da www. unionesarda.it
Fondatore del Movimento Omosessuale Sardo nel 1992, presidente in attesa che in autunno l’assemblea generale lo rimpiazzi, Massimo Mele è l’osservatore più consapevole di come è cambiato in questi 32 anni lo sguardo su tutto ciò che non è etero-binario-patriarcal-prevedibile in Sardegna. Il momento per chiedergli un’analisi è il dopo-Pride, mentre a Cagliari echeggia il successo allegro e sgargiante della parata Arcobaleno di sabato.«In realtà “Sardegna” è un concetto ampio, hai differenze enormi tra zona e zona. Ovviamente ci sono centri che hanno recepito di più l’influenza dell’associazionismo: Cagliari, Sassari, Alghero, in genere le zone turistiche più importanti, ma anche quelle che sono entrate nel percorso del Mos e di altre associazioni».All’interno è più dura?
«Dipende, ci sono realtà importanti in centri che magari non ti aspetti. Ittiri ha fatto un percorso enorme, ora organizzano loro le iniziative per il 17 maggio, la giornata mondiale contro l’omolesbobitransfobia. E ci chiamano da Siniscola, da Orani, al Comune di Nuoro, che lo ha fortemente voluto, c’è lo sportello del nostro centro contro le discriminazioni. In genere l’atteggiamento è molto cambiato rispetto al ’92, quando non si parlava di omosessualità da nessuna parte, non esistevano i social, i pc cominciavano ad affacciarsi e c’era molta più ignoranza, o comunque mancava l’abitudine a confrontarsi col tema».
Era più roba da minoranze esotiche e nascoste?
«Più che altro si faceva molta confusione fra identità di genere e orientamento. Per cui “i gay” erano quelli più effeminati o quelli che si travestivano. Oggi possiamo dire che il ruolo di genere o l’identità di genere non sono direttamente collegabili all’orientamento sessuale, e questo vale per gli uomini come per le donne».
Ma di omofobia sentiamo parlare spesso.
«Sì, da una parte c’è stata una crescita abbastanza evidente, anche con la legge sulle unioni civili, ma dall’altra con questo riconoscimento di alcuni diritti, e con tutta la discussione che ne è nata, c’è stato un acuirsi dell’ostilità in certi ambienti un po’ più fondamentalisti. E sono nati gruppi contro i diritti delle persone gay e lesbiche».
Quindi un’omofobia meno diffusa ma più militante.
«Sì, prima era più un comportamento automatico, diciamo. Ora è più organizzata e cerca di fare breccia tra i giovani, hanno parole d’ordine molto furbe a livello di comunicazione. Evidentemente hanno molti fondi a disposizione, penso ad associazioni come Pro Vita che contano pochi iscritti ma riescono a fare campagne enormi».
Perché una maggioranza ha questa percezione di sé (e questa reattività) da minoranza minacciata?
«In realtà è vero che c’è una crisi del modello familiare. Però non è dovuta ai gay, che invece sono diventati più familisti degli etero, ma alla logica della famiglia mononucleare. Oggi la famiglia tradizionale di cui tanto parlano è minoritaria, se guardiamo le percentuali sono molti di più divorziati, separati, famiglie allargate, single. Invece che approcciarsi a queste tematiche in modo ideologico bisognerebbe partire dalla realtà».
Le campagne incidono?
«Eccome. Soprattutto due: quella dell’ideologia gender e quella dell’utero in affitto».
L’ideologia gender esiste?
«Esiste nelle organizzazioni tradizionaliste. Fra l’altro non ho capito perché ricorrono a un termine inglese anziché dirlo in italiano: noi parliamo di studi di genere, di politiche di genere».
Pure il Papa ne parla.
«Il nostro approccio, libertario e consapevole rispetto alla propria identità, crea un problema nel paradigma educativo. Oggi, nonostante la società sia più avanti, siamo sempre divisi fra maschi e femmine. Da quando nasci hai il tuo fiocco rosa o azzurro, e i comportamenti dei genitori sono diversi rispetto a un figlio maschio o a una figlia femmina, perché nella socializzazione del genere che avviene dall’ospedale alla famiglia e poi nella scuola, sui mass media eccetera, ci sono delle aspettative e c’è la paura di deluderle. Quindi a volte ci si conforma a certi comportamenti per la paura di deludere i propri genitori. Ad esempio “non piangere come una femminuccia” io continuo a sentirlo. Eppure significa privare gli uomini della valvola di sfogo del pianto, inibire l’esposizione dei sentimenti e acuire l’aggressività. Parliamo di violenza di genere? Partiamo anche da qui: se devo essere l’uomo, quello che non può dimostrare debolezza, alla fine questo mi creerà frustrazioni che poi metabolizzerò in rabbia e aggressività. Questa non è una giustificazione, sia chiaro: è un tentativo di capire da dove arrivano certe cose. Che accadono se non veniamo educati a capire che cosa sono gli stereotipi di genere e come incidono sul nostro pensare quotidiano».
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«Così abbiamo detto no al grande Valentino»
La straordinaria storia di Ida e Maria Ausilia Porceddu e del loro atelier di alta moda e abiti da sposa
Maria Ausilia Porceddu (L'Unione Sarda)
C’erano, ad Assemini, due bambine con un sogno preciso: confezionare abiti d’alta moda. Ida e Maria Ausilia Porceddu oggi hanno 80 e 85 anni e possono dire di aver realizzato il loro sogno. Anzi, sono andate oltre: hanno avuto la possibilità di scegliere di restare nella loro Assemini e addirittur
a il coraggio di rifiutare l’invito dello stilista Valentino di lasciare l’Isola per andare a lavorare con lui.
La storia
Le sorelle Porceddu oggi ripercorrono la loro vita. «La seconda guerra mondiale era appena terminata, desideravamo cancellare la distruzione e l’orrore e riportare bellezza nei giorni, sentivamo il bisogno di riappropriarsi della speranza e della fiducia nel domani: sognavano di confezionare abiti che, come un incantesimo, avrebbero reso le donne di nuovo felici e bellissime».
La loro storia di imprenditoria femminile ha il sapore di una favola d’altri tempi. «Assieme a mia sorella Ida, maggiore di cinque anni, abbiamo frequentato l’Azione Cattolica», dice Maria Ausilia, «dalle suore abbiamo imparato a cucire. Poi si sono aperte le porte dell’atelier “La Turineisa” in via Garibaldi a Cagliari, avevo tredici anni. Siamo state accolte non solo per le eccellenti capacità, l’eleganza d’animo era un requisito indispensabile. Noi veniamo da una realtà agropastorale ma i nostri genitori Giovanna e Luigi ci hanno insegnato ad essere garbate, riflettere e stare attente a non ferire la sensibilità degli altri con azioni o parole maldestre. L’attenzione verso gli altri costruisce un mondo migliore, i nostri genitori conoscevano il vero significato di stile e raffinatezza».
Tutte le mattine all’alba le sorelle Porceddu raggiungevano Cagliari in treno e rientravano a casa solo la sera, la notte continuavano a cucire nella camera da letto della nonna Efisia Abis «nel silenzio della notte il rumore della macchina da cucire la cullava, ci fermavano solo per farle una carezza. Ti disturbiamo nonna? No figlie mie è dolce la vostra compagnia».
Il successo
I loro abiti conquistano e assieme alla clientela cresce l’idea di fondare un loro atelier, Maria Ausilia racconta: «Avevo ventitré anni quando chiesi un finanziamento ma il funzionario del Cis mi invitò a desistere. Una ragazza carina come lei ,ma pensi a divertirsi! e poi cosa ha da ipotecare? Io risposi mostrando le mani. Sono le mani la mia ipoteca, se non lavoro come posso divertirmi? Sono riuscita a costruire il mio atelier malgrado il pregiudizio del funzionario. Abbiamo sfilato su palchi importantissimi come l’Ariston a Sanremo, il grande Valentino si interessò a noi ma io decisi di rimanere in Sardegna accanto alla mia famiglia. Non rifarei nulla in maniera diversa, sento di aver colto tutte le possibilità e di aver fatto sempre la scelta giusta. Sono figlia di un’epoca in cui le donne sceglievano di diventare madri e mogli, abbiamo realizzato abiti da sposa per tantissime ragazze , ma il matrimonio è una missione impegnativa e io ho scelto la libertà. Con ago e filo abbiamo realizzato il nostro sogno di alta moda in Sardegna è stato questo il mio abito più bello».
Angela Caddeo
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