento sociale? Quando si cerca di unirsi tutti, mettendoci molta buona volontà di mediazione, sembra che sia già un successo e si possa andare. Ma ad una analisi più attenta appare come una casa costruita frettolosamente e con materiali diversi, in cui da subito s’intravvedono le crepe, avviso di prossimi crolli.Così alla fine le persone, spesso frustrate nelle proprie aspettative, sono più propense a rimanere nel proprio unus e a non prodigare energie verso un unirsi gravido di rischi. E non partecipano, si mettono da parte, coltivano il proprio orticello, si distanziano, forse rinunciano. Con più facilità oggi, con internet, i social, la domotica, gli acquisti online: si può avere la tentazione di rifugiarsi in un mondo chiuso e sicuro, con poche, fragili certezze.Ciò nonostante, la tensione ad unirsi si ripresenta, persiste, come un bisogno inappagato. Dobbiamo sapere che questa tensione è vitale, perché siamo mammiferi sociali. Perché se ancora, purtroppo, si può morire di fame, si crepa ancor più di solitudine e abbandono. La dimensione sociale dell’unirsi è, per l’essere umano, un bisogno essenziale.La paura maggiormente percepita tra le persone è che unirsi significherebbe dover rinunciare a qualcosa del proprio unus. Questo è in parte vero, ma non deve essere enfatizzato, perché potrebbe trattarsi di rinunce parziali e non fondamentali. Uno dei problemi è infatti che dividersi per le differenze è molto più facile che unirsi per i principi comuni e per i comuni obiettivi.Certi che non potremmo essere mai tutti con le identiche idee e sensibilità, se non in un mondo completamente robotizzato ed alienato, che non ci auguriamo, dovremmo essere capaci di discernere fra quel che ci accomuna e quel che può dividerci e, in base a questo, scegliere se andare insieme o meno. Se le differenze sono fondamentali, cioè intaccano i principi costituenti di un movimento, è molto meglio dividersi. Se, al contrario, si tratta di differenze di appartenenza ideologica, o di linguaggi usati, è assai più saggio provare a lavorare sulla comunicazione e cercare di unirsi, soprattutto se c’è un chiaro obiettivo condiviso.Occorre abbandonare la paura che unirsi significhi rinunciare a una parte di se stessi, o del proprio gruppo, pensando piuttosto che significhi soprattutto arricchirsi, individualmente e collettivamente di contributi, perché sono proprio le diversità a dare colore, forma e azione ai movimenti di cambiamento che, per loro natura, sono eterogenei. E’ quindi importante che le diversità siano chiare, esplicite, ma che siano ottemperate dal principio e dall’obiettivo comune, al quale va dato il maggior risalto. Chi partecipa ha bisogno di sentirsi accolto, ma anche di avere un’idea chiara su cosa si vuole fare e proporre. Più si mette il cuore e la ragione insieme per unire, maggiori sono le possibilità che l’unirsi vada a buon fine e che le diversità non si trasformino presto in divisioni.In quanto al dividere non c’è altro da mettere in campo, se non il condividere, prassi solidale, ma anche momento di sperimentazione di un progetto costruttivo.
Carlo Bellisai
da Francesca Galati 1 luglio alle ore 18:19·
L’esame di maturità è un evento significativo per ogni studente, ma per Silvia Feltrin è stato particolarmente simbolico. Questa giovane studentessa, iscritta in un istituto scolastico di Torino, non metteva piede in un’aula da tre anni a causa di una grave patologia polmonare.Silvia, con il suo gruppo sanguigno “0 negativo”, attende un trapianto di polmone dal 2017. La pandemia di COVID-19 ha complicato ulteriormente la sua situazione, costringendola a isolarsi per evitare qualsiasi rischio di infezione. La scuola, però, è rimasta la sua ancora di salvezza durante questi anni di attesa e incertezza.Per rispettare le sue necessità di salute, Silvia ha dovuto adattarsi alla Didattica a Distanza (DAD) ben prima dei suoi coetanei. Le lezioni erano al PC, i compiti arrivavano via email e i professori venivano a casa sua indossando mascherine. Nonostante la sua situazione difficile, ha mantenuto il passo con i suoi studi, completando gli Invalsi e le verifiche a distanza.La maturità ha rappresentato per Silvia una sfida e una vittoria. L’alunna ha sostenuto le prove scritte a casa, con un computer fornito dalla scuola e con i membri della commissione presenti. Per lo scritto di italiano ha scelto un tema molto personale: l’attesa.Quando è arrivato il momento dell’esame orale, Silvia ha deciso di farloin presenza. Nonostante le precauzioni necessarie per garantire un ambiente sicuro e ventilato, la scuola ha organizzato tutto per farla sentire a suo agio. Seduta di fronte alla commissione, Silvia ha potuto finalmente sentirsi parte di quella generazione di studenti che stava vivendo il rito di passaggio alla vita adulta.Ora, con la maturità alle spalle, Silvia guarda al futuro con speranza e determinazione. Prevede di iscriversi all’Università di Torino nel corso di Innovazione sociale, comunicazione e nuove tecnologie già da ottobre.La storia di Silvia è un emozionante esempio di resistenza e di voglia di vivere, un monito che sottolinea l’importanza dell’educazione anche nelle circostanze più avverse. La sua maturità è il simbolo di un punto di inizio, non solo di fine, e una testimonianza di come, nonostante tutto, la vita continua.
Cosa racconta lo spot. “Oltre 3.100 vittime su strada, in un anno, è un dato che non possiamo accettare. Eppure, cifre come questa sembrano quasi non fare più effetto. Non è una cosa normale. Perché, alla guida, c’è di mezzo la nostra vita e quella delle persone a noi care”. Questo il concept alla base della campagna. Analizzando i dati Istat sugli incidenti e confrontandoli coi trend dei social network, si percepisce un diverso e pericoloso approccio di fronte al pericolo e alla morte, soprattutto da parte delle nuove generazioni. La campagna estremizza un sentimento banale quanto doloroso, come l’indifferenza rispetto al preoccupante fenomeno. Nello spot si assiste a una scena familiare “normale”, gesti quotidiani: la cena pronta, un dialogo surreale tra madre e figlio, la notizia dell’imminenza dell’incidente mortale, la reazione altrettanto “normale”, in bilico tra assurdo, indifferenza e fatalismo.Ed è proprio l’assurdità dell’indifferenza che lo spot diretto da Carmine Elia vuol rappresentare al grande pubblico. Un linguaggio forte, senza l’utilizzo di immagini violente. Secondo me è fatta male perchè e poco invisiva ed non ( cosa che dovrebbe fare ) provoca turbamento, rabbia, un invito a riflettere. "La vera ricchezza delle persone -afferma il regista Carmine Elia- è il tempo, ma conquistare il tempo non significa correre. Significa guidare con prudenza e consapevolezza. La sicurezza sulle strade è importante perché la vita, ancor prima, è importante".Come uscirne allora o andando oltre il tabu della paura de'ofendere la sensibilità della gente ed essere diretti e crudi come avviene in europa sono questi i messaggi che la gente capisce meglio
oppure anche seza sangue creando negli utenti sensi di colpa come quest'altra
oppure quelle degli altri anni senza sanque ma un po' più incisive rispetto a questa del 2023 voi che ne pesante ?
dal settimanale Oggi 2 h fa
Caterina e Melissa, scambiate nella culla e mai più separate: partecipano una al matrimonio dell’altra
© Oggi/Caterina Mezzapelle |
Ci sono immagini che racchiudono l’essenza, emozioni di tutta una vita riassunte nell’istante di uno scatto. Come la foto di una venticinquenne che cammina verso l’altare affiancata dai suoi “due papà”, con dietro le “due mamme”. Sul sagrato della Cattedrale di Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, Caterina Alagna, per i concittadini «quella scambiata nella culla», sposa il suo Sergio e la celebrazione del matrimonio è anche la rappresentazione della costruzione di un’armonia tra due famiglie diventate quasi una sola. NATE NELLA NOTTE DI CAPODANNO – Caterina Alagna e Melissa Foderà, nate a distanza di 10 minuti la notte del Capodanno del 1998 nell’ospedale cittadino “Abele Ajello”, sono cresciute fino ai tre anni ognuna nella famiglia “sbagliata”. Diventarono protagoniste di un caso di cronaca nazionale quando venne accertato lo scambio. Il primo giorno di asilo, una maestra, in maniera spontanea, accompagnò all’uscita una delle due bambine da quella che le apparve, per somiglianza, la madre. Ed in effetti era la donna che l’aveva concepita. Da quel momento il dubbio assalì Marinella Alagna. «Ricordo che mi scoppiò subito dentro un senso di angoscia incontrollabile perché capii all’istante che quella bimba era mia figlia», raccontò a Oggi quando la storia divenne una fiction Rai di successo e un libro dal titolo Sorelle per sempre.
UNA FICTION RAI - Con coraggio e determinazione, «pure nel dolore che sconvolse le nostre vite», Marinella volle subito conoscere la verità. L’esame del sangue e il test del Dna diedero la certezza. «È stato un periodo difficile. Vivevamo nello stesso Comune ma non ci conoscevamo né ci frequentavamo. Il giorno che vidi Gisella, la mamma che ha concepito Melissa (che io ho cresciuto nella prima infanzia), mi ricordai di averla vista in ospedale, avevamo partorito nello stesso giorno. Con il tempo però la diffidenza iniziale è stata superata, è nata e si è rafforzata una straordinaria armonia. Io e Gisella siamo diventate come sorelle, e lo stesso vale per i nostri mariti, vi è grande stima e affetto tra tutti noi. Caterina e Melissa sono cresciute, assieme alle loro sorelle, in uno splendido clima di amore ed armonia. Siamo riusciti a creare un legame forte, ci vediamo sempre, facciamo tante cose assieme. Il matrimonio di mia figlia l’abbiamo vissuto come un’unica grande famiglia».
DUE PAPA’ - Così ecco Caterina con i due “papà”, che si chiamano entrambi Francesco, seguiti dalle due mamme, Marinella e Gisella, preceduti da tutte le sorelle in veste di damigelle: Melissa e sua sorella Sofia, Perla e Lea (sorelle di Caterina). La sposa, in viaggio di nozze a molta distanza e molti fusi orari dall’Italia, trova il modo di raccontare al telefono, in esclusiva a Oggi, con la stessa efficacia comunicativa e spontaneità della mamma, la sua scelta di andare all’altare “scortata” da due uomini: «Qualche settimana prima della nozze, dopo averne parlato con mamma, ho comunicato a Franco, il padre di Melissa e marito di Gisella, che avrei avuto il piacere che mi accompagnasse all’altare assieme a mio papà Francesco. Non se lo aspettava, si è commosso. Ho voluto entrambi i miei due “papà” e dietro le mie “mamme”. Quindi tutte le mie sorelle come damigelle. Quando sono entrata in chiesa ero molto emozionata, Franco e Francesco mi hanno sostenuta, sentivo il calore del loro affetto. Una sensazione unica». Caterina riferisce un aneddoto che lei trova divertente: «Quando siamo giunti sull’altare davanti al mio sposo, Sergio, i miei due papà, con delicatezza, mi hanno accompagnato verso di lui, e poi con simpatica ironia gli hanno detto: “Mi raccomando”. È come se mi avessero affidato a lui, con affetto enorme e senso della responsabilità. È stato un momento bellissimo». Mamma Marinella Alagna aggiunge: «Noi genitori abbiamo seguito tutte le sue indicazioni, abbiamo fatto tutto come voleva lei. Caterina è la piccola delle mie figlie, ed è stata la prima a sposarsi. Confesso che ci sono stati dei momenti in cui ho ripercorso come in un film tutta la mia vita, dai passaggi più difficili del passato alla costruzione di un rapporto vero tra le nostre famiglie. Fino a questo nuovo inizio».IL BOUQUET ALLA “SORELLA” – Caterina vuole condividere anche un altro momento molto bello avvenuto durante i festeggiamenti nuziali, il ballo con entrambi i papà, contemporaneamente: «Avevo danzato con mio padre Francesco, poi abbiamo ballato tutti e tre assieme. Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto di felicità». E Melissa, la ex compagna d’asilo diventata come un’altra sorella? «Ho fatto in modo che il bouquet giungesse proprio a lei. Poi ci siamo abbracciate in maniera intensa». E aggiunge sorridendo: «È fidanzata da 11 anni ma non ha ancora deciso per il grande passo…».
Salvo Fallica
Maxi multa da 16mila euro e fermo dell’auto dopo che i nonni avevano denunciato il furto, non sapendo che invece l’autore della bravata era il nipote
Aver lavorato oltre che come bidella come cameriera. Francesca non guadagnava abbastanza per poter mantenere una famiglia con due figli, ed è stata costretta a lavorare la sera in un bar per arrotondare il
suo stipendio scolastico. Il tutto pagando fino all’ultimo centesimo di tasse.Solo che non ha avvisato la dirigente scolastica dell’Istituto per cui lavora, ritrovandosi una multa da 2170 euro. Semplicemente, non sapeva di doverlo fare Ma soprattutto una legge ingiusta perché il secondo lavoro non era incontrastato con il primo .
·Un peccato veniale in un Paese in cui 30 milioni a un condannato per mafia è considerato un “fatto privato” e una ministra non si dimette nemmeno di fronte ad un’indagine per falso in bilancio e bancarotta. Perfetto esempio di uno Stato debole coi forti e forte coi deboli.Meno male che un po' di umanità ancora c'è vista Immediata la (meravigliosa) ondata di generosità da parte di tanti che hanno offerto di aiutarla con una colletta. Per quello che vale, aggiungo anch'io , totale solidarietà e vicinanza a Francesca Galati.
Ma in pochi hanno colto l’aspetto davvero sconvolgente: l’idea che in Italia una dipendente pubblica sia costretta a fare due lavori e orari massacranti per poter arrivare a fine mese. E vivere dignitosamente senza delinquete E invece di essere sostenuta, viene pure bastonata. Per questo non basterà una colletta purtroppo
Finalmente i anzi dei * no vax ( ovviamente senza generalizzare in quanto esistono come fra i vax quelli civili ed rispettosi ) trovano pane...