25.6.24

intervista di Emiliano Morrone a Juri Camisasca «autore di vera musica sacra» Il coautore di Franco Battiato

Questa,riportata dall'amico compagno di strada Emiliano morrone per il  quotidiano 
https://www.corrieredellacalabria.it/ il 22\6\2024 ,  è stata    un'intervista difficile. Perché Juri Camisasca, che ha scritto brani meravigliosi,  per Franco Battiato ma  non solo    come dimostra      quest  elenco  preso  dalla pagina    su di lui  di wikipedia 


 è un eremita e tende a non parlare. Con lui abbiamo discusso delle trasformazioni della musica, che oggi, secondo Camisasca, è artificiale, commerciale, sempre identica, vuota. E abbiamo analizzato i segni del presente, allargando il dialogo alla necessità della pace e al senso della vita, che dura pochissimo in rapporto all'eternità. Dalle pendici dell'Etna, l'amico e coautore di Battiato ci ha dato argomenti profondi su cui riflettere. Infatti  in "Altro e altrove"(  foto  di copertina  a  sinistra  )   di  Cristian  Porcino  più precisamente   nel capitolo "La musica muore" che è un brano di Camisasca  si parla      del decadimento  totale (    salvo  poche mosche  bianche  )   della musica  italiana     negli ultimi  20\  25  anni  . 





 A   voi  l'articolo  i questione   .  buona  lettura 

LA LENTE DI EMILIANO
Juri Camisasca «autore di vera musica sacra» Il coautore di Franco Battiato: «Ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio»
Pubblicato il: 22/06/2024 – 10:52
                                         di Emiliano Morrone


Franco Battiato definiva Juri Camisasca «un autore di vera musica sacra». I due hanno condiviso fondamenti, orizzonti e dimensioni: il mistero insondabile della vita, la ricerca interiore, la musica, la pittura, il silenzio. Nel testo di “Nomadi”, fra i brani più belli e identitari di Camisasca, che spesso si ricorda nella versione di Battiato, figurano tracce dello sguardo e della direzione spirituale di entrambi gli artisti, sempre riservati nel loro privato; per esempio, il riferimento al «transito dell’apparente dualità». Per molti anni, Battiato è stato protagonista della musica italiana, che con rara voglia di sperimentare e apertura mentale ha saputo innovare nella lingua, nei ritmi, negli arrangiamenti e più in generale nei concetti. Sia per Battiato che per il suo amico e coautore Camisasca, non si può scindere l’uomo dall’artista né si riescono a disgiungere le idee e sensibilità personali dalla struttura e dai contenuti delle loro canzoni. La musica contemporanea è invece spesso regolata dalle leggi spietate del mercato, finanche prodotta da applicazioni basate su algoritmi costruiti sull’analisi di mode, gusti e tendenze dominanti. La musica dà una misura precisa delle sempre più rapide trasformazioni economiche, politiche, culturali, antropologiche e sociali in atto. Ne parliamo con Camisasca, cui diamo del Tu perché lo conosciamo.

In che epoca viviamo?

«È un caos. Io seguo in maniera trasversale quello che succede nel mondo, ma mi sembra che tutti i grandi propositi di pace e di fratellanza si stiano frantumando. Ci sono guerre che sembrano non finire più e siamo nelle mani di pazzi, praticamente. Il mondo è governato da gente che ha un ego smisurato. Sono soggetti malati, combattono per un pezzo di terra e uccidono le persone come se fossero birilli. È un mondo allucinante, se visto in questo senso. Tu apri il computer – io ne uso uno come mezzo di informazione – e ogni volta leggi notizie raccapriccianti».

Allora è un mondo condizionato dal capitalismo, orientato dall’egoismo, dall’accumulo di beni? Anche la musica si è adeguata e, paradossalmente, non è più impegnata né in grado di parlare all’anima?

«Regna il capitalismo spinto. C’è da dire che ogni musica tende a riflettere il proprio tempo. Negli anni ’70 esistevano gruppi come i Genesis, i Van der Graaf Generator, i Jethro Tull, cioè tutta gente che suonava. Per carità, adesso ci sono ancora, ad esempio, gruppi come gli U2, che sanno il fatto loro. Ma il punto vero è che la tecnologia è diventata dominante e funzionale al mercato. Ci sono app che fanno le canzoni. Se tu dai degli input, queste applicazioni ti scrivono il testo e ti scrivono anche la musica, ti mettono gli accordi e così via. In effetti, quando vado al supermercato o in qualche altra parte, sento brani musicali identici, tutti con lo stesso suono. Non esiste più ricerca musicale e la volgarità è imperante. Il rap è stata la vera rovina. Magari tanti ragazzi che si danno a questo genere non sanno cantare e vanno in crisi, se gli fai intonare una melodia. Se gli togli l’Auto-Tune, intendo dire, diventa un problema. Con questo tipo di sistema, tutti possono cantare. Però diventa un disastro se il software va in tilt, come successo tempo fa. Queste tecnologie stanno rovinando anche il gusto di creare e la creatività in sé».

Juri Camisasca e Franco Battiato

Quanto è importante il canto?

«Cantare è innato nell’uomo, è piacevole. Se canti, è perché stai bene oppure perché hai voglia di stare bene. Una persona che sta male non canta. Se sei triste, il canto ti aiuta anche a trovare un po’ di serenità. Cantare ti consente di esprimere una parte di te che sul piano razionale non puoi manifestare. Il canto è l’elemento di comunione e di comunicazione per eccellenza. Il pensiero e la razionalità dell’uomo hanno dei limiti. Con il canto, invece, generi e trasmetti emozioni all’esterno, quando è fatto in una certa maniera. Molti ragazzi, invece, esprimono soltanto rabbia, quando cantano. C’è molta rabbia nelle musiche dei rapper. È raro, oggigiorno, ascoltare un canto alla Leonard Cohen, che parli all’anima e sia poesia. Ecco, oggi non c’è più poesia e i testi delle canzoni sono spesso di una violenza e di una volgarità indefinibili».

La contemporaneità è segnata dal caos e del rumore. A un certo punto, però, tu hai deciso di sganciarti, di condurre una vita eremitica pur mantenendo la tua presenza artistica.

«La musica e il lavoro di iconografia cui mi dedico sono in realtà di contorno al vero impegno della mia vita, che è la ricerca interiore. Prima di tutto, io sono un uomo di silenzio, un uomo che cerca di dare un senso al proprio esistere, che è un baleno. La nostra vita è un attimo. Che cosa è questo flash che stiamo vivendo? Veniamo da non si sa dove, prima non c’eravamo e poi non ci saremo. Ora, che cosa è questo attimo che noi chiamiamo “esistenza”, che può durare 20, 50, 70, 90, 100 anni, cioè niente in rapporto all’eternità? È questo ciò che mi interessa. Io conduco una ricerca interiore, consapevole che finché si cerca non si trova. Allora si tratta di lasciar decantare tutto un sistema di intellettualismo che ci opprime, affinché sia il silenzio a darci la risposta su ciò che siamo. In effetti, quando si vive una vita di silenzio e di solitudine come la vivo io, ci sono momenti in cui si ha come una sorta di apertura, una specie di conoscenza che è trascendente. Lì ti rendi conto di chi sei realmente e sperimenti un’espressione della vita unica».

Che cosa ne ricavi?

«A me interessa questo. Poi, quale sia il beneficio non importa. Non so perché io abbia compiuto questa scelta; noi veniamo portati in certo modo a delle scelte. Personalmente, non so fino a che punto la mia vita possa essere utile agli altri. Tuttavia, le persone che incontro avvertono, credo, che io vivo in una dimensione diversa».

Quanto è difficile, Juri, seguire la strada del silenzio, in un mondo, in un tempo in cui il rumore sembra camminare insieme al vuoto?

«Per me non è difficile. C’è un motto secondo cui tu devi avere la capacità di mantenere il silenzio e la solitudine anche se vivi in una metropoli, anche se vai in una grande città. Io vivo in solitudine e silenzio alle pendici dell’Etna. È da 30 anni che sono qui da eremita, e prima sono stato per 11 anni in una comunità, in un monastero. Segui un cammino perché hai avuto delle indicazioni, è la vocazione. Io affronto con coraggio questa mia esperienza e sento che la provvidenza mi sta facendo percorrere un cammino. Allora non mi sento mai da solo, ma mi sento in comunione con la vita».

L’emancipazione dall’incubo delle passioni è il tuo punto in comune con Franco Battiato?

«Le passioni si staccano nel momento in cui hai un’esperienza spirituale. Franco ha avuto il suo percorso, io sto facendo il mio. Finché la passione resta un incubo, vuol dire che ancora ti condiziona. Emanciparsi dall’incubo delle passioni è un passo automatico che viene senza sforzo, quando ti dedichi seriamente alla meditazione, alla quiete mentale. Adesso bisognerebbe fare un discorso molto lungo, alla ricerca del sé, di quel sé che non è Dio ma è il sé di Meister Eckhart e di Ramana Maharshi,  
il sé che ti permette di esistere. Mi riferisco al silenzio, tu ci entri in contatto e basta una goccia di questo nettare e la vita diventa un’altra cosa. Quindi per me non è assolutamente difficile condurre una vita silenziosa. Anzi, a volte non capisco come possano gli altri vivere nel caos; certe volte mi chiedo come si faccia a vivere nella confusione, a non prendere le distanze dal rumore e dal disordine».

Quanto ti manca Franco Battiato? Per inciso, oggi si ascoltano indistintamente artisti come Battiato e De Andrè e cantanti di immagine come Achille Lauro e Rosa Chemical. Tutto e tutti sullo stesso piano, insomma, in nome dell’abbondanza delle merci, che poi viene ricompresa nel concetto di democrazia.

«Oggi non si ascolta più la musica, diventata un sottofondo per mangiare la pizza o per fare altro. Di Franco si sentono di solito i brani più commerciali, tipo “Bandiera bianca”. È difficile che si ascolti, per esempio, “L’oceano di silenzio”. Non riesco a quantificarti quanto mi manchi Franco. Eravamo molto in simbiosi e a volte mi sento solo, quando penso a lui. Se avverto il bisogno di parlare con qualcuno, allora Franco mi manca e come, anche se sono immerso in una solitudine mistica. Da un punto di vista artistico, poi, Franco ha lasciato un vuoto incolmabile».

Si ascolta soltanto se stessi, dunque?

«Non c’è più educazione all’ascolto, questo è il tema. L’educazione all’ascolto diventa, poi, anche educazione all’ascolto della musica. Nel presente la musica è perlopiù un sottofondo che si sente nei bar, nei supermercati e così via. Chi si mette ad ascoltare un corale di Bach? La gente non ha tempo; ormai c’è una frenesia totalizzante, perciò bisogna rallentare».

Fretta, rumore e confusione. Di contro, vita eremitica e ricerca del sé. Ma come si fa a tenere i rapporti con il mondo, a intervenire per cambiarlo, migliorarlo?

«Come potrei essere utile, con la mia vita, a questo mondo? Che segnali mando agli altri, io che vivo qui nella solitudine? Io vivo nella solitudine ma sento tutto il peso del mondo, e questo gli altri non lo sanno. Che cosa stanno facendo quelli che vivono insieme e conducono battaglie? Spesso, purtroppo, si fanno male tra di loro. Qual è la loro utilità? Dalle loro battaglie che cosa ricavano? C’è un detto di Evagrio Pontico secondo cui l’eremita è colui che vive separato da tutti ma è unito con tutti. Io sento il dramma del mondo e credo che questo sentire il dramma dell’umanità, in un certo qual modo, è come se mi portasse a neutralizzarlo in un’altra maniera, come se fossi una carta assorbente».

Cioè?

«Ci sono persone che si impegnano nella creazione del male e mettono disordine. Ci sono persone, invece, che, conducendo una vita tranquilla, cercano di equilibrare quel disordine. Noi a volte diamo forse un po’ tutto per scontato, a partire dai nostri gesti quotidiani. Ma c’è un universo che si esprime in molteplici facce. La vita è sempre un mistero, come lo è il problema delle guerre. C’è un passo biblico, di Isaia, in cui il Signore afferma di portare la pace e di scatenare anche la guerra. Secondo Gurdjieff, di cui conosci la filosofia, siamo come delle macchine. Allora il male nel mondo emerge perché, evidentemente, ci sono delle forze, delle entità che governano chi gestisce il potere. Perciò, siccome stiamo nel mistero, io vivo il mistero di questa esistenza sulle tracce che essa ha segnato per me. Ora, io non so in che maniera posso essere utile; penso che la mia vita possa essere anche inutile, ma sono anche a contatto con delle persone. Non ho la popolarità di Vasco Rossi ma, un po’ come santa Teresina del Bambino Gesù, sono una piccola fiammella che magari cerca di accenderne un’altra e così via».

Che cosa intendevi dire, nel tuo brano “Il sole nella pioggia”, cantato anche da Alice, con l’espressione «quelli che sanno le cose non parlano»?

«Il mistero della vita è talmente grande che tu, da un punto di vista razionale, non lo puoi esprimere mai. Non ci riesci perché non hai strumenti, non hai il vocabolario, ti manca la parola per dire ciò che effettivamente senti e vivi. La vita è un mistero insondabile. E la nostra Terra è un granellino di sabbia in una distesa sterminata di pianeti. Allora l’unica salvezza è meditare, ma senza arrivare a conclusioni filosofiche. Con la filosofia ci si può ingarbugliare; con la meditazione riusciamo a ottenere una mente tranquilla, serena, libera, capace di meravigliarsi della natura, dell’altro, dell’attimo. Ecco il senso della poesia, della vita, che dobbiamo recuperare. Lo scienziato vede una pesca e la analizza chimicamente. Il mistico, invece, la prende, la mangia e la gusta».

Qual è la tua speranza per il futuro comune?

«La mia speranza è legata a un pensiero, espresso in modi diversi da san Paolo, Sri Aurobindo e Pierre Teilhard de Chardin, che poi ho inserito nel brano “Il sole nella pioggia”. Mi riferisco alla frase «l’universo geme nelle doglie del parto». Ora, riguardo a questo universo, chiamiamolo Terra per semplificare, possiamo leggere un’evoluzione in atto, che include anche la guerra. Può darsi, cioè, che i fatti tragici stiano accadendo perché devono essere parte di una trasformazione profonda. La mia speranza è, dunque, che ci sia un mondo di pace. A volte, però, ho veramente la sensazione che il nostro pianeta sia una specie di esilio, un purgatorio. E non ho le risposte, ma mi sento come una formica che vive in questo mondo. Attenzione, per me si tratta di una condizione di crescita, ma mi cadono le braccia quando accendo il computer e vedo guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto».

Guerre, rumore, caos, rabbia e vuoto che entrano nella musica?

«Certo. Tu prendi Sanremo, che io non guardo più da almeno 20 anni. Apri il computer e trovi subito le notizie del Festival, poi vai su YouTube e ascolti i brani, che con la musica non c’entrano più niente. Lì fai successo se crei scandalo con la tua immagine, se produci audience. La canzone è invece un orpello». (redazione@corrierecal.it)


24.6.24

DIARIO DI BORDO n 57 ANNO II La prepotenza normalizzata alla base dei femminicidi non solo patriarcato e Perché ci interessa l’opinione del carnefice?



per la rubrica diario settimanale proviamo ad analizzare con due articoli le radici culturali \ antropologiche dellla violenza di genere \ femmnicidio .
Il  primo    è   un articolo   Viviana Daloiso su il quotidiano www.avvenire.it   di quasi  un anno  fa  ma    sempre  valido ,   opposto  certamente   alla  miia  formazione  culturale  ,  ma    con molti  punti  in comune ecco  la risposta  a chi  ancora mi  chiede   del nome  dei  due  blog    compagnidiviaggio e    compagnidistrada   )  in quanto   le radici    \  origini  del  fenomeno femminicidio  non è  solo  (è  vero  , ma   è tropo riduttivo per definire  un  fenomeno cosi  radicato  e  variegato  )  patriarcato  .  Il secondo     della newsletters    Heavy Meta di Lorenzo Fantonik    ed  analizza  e  qui  mi ricollego agli  articoli  sull'orribile   morte   ennessima  vittima  del  caporalato ,    Satnam Singh  condivisi  sia   sul mio  fb   sia questo   : <<   Fragole  ( e non solo )  rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia da  https://www.thesocialpost.it/  >>   sul blog e  questi miei  ultimi due   post sul  femminicidio     : <<   a  che  punto  è la  morbosità  sui  femminicidi . basta  parlare  di filippo  turretta  e  giulia  cecchetin  .   lasciamo in pace la  famiglia   e  Cagliari ennesima donna morta di prepotenza maschile e domestica) 
>> per rimanere in tema femminicidio


                              La prepotenza normalizzata  

  Il bimbo – ha 8 anni appena compiuti, è di buona famiglia – torna dai tappeti elastici sulla spiaggia della Romagna felice di aver giocato coi grandi di 10 o 11. Ripete di aver imparato che bitch[*] vuol dire donna in inglese e si arrabbia quando la mamma scuote la testa, «sono stupidate. Non dirla mai più». Ma la parola resta, gira nelle canzoni, torna nei discorsi davanti al cellulare, nelle chat, nei nomignoli delle prime piccole compagnie, bro e bitch, “fratello” per i maschietti e “prostituta” per le femminucce. Dove comincia, e come si forma, l’idea che gli uomini hanno delle donne oggi ? 
Lo sappiamo? Ce lo siamo davvero mai chiesti, in anni di femminicidi, e di stupri, violenze, abusi? Dei danni gravissimi che la disparità di genere – diminuita certo, ma mai annullata – stava compiendo nel nostro Paese, esperti e associazioni e operatori impegnati sul campo a curarne le ferite (per lo più donne, ovviamente) parlano da anni. Inascoltati. Più spesso, trattati come pasdaran, talebani del femminismo, esagitati accecati dall’ideologia anti-patriarcale. Vengono in mente certe accuse di esagerazione e certi dibattiti surreali innescati dalle “palpate” andate in onda persino in diretta tv, per poi essere sminuite nei tribunali: « Non c’è niente di male, suvvia». Perché tra la palpata e lo stupro, s’è sentito dire, c’è differenza. La cruda verità invece è che quel che accaduto a Palermo quest’estate non è un fatto nuovo, non dovrebbe sconvolgerci. Così come non dovrebbe sconvolgerci che in queste ore, sui social, dove è scattata l’indegna caccia al video delle sevizie subite da una ragazzina di 19 anni da parte di un branco di coetanei, compaiano i messaggi insopportabili degli stessi autori di quella violenza: «Quando tutta Italia ti incolpa per un fatto privato, ma nessuno sa che sei stato trascinato dai tuoi amici» (faccina che ride di contorno).
Roba mia, lo stupro. Roba mia, una donna. E «non ho fatto nulla di male», «sono stati i miei amici a dirmi che lei ci stava». I miei fratelli, appunto, e là fuori le prostitute, o le donne, che è lo stesso. Oggetti inanimati da manipolare e usare, palpare, abusare, calpestare. Quando non vanno bene o si ribellano, da minacciare, picchiare, uccidere. Anche questo, è lo stesso.
Se il dato drammatico con cui dobbiamo fare i conti è la “normalizzazione” della violenza sulle donne – questa concezione maschile generalizzata e ancora diffusa tra le nuove generazioni che le riduce a cose e come cose le usa e getta – si deve tornare alla domanda iniziale: sappiamo quando Angelo, Gabriele, Cristian, Elio (sono i nomi di alcuni fra questi stupratori, valgono per tutti gli altri, da Primavalle in giù) hanno iniziato a pensare che una ragazza, una donna, se la fai bere, te la puoi portare nel pertugio d’un cantiere e seviziarla in ogni modo, per ore, senza pensare di far nulla di male? Sappiamo come è cresciuta in loro quest’idea? Cosa l’ha nutrita? La sensazione è che no, non lo sappiamo. Perché per troppo tempo non ce lo siamo domandati. Abbiamo lasciato correre, sull’educazione alla parità di genere, pensando che sia un fatto di statistiche se le donne non ricoprono incarichi di potere, se sono escluse da certi percorsi di studio o di lavoro, se si fanno carico quasi del tutto degli oneri familiari e di quelli di cura parentale, se sono pagate sistematicamente meno dei loro colleghi uomini. Abbiamo chiuso un occhio sulle pubblicità, e l’immagine del sesso femminile veicolata dai media e dalla tv, per non essere tacciati di moralismo negli anni della rivoluzione dei costumi. Ci siamo ripetuti che non c’è niente di male, se nei testi della musica trap che i nostri figli divorano si parla di droga, di stupri, di violenze, perché sono solo canzoni, e in fondo anche noi le ascoltavamo quando avevamo la loro età.
Da cosa è nata cosa. In seno alla disparità nel corso degli anni è cresciuto prima il senso di superiorità, poi il disprezzo, infine la violenza e l’odio, col senso di impunità. Le statistiche sono diventate carne, figlie e madri e sorelle stuprate, picchiate, uccise. Volti e vite spente per sempre, come quella di questa ragazza di Palermo, che con la vergogna di una violenza indicibile dovrà convivere per sempre. Ora – giustamente – invochiamo in ogni dove percorsi di formazione nelle scuole per invertire la tendenza e rimettere nei nostri figli la luce del rispetto delle donne, come se ad ogni angolo di strada ci fossero educatori e docenti pronti con la bacchetta magica a scambiare due ore di geografia con due di educazione alla parità dei diritti. E come se due ore, o quattro, bastassero.Nell’Italia in cui cresceranno, però, quella parità, pur con tanti progressi, non è ancora raggiunta. Il cambiamento culturale che faticosamente cerchiamo e che è pur cominciato deve essere costruito prima (prima che nelle scuole e prima degli stupri e dei femminicidi) e altrove. Non deve essere più, mai più – da adesso, a ogni livello, in ogni casa, ufficio, tribunale, circolo, palestra – normale che una donna valga di meno. Se provassimo, ciascuno per la sua parte e per il suo ruolo nella società, a ricominciare da qui?




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Perché ci interessa l’opinione del carnefice?



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Perché ci interessa l’opinione del carnefice?

Ogni atto violento o gesto aberrante porta con sé la voglia di far parlare chi lo ha commesso, a volte è informazione, a volte è solo intrattenimento.

In queste ore è stato pubblicato il Digital News Report di Reuters, uno strumento importante per capire come cambia il mondo dell’informazione in tutto il mondo, perché fornisce dati sulle tendenze globali e indicazioni su quelle nazionali. E se in tutto il mondo è evidente lo spostamento dell’informazione verso piattaforme sempre più disintermediate dove la possibilità di mostrare ciò che non viene visto in televisione o sui giornali convive con la paura delle fake news e delle IA che intorbidiscono le acque, in Italia si nota un crollo abbastanza netto dell’importanza del medium televisivo. La TV era la principale fonte d’informazione per l’85% del campione nel 2017 mentre oggi lo è per il 65%, con la maggior parte dei più giovani che oggi preferiscono informarsi su YouTube, TikTok e addirittura social chiusi come i gruppi di Whatsapp e Telegram.E interessante anche notare che la TV ha una raccolta pubblicitaria che è il 29% del totale, mentre il 58% spetta alla pubblicità online, e che di questa cifra l’85% finisce in tasca a Google e Meta e solo il resto va a gli editori. Quindi si spende tanto in pubblicità online, ma quei soldi poi non alimentano il sistema dell’informazione, ma solo chi col tempo ci ha costretto al ricatto della SEO e degli algoritmi.Che poi è il principale motivo per cui nel passaggio dal giornalismo tradizionale a quello online il settore è colato a picco e oggi è praticamente impossibile campare con la professione: il sistema economico che prima garantiva sussistenza è oggi completamente in mano alle piattaforme.Ed è anche lo stesso motivo per cui magari chi vuole fare informazione a qualsiasi livello, che si parli di attualità, giornalismo tech, notizie di cinema o analisi di moto, forse preferisce farlo cercando di diventare un content creator in quella nicchia (con tutti i pro e contro del caso nei rapporti con le aziende), scartando fin da subito l’idea di provare a entrare in una redazione.Se le percentuali di riuscita sono altrettanto basse, forse meglio provare a diventare Breaking Italy e non l’ennesimo tizio che può essere sostituito o fare la fine della redazione di Hollywood Reporter Roma, che è al terzo sciopero.Ah e se pensate che gli abbonamenti siano la soluzione… beh non è detto. Forse, se il progetto è piccolo e può contare su uno zoccolo duro di appassionati, forse.

Le passioni del caporale

La morte di Satnam Singh nell’Agro Pontino è il classico caso che scoperchia temporaneamente una situazione che la maggior parte delle persone che non vivono la realtà locale ignora, fa finta di ignorare o ritiene accettabile. Moltissime sono le analisi che in queste ore ci mostrano quella è che a tutti gli effetti una realtà di schiavismo, sfruttamento, totale mancanza di rispetto per la vita umana, razzismo e il risultato del capitalismo a ribasso di cui, ci piaccia o meno, siamo in qualche modo complici.A me interessa invece capire alcune scelte fatte nel raccontare questa storia, che sono scelte che hanno molto in comune con un altro momento in cui c’è spesso disparità di trattamento tra vittima e carnefice, una disparità che è culturale ma anche narrativa. Anche perché il problema delle vittime è che non parlano più, debbono farlo gli altri. E spesso a farlo è chi le ha uccise.La ricostruzione della morte di Singh mi ha ricordato il consueto teatrino dei femminicidi, in cui una delle prime cose che si fanno è cercare di ricostruire le ragioni dell’assassino, il contesto in cui si è mosso il gesto violento, che è quasi sempre trattato con eccezionalità e non come il frutto di una realtà sistemica, reiterata, protetta, nascosta e giustificata.Una “leggerezza” come l’ha definita il padre del padrone dell’azienda in una intervista ormai diventata parte del terribile quadro in cui si muove il processo mentale di prendere un tizio col braccio mozzato, togliere i telefoni a chiunque fosse presente, scaricarlo a casa, lasciare il braccio vicino a un cassonetto e scappare.E in tutto questo mi cade l’occhio su un articolo di Repubblica Roma che titola “Le due passioni di Antonello Lovato, il proprietario della ditta per cui lavorava il bracciante morto” Ma sul serio?Abbiamo nome e cognome del padrone della ditta e poi “il bracciante morto”?Mi secca ripetermi ma per l’ennesima volta questo è perfetto caso di framing, ovvero di come la notizia viene incorniciata, con nomi e cognomi da una parte e generici braccianti morti dall’altra. Morto, come se l’omissione di soccorso fosse un dettaglio.

Framing, come ti incornicio la notizia

L’articolo adesso non si trova più, o meglio, se ne trovano i resti, ma poi dev’essere stato modificato con una impostazione più generica per dare un profilo del personaggio. Quello su cui mi interessava riflettere era il perché si arrivi sempre a questo punto: lo storytelling dei carnefici o presunti tali, la profilazione che si fa narrazione, il dettaglio delle loro passioni, dei loro interessi, delle loro vite apparentemente comuni e poi magari del fatto che hanno pianto in tribunale, che si disperano, che mangiano.Da una parte potrebbe anche essere utile e necessario per mostrarci che l’abiezione spesso non ha il volto del cattivo del cinema, non c’è un tizio che ride sguaiatamente vestito come il joker, ma uomini normali, banali, semplici, ritenuti magari amici tranquilli e padri amorevoli, ma capaci di applicare logiche schiaviste o accoltellare l’ex moglie. Purtroppo, però questo scatto non arriva mai. C’è sempre il raptus di follia, il momento eccezionale, quandi invece è tutto molo banale.Sicuramente c’è l’antico gusto di sbattere il mostro in prima pagine, il nostro bisogno di vedere in faccia questa gente e sperare che non sia come noi, per assolverci, confortarci o per cercare i motivi eccezionali di una tragedia. Un po’ di gogna pubblica ci sta, ci piace e nel giornalismo contemporaneo abbiamo gli strumenti seo che ci indicano quanto il colpevole sia cercato su Google. Il che rendo un articolo su suo profilo un gesto economicamente sensato.In fondo è giornalismo no? Se qualcuno vuole saperlo io glielo devo dire (peccato che non sia vero e che in alcuni casi le identità delle persone indagate vadano protette, ma qua pare fantascienza).Ma perché il taglio dev’essere quello in cui mi racconti “le sue passioni”? Io non lo so, vi giuro, non lo capisco, non capisco mai se dietro queste scelte c’è un tentativo di normalizzare il tutto, se il nostro disprezzo per minoranze e diversi sia tale per cui ci interessa solo la persona coinvolta che più ci somiglia o cosa, se è leggerezza, calcolo, fretta.

23.6.24

Fragole ( e non solo ) rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia da https://www.thesocialpost.it/




Fragole rosso sangue, l’Italia è fondata sull’ipocrisia Giovanni Pizzo
Idee
Pubblicato: 23/06/2024 10:50


Incredibile. Scopriamo oggi che le fragole, con quel colore rosso intenso che ci fa venire l’acquolina in bocca, sono in realtà dipinte dal sangue. Come i San Marzano a Nocera, la frutta a Rosarno, il radicchio nei campi a Treviso, i datterini a Pachino, dove gli schiavi, perché nuovi schiavi sono, li vedi in piazza a fine giornata, ma poi qualcuno scompare senza lasciare traccia della propria esistenza in questo Bel Paese.
Lavorano in schiavitù da decenni, perché di schiavitù si tratta, e noi che facciamo? Nulla. Ci mangiamo la pesca dell’Esselunga, commuovendoci con lacrime di coccodrillo allo spot della bambina con la madre separata, mentre l’Italia ha ormai divorziato dalla verità, dalla legittimità, dalla liceità.
Ma poi facciamo di peggio, facciamo leggi che nessuno rispetta perché allo Stato non interessa farle rispettare. La legge sul caporalato prevede addirittura la confisca dell’azienda, come nel 416 bis, qualcuno si è spaventato di tutto ciò? No, perché sanno che è una delle tante foglie di fico di un Paese bello che vive di brutte cose, l’importante è che la verdura, sempre più cara per gli intermediari commerciali, non certo per la remunerazione delle aziende agricole e soprattutto di chi ci lavora, sia in tavola, la frutta nella terrina, magari a marcire, come i campi riarsi dalla siccità che il sangue dei morti non può alleviare.
L’ipocrisia maggiore è quella dei contratti collettivi di lavoro: si rifiutano le gabbie salariali, la decontribuzione, perché tanto poi c’è il lavoro nero, irregolare, la schiavitù come ai tempi dei Faraoni. Poi ci sono le truffe, l’olio extravergine italiano non può per i reali costi della produzione andare sotto i dieci euro al frantoio; se lo troviamo a meno, molto meno al supermercato, è una truffa, non è italiano, anche se venduto per tale, e forse non è neanche olio, certamente non vergine, ma meretrice.
Ma intanto il Bel Paese va avanti, ammazza di lavoro nei campi in nero, come il colore delle loro carni sotto i 40 gradi, orde di lavoratori/schiavi, a cui si sequestra il passaporto, a chi ce l’ha, perché gli italiani questi lavori non li fanno più da 50 anni. Ma noi gridiamo allo straniero, nero, che ci toglie il lavoro, che non deve venire, con quei barconi fatiscenti, che spaventano i turisti, quando poi sguatteri, camerieri, cuochi pagati da lavapiatti sono sempre loro.
Rispetto ai dati dei vari governi si è già capito che per mantenere i livelli attuali di vita dei vecchi italiani ne servirebbero il triplo di stranieri, li dovremmo andare a prendere, non respingerli. Ma poi agli italiani che gli diciamo? Un po’ di ipocrisia ovviamente. Ne abbiamo più del petrolio, è la risorsa primaria nazionale e, soprattutto, non costa nulla. A parte la morte di un uomo senza un braccio, che muore dissanguato, buttato nella discarica del nostro quieto vivere.

22.6.24

a che punto è la morbosità sui femminicidi . basta parlare di filippo turretta e giulia cecchetin . lasciamo in pace la famiglia

 stamattina mentre facevo il mio turno nella bottega cittadina ( associazione nord sud del commercio equo e solidale, tra un  cliente e l'altro  , leggo che ancora  , non si sa come allungare il brodo , si continua  senza aggiungere niente di nuovo  a parlare della vicenda  di Giulia Cecchetin  e del suo carnefice e  assasino Filippo Turretta . si tratta della trasmissione  televisiva Quarto  grado  e   dell' agenzia di stampa Agi  ed  a seguire    tutti  gli altri   media  regionali  e  nazionali   . 

Essi stanno   ad  un anno  di  distanza   continuando   , senza  aggiungere niente     di  nuovo    a  parlare  del femminicidio di  Giulia   Cecchetin e dei  particolari  su  come  esso  sia  stato compiuto  .  Pur  d'avere  il  primo  un  ulteriore  numero    di  lettori  , il secondo  un aumento degli spettatori  sono arrivati  a riportare  le foto della fuga di Turetta e il verbale dell'interrogatorio .  Capisco    se  l'avessero  fattto quando  la  vicenda   era  appena  all'inizio   ,   ma   ......  adesso    che  è passato   quasi  un anno ,    riportare  tali  cose  mi sembra   inutile  e mi  sa  tanto  di  morbosità ed  sciacallaggio  mediatico  ,  in  quanto    non  aggiunge niente  di  nuovo   a   quanto  già  si   sà  del  fatto  .   Quindi  Basta  lasciamo in pace  la  famiglia  . Ormai  lo sanno   anche  🙉🐵🙈 cioè  gli  indifferenti  ( e  i  puli  cosicienza   )  a  tali tematiche  che  il  gesto  di  Filippo  Turetta  era  premeditato  , almeno  da quel  che  è   emerso fin ora  . Quindi facciamo  un po'  di silenzio  almeno  fino  al processo   in cui  ,  anche  se   ne  dubito  ,  usciranno delle  novità   . Evitiamo  di parlane  . Con questo    non vuol  dire  , e lo  dice  uno che  è :1)   cotro ogni forma d censura  ., 2)  per la libertà  a 360°  d'informazione  3)  per  l'articolo   21  della costituzione  

21.6.24

Cagliari ennesima donna morta di prepotenza maschile e domestica

  Ignazia Tumatis, 59 anni, di Cagliari, ieri sera l'ha fatta grossa.È andata a vedere la partita, fuori casa, è rientrata tardi, cose che, lo capite anche voi, non si fanno, e addirittura, una volta rientrata a casa avrebbe riso in faccia al marito Luciano Hellies, che l'avrebbe prontamente fatta fuori con dieci coltellate, avvisando poi le figlie " ho ammazzato la mamma". Quest'ultimo femminicidio , come gli altri d'altronde,mi sconquassa dentro . L'ennesimo femminicidio a Cagliari racconta il solito, triste mondo, fatto di divieti, di controllo ostinato, di uomini che chiudono le loro compagne in recinti fatti di stereotipi e pregiudizi, e che esercitano violenza con una leggerezza che ti lascia questo vuoto assoluto.
Un abisso in cui << precipitiamo in tante e da cui liberarsi è pressoché impossibile.>> ( Patrizia Caddau )



Infatti come  

Patrizia Cadau 7h


Non sapevo bene come definire meglio il brutale femminicidio di Cagliari .Per fortuna mi è venuto incontro un commentatore tipo degli articoli sui giornali. Gli ho chiesto il permesso di poter condividere la sua riflessione sull'ennesima donna morta di prepotenza maschile e domestica per argomentare la genesi della violenza, i pregiudizi che la determinano. Mi ha detto che era un commento pubblico e che potevo condividerlo.Grazie, Andrea: meglio di così, il patriarcato, non poteva essere detto.



finalmente una Mamma denuncia il figlio per aver violentato una ragazza, la scoperta grazie a delle macchie antiaggressione sui vestiti

 www.leggo.it   4 ora/e •



Il giovane di 29 anni accusato di aver violentato una ragazza di 18 anni tra l'8 e il 9 giugno scorsi a Pordenone, è stato arrestato grazie a una prova fondamentale fornita ai Carabinieri da sua madre. Come riporta il Gazzettino, il giovane è tornato nella notte a casa, si è spogliato e ha messo gli abiti a lavare.
Cosa è successo
La donna poi ha notato ampie macchie di colore fucsia sui vestiti che non riusciva a pulire. Diffuse le notizie della violenza, la donna ha messo in relazione ora e macchie, e ha capito che erano state causate da uno spray anti aggressione, e ha denunciato il figlio. Questi aveva già preso contatti per fuggire in Spagna.

20.6.24

Cristina Fogazzi, in arte L’estetista Cinica e la lotta di classe contro chi ostenta Puzzo di povero” L’imprenditrice si difende accusando di discriminazione i follower che hanno cominciato a criticarla

  Generalmente  gli articoli  di   Selvaggia  Lucarelli   non li  digerisco  ma  qui  ha  ragione   e  conferma   quando  ho  riportato  in :   Estetista cinica, bufera sul mega party a Brera fra libri antichi e opere d’arteMusica da discoteca e abbuffate negli spazi dove agli studenti non è concesso nemmeno bere acqua. E lei si giustifica: «Non mi pare sia un museo così visitato, le mie influencer una vetrina per l’estero» .  e   il commento lasciatomi su  fb   



Una scelta a dir poco inaudita. Con 80000 euro vai nella miglior discoteca del luogo al massimo. Ciò che stupisce è che era compresa l'assicurazione in caso di danni causati dagli ospiti. Inoltre lo stesso spazio è stato più volte richiesto da varie associazioni culturali a cui è stato prontamente negato. Chissà se gli ospiti hanno mai letto un libro



  • Il Fatto Quotidiano
  • » Selvaggia Lucarelli


  • Cristina Fogazzi, in arte Estetista Cinica, è l’imprenditrice travolta dalle critiche perché per celebrare un anno di “ Overskin” ” il brand make-up della sua azienda Veralab, ha affittato la Pinacoteca di Brera e la Biblioteca Braidense sborsando 95.000 euro. L’aspetto più interessante della vicenda è l’ondata di proteste e indignazione che ha travolto Cristina Fogazzi e quello che l’accaduto racconta, perché è molto di più di un semplice “inciampo reputazionale” che travolge Veralab (l’azienda si riprenderà, non è certo la sua fine). È il sintomo acuto di un cambiamento in atto nel mondo degli influencer provocato dallo scandalo Pandoro e un sintomo che si traduce in una insofferenza sempre più manifesta nei confronti dell’esibizione del privilegio 2.0 in tutte le sue sfumature. Gli influencer più l un g i mi ra nt i hanno intercettato la rivoluzione in divenire e il rischio che oggi si corre nel riproporre sui social il modello Ferragnez (ostentazione del lusso, sovraesposizione dei minori), altri non sanno decodificare il cambiamento e persistono nello sfoggio di regali, acquisti, status.
    L’ESTETISTA CINICA, un’imprenditrice di talento che ha fondato la sua fortuna sulla lungimiranza nel comprendere le potenzialità dell’e-commerce e sulle sue doti comunicative arrivando a fatturare 70 milioni di euro, è inciampata più volte, negli ultimi tempi, sul mostro che lei stessa ha creato. Il mostro è un brand (Veralab) che è pericolosamente vicino al personal brand (Estetista Cinica/cristina Fogazzi), visto che tutti identificano le sue creme e i suoi prodotti con la sua persona. Fogazzi ha iniziato la sua scalata nell’imprenditoria puntando sulla genuinità, sulla narrazione della piccola estetista di provincia che grazie all’intuito e al lavoro è riuscita a fondare un impero. Negli anni la sua comunicazione da “familiare” è diventata sempre più simile a quella dell’influencer e imprenditrice che ce l’ha fatta, diventando uno strano ibrido: da una parte c’è lei che continua a giocarsi la carta della donna semplice che mostra pancia e cellulite, che si punta il telefono sul viso e lancia anatemi con l’accento bresciano contro chiunque la critichi (“non ce la faccio a stare zitta”), dall’altra l’imprenditrice che inizia a comprarsi tutti gli spazi e gli influencer possibili per adv (Chiara Ferragni compresa), al fine di dimostrare che Veralab sia una potenza sul mercato.
    Piano piano, il suo stesso marchio ha iniziato a diventare una specie di influencer che si imbuca ovunque, una sorta di proiezione del suo slancio di onnipotenza con tutte le criticità del caso: Veralab ha il suo carro brandizzato al Pride (perché come i Ferragnez insegnano i diritti civili fanno posizionamento), Veralab conquista l’albero di Natale in piazza Duomo a Milano, Veralab va al Festival di Venezia, Veralab è sponsor di Sanremo (con delle agghiaccianti installazioni tipo trenini e persone travestite da spumoni detergenti), il tutto con Cristina Fogazzi in prima linea a raccontare sui social la sua emozione: l’emozione dei soldi che comprano spazi commerciali e che sono pure una chiara estensione del suo ego.
    Non a caso Fogazzi vive la presenza del suo marchio a questi eventi scintillanti come fosse una vetrina per se stessa e i suoi amici influenc er (avvocate, influencer, consiglieri comunali che poi si porta anche in barca e in vacanza). Nel tempo, l’esibizione di quella che molti definiscono “cricca dell’estetista” ha iniziato a innervosire i vecchi, affezionati follower. Anche la scelta di alcune i nfluencer quali Paola Turani per promuovere i prodotti Veralab ha provocato non poca insofferenza. Turani è nota per l’ostentazione continua di regali, beni di lusso e per i famosi “home tour” della sua villa. Ultimamente ha postato un contestassimo video in cui apre un pacco contenente una borsa Gucci del valore di 3.000 euro dicendo che l’aveva comprata un mese prima ma l’aveva dimenticata nell’armadio. Un tempo questi contenuti generavano un engagement positivo, dopo la caduta dei Ferragnez l’esibizione volgare del privilegio provoca orde di commenti risentiti e critici. Cristina Fogazzi si è difesa dalle accuse affermando che lei ha pagato l’affitto della biblioteca come tante altre aziende, che promuove la cultura, che le persone ce l’ hanno con lei perché sono classiste e lei “puzza di povero”. Non ha compreso, dunque, quanto la società viva di correzioni e aggiustamenti e quanto un’influencer che è anche una imprenditrice debba riuscire a captarli per adeguare la sua comunicazione ai cambiamenti in atto. Il tempo dello sfoggio vanaglorioso 2.0 di ciò che si può comprare con i soldi è finito. Inutile poi fare vittimismo perché non viene trattata come un’azienda, ma venga identificata come “Cristina Fogazzi ex povera” perché questa identificazione l’ha creata lei, decidendo di essere influencer prima ancora che imprenditrice. Fogazzi, negli anni, ha espresso le sue simpatie per Calenda, ha accusato Elly Schlein di determinare la morte del Pd, ha rilasciato interviste dando lezioni di etica e giornalismo, ha scelto con cura le cause su cui spendersi facendo ben attenzione a escludere quelle che potevano intaccare il suo business (Ucraina sì, Gaza no). COME  I FERRAGNEZ hanno usato la beneficenza per posizionarsi e per superare il complesso dell’avidità, lei ha usato l’arte (biblioteca compresa) per tentare di posizionarsi e superare il complesso di essere “un’estetista”. Ha una tenace insofferenza per il dissenso, tanto che ha l’abitudine di contattare spesso in privato chiunque la critichi, che siano giornalisti o persone comuni. Tenta non di rado di inglobarli nella sua sfera di influenza.Molti definiscono Fogazzi “una che si muove come Berlusconi” perché appena individua un nemico prova a portarlo dalla sua parte, a offrirgli lavoro, amicizia, inviti, collaborazioni. E, se i Ferragnez dopo un inciampo pubblico utilizzavano i bambini in qualità di “scudo reputazionale”, lei usa spesso e allo stesso modo i suoi dipendenti dicendo che sì magari ha sbagliato, ma “ho decine di dipendenti a cui do da mangiare”. Ed è buffo che accusi i suoi detrattori di classismo quando spesso usa un’espressione così classista per definire coloro che rappresentano la sua forza lavoro e che danno da mangiare a lei, la quale banchetta seduta davanti a tavole ben più ricche di quelle dei suoi lavoratori. Insomma Fogazzi, così attenta alla data di scadenza delle sue creme, dovrebbe capire che anche la sua modalità di comunicazione aveva una data di scadenza. E ha continuato a usarla, senza accorgersi che è arrivata l’ora di sostituirla.

    diario di bordo n anno III i no vax raccolgono quello che hanno seminato , caso Ramy Elgam gli abusi e la mancanza di rispetto del potere ,acca larentia uso distorto e strumentale del ricordo

    Finalmente i anzi dei * no vax ( ovviamente senza generalizzare in quanto esistono come fra i vax quelli civili ed rispettosi ) trovano pane...