di Gianni Bazzoni
Il «sassarino» di 107 anni che non temeva di morire Si è spento nella sua casa di Mores uno degli ultimi fanti sardi che conobbero le stragi nelle trincee
MORES. L’aveva detto anche di recente: «Non ho paura di morire, il mio è un viaggio sereno che sta per concludersi». Giovanni Antonio Carta, uno dei più giovani soldati italiani sul fronte della prima guerra mondiale, si è spento ieri all’alba. Aveva 107 anni. Il 28 dicembre ne avrebbe compiuto 108.
È vero, non aveva paura della morte, perchè al fronte aveva visto «le peggiori brutture che un avvenimento come la guerra possa riservare». L’ultimo “sassarino”, si diceva. L’ultimo dei centomila (tanti furono i sardi chiamati alle armi nella campagna del 1915-18 che mobilitarono le classi dal 1876 al 1899). Tiu Giuann’Antoni Carta, ieri se n’è andato quando cominciava a fare giorno e non ha fatto in tempo a sapere l’ultima novità. Lui era il più anziano soldato della Brigata Sassari vivente, ma in Italia. In Francia, a Saint Tropez, infatti, c’è un altro cavaliere di Vittorio Veneto: si chiama Giustino Tuveri, originario di Collinas (nel Cagliaritano) dove è nato il 13 maggio 1898. Tuveri era emigrato in Francia nel 1920 e da allora ha sempre vissuto all’estero. Un mese fa il colonnello Gianfranco Scalas, comandante del distaccamento alla sede del 151º Reggimento attualmente impegnato in Afghanistan, l’aveva rintracciato telefonicamente.
«Ho parlato con lui tramite la figlia - ha raccontato Scalas - perchè l’unico problema che Tuveri sembra avere a 108 anni è quello dell’udito».
Giustino Tuveri, inquadrato nel 152º Reggimento fanteria (gemello del 151º nel quale militava Giovanni Antonio Carta) non ha mai interrotto i contatti con il suo paese di origine, e la scorsa estate a Collinas è stato organizzato in suo onore un festeggiamento pubblico al quale ha partecipato commosso in video-conferenza da Saint Tropez.
Il caporal maggiore Giovanni Antonio Carta sarebbe stato felice di incontrare il «vecchio» collega. Da qualche anno non faceva più programmi, viveva alla giornata con la consapevolezza di rappresentare un pezzo di storia della Sardegna e dell’Italia. Non gli piaceva, invece, quella definizione di «monumento vivente», perchè sapeva troppo di «cosa fredda, immobile», insomma di statua.
Era fatto così tiu Giuann’Antoni: figlio di contadini, non ha mai rinnegato le proprie origini («in quel tempo in Sardegna si cominciava fin da bambini ad aiutare i familiari nel lavoro») e finchè ne ha avuto la forza ha continuato a recarsi nei campi, ha coltivato l’orto.
Energico, lucido e preciso, così ha vissuto fino agli ultimi giorni il caporal maggiore Giovanni Antonio Carta. Ogni incontro era l’occasione per rivivere momenti storici, per raccontare episodi (molti dei quali inediti) e sentirsi sempre più vicino a una istituzione e a una bandiera che ha sempre difeso. E per festeggiare il compleanno di quel giovinotto di 107 anni, il 28 dicembre dello scorso anno, nella sua casa di Mores, era arrivato anche il ministro sardo della Difesa Arturo Parisi. Attorno a lui anche il comandante della Brigata Luigi Francesco De Leverano, il prefetto Salvatore Gullotta, il questore Cesare Palermi, il comandante provinciale dei carabinieri Paolo Carra, e il sindaco di Mores Pasquino Porcu, oltre a una delegazione dell’associazione della Brigata Sassari. Anche per loro «pillole» di ricordi. Limpidissimo quello dei 18 anni. «Ricordo perfettamente quella notte - aveva detto Giovanni Antonio Carta - perchè festeggiai facendo la vedetta, con l’inverno che ormai si faceva sentire in maniera pungente. Venni ricoverato per quindici giorni all’ospedale militare di Fontanelle a causa del congelamento dei piedi. L’equipaggiamento che allora avevamo in dotazione non era dei migliori e le fasce sopra gli scarponi non erano sufficienti a proteggere dall’umidità e dal freddo».
Da soldato semplice a caporalmaggiore (15 giugno 1918), una esperienza forte mai dimenticata che l’ha aiutato a non banalizzare le cose della vita, fino all’ultimo giorno. «La fame era uno dei problemi da risolvere - aveva raccontato, scrivendo anche una testimonianza diretta in Sos Ammentos -; bere era meno problematico, perchè scioglievamo la neve, ma il cibo era scarso e poco nutriente e consisteva esclusivamente in gallette e zuppa». Spirito di fratellanza «mai più provato nel corso della mia vita», così diceva tiu Giuann’Antoni e sottolineava che «allora come oggi, le difficoltà, la fame, le privazioni possono essere superate solo credendo nei valori che ci sono stati trasmessi». Ieri alla famiglia del “sassarino“ sono arrivate numerose testimonianze di cordoglio. A cominciare dal capo di Stato maggiore dell’Esercito, il generale Filiberto Cecchi e di tutta la forza armata. Un saluto sull’attenti per quel soldato che ha partecipato alle vicende belliche più importanti della prima guerra mondiale.
di Pier Giorgio Pinna
Una vita a cavallo di tre secoli . Non amava la retorica, negli incubi rievocava gli orrori « Vidi uccidere 29 prigionieri perché non potevamo sfamarli » Esperienze belliche spesso mitizzate dal passare del tempo
MORES. Quando nacque Giovanni Antonio Carta, Giuseppe Garibaldi era morto da 17 anni. E ora che se n’è andato anche lui, uno degli ultimi sopravvissuti al conflitto spacciato a lungo da storici vicini ai Savoia come Quarta guerra d’indipendenza, di quell’antica epopea non ci sono quasi più testimoni. Il «sassarino» di Mores ha conosciuto Emilio Lussu, il generale Giuseppe Musinu, persino Armando Diaz.
Personaggi che oggi appare addirittura un po’ incongruo mettere in correlazione immediata col nostro tempo. Un mondo che ancora oggi viene ricordato con eccessiva retorica e che di lì a breve sarà sepolto dal fascismo, dalla Shoah, dagli altri orrori ancora maggiori della seconda guerra mondiale. Ma soltanto ricordando che cos’è successo dopo - con la Ricostruzione, la Guerra fredda, i conflitti in Corea e in Vietnam, la caduta del Muro di Berlino, le infinite e cruente crisi in Medio Oriente, il terrorismo internazionale, l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq - si riesce forse a capisce come la vita di Carta abbia davvero attraversato tre secoli: l’Ottocento, il Novecento, il Duemila.
Un’èra, quella dei fanti della «Sassari», che lui per primo, da buon contadino attento alla sostanza dei fatti, non ha mai voluto celebrare con affermazioni pompose e fuori luogo. Certo, Carta è sempre stato orgoglioso di aver fatto parte della leggendaria Brigata, in tutti i tempi quella con più medaglie d’oro al valore dell’intero esercito italiano. Ma non ha mai voluto dimenticare né mettere la sordina sulle violenze, sulle le atrocità, sulla fame. Confidando spesso di esserne stato spettatore. E non riuscendo più a scordarle negli incubi che l’assaliranno di notte, anche molti decenni più tardi.
Per comprendere il suo stato d’animo basta ricordare un episodio che l’ultimo «sassarino» ha raccontato nella lunghissima vecchiaia. «Da soldato ti sembrava sempre di non mangiare abbastanza - diceva - Per colpa della fame ho assistito a qualcosa che non avrei mai voluto vedere. La mia Compagnia aveva catturato ventinove militari nemici: erano lì inermi, disarmati, vinti. Ma noi non avevamo viveri neppure per noi. Il capitano risolse la questione ordinando la fucilazione dei prigionieri. Ricordo ancora la faccia di ciascuno di loro: quando capirono che stavano per venire uccisi, si misero a piangere disperatamente. In battaglia avevo sparato spesso. Ma non era la stessa cosa: quelli non erano più nemici, non potevano più farci nulla».
Sulla Grande guerra esiste tanti saggi storici e una sconfinata memorialistica. Pochi i libri che mettono da parte gli eroismi inventati per ragioni di propaganda e il falso coraggio di soldati che andavano all’assalto delle linee nemiche sapendo che dietro di loro c’erano i carabinieri pronti a far fuoco su chi tornava indietro. Tra i saggi dell’antiretorica, su versanti soltanto in apparenza opposti per via della nazionalità, «All’Ovest niente di nuovo», di Erich Maria Remarque, e «Un anno sull’altipiano», del fondatore del Psd’Az. Nomi che, da soli, danno l’idea di un’epoca che si è chiusa per sempre e che solo per un destino straordinario Carta ha continuato a rappresentare sino a ieri. Lo scrittore tedesco, che poi diverrà antinazista, era nato nel 1898 e scomparso nel 1970. Emilio Lussu, di Armungia, classe 1890, morirà nel 1975. È stato soprattutto grazie alle loro opere smitizzanti, oltre ai racconti di tanti reduci, che gli europei sono venuti a conoscenza dell’inutilità e della ferocia delle carneficine.
Della fucilazione dei prigionieri austriaci si parla anche in un saggio del giornalista sassarese Edoardo Pittalis, ora direttore del «Gazzettino di Venezia». Un testo pubblicato dalle Edizioni Biblioteca dell’Immagine nel settembre scorso con una prefazione di Enzo Biagi. Il titolo è «La guerra di Giovanni - L’Italia al fronte: 1915-1918». Nel libro ci si sofferma sulle storie di molti italiani (7 milioni nel corso dell’intero conflitto). Tutti chiamati alle armi «per difendere la Patria» sul Piave, sul Carso, sull’altipiano di Asiago. Fra loro, appunto, Giovanni Carta, al quale è dedicato il capitolo conclusivo.
Uno degli ultimi «ragazzi del ’99», come furono ribattezzati i soldati di quella classe d’età all’indomani della vittoria, era nato in un paese già all’epoca a economia agro-pastorale che non superava i mille abitanti. A Mores, su tanti soldati partiti dal piccolo centro in quei mesi, solo 4 sopravvissero. Niente d’inconsueto, almeno per i tempi. Dalla Sardegna arrivavano nel Nord Est a decine di migliaia: molti non tornarono più o rientrarano mutilati e feriti.
Figlio di contadini, Carta già da piccolo lavorava in campagna, attività che, a ostilità cessate, proseguirà sino alla pensione. Aveva quattro fratelli e sei sorelle. Arruolato e addestrato nell’estate del 1917, quando ancora non aveva compiuto diciotto anni, pochi mesi più tardi venne mandato al fronte come tanti coetanei. Obiettivo: risollevare le sorti di una guerra che all’indomani di Caporetto pareva irrimediabilmente perduta. Quell’inverno Carta lo passò quasi tutto sul Col del Rosso, dove poche decine di metri separavano le trincee italiane dalle austriache e dove i soldati dei due eserciti, nelle pause dei combattimenti, potevano perfino parlare tra di loro. Poi partecipò agli assalti nella battaglia dei Tre Monti, agli scontri sul Piave, agli attacchi finali in quel territorio che da allora sarebbe stato chiamato Vittorio Veneto.
Si è congedato col grado di caporalmaggiore. Non ha mai nascosto le paure vissute in trincea: «Ma sicuramente anche gli austriaci avevano paura di me», era solito dire. Dal 1968, per quasi quarant’anni, ogni mese, ha avuto una pensione di guerra, pari a 43 euro (lordi) di oggi. Insieme col titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto, Giovanni Antonio Carta ha ricevuto una croce al merito: custodita nella sua casa di Mores sino all’ultimo, è retta da un nastro con i colori della bandiera italiana.
MORES. Quando nacque Giovanni Antonio Carta, Giuseppe Garibaldi era morto da 17 anni. E ora che se n’è andato anche lui, uno degli ultimi sopravvissuti al conflitto spacciato a lungo da storici vicini ai Savoia come Quarta guerra d’indipendenza, di quell’antica epopea non ci sono quasi più testimoni. Il «sassarino» di Mores ha conosciuto Emilio Lussu, il generale Giuseppe Musinu, persino Armando Diaz.
Personaggi che oggi appare addirittura un po’ incongruo mettere in correlazione immediata col nostro tempo. Un mondo che ancora oggi viene ricordato con eccessiva retorica e che di lì a breve sarà sepolto dal fascismo, dalla Shoah, dagli altri orrori ancora maggiori della seconda guerra mondiale. Ma soltanto ricordando che cos’è successo dopo - con la Ricostruzione, la Guerra fredda, i conflitti in Corea e in Vietnam, la caduta del Muro di Berlino, le infinite e cruente crisi in Medio Oriente, il terrorismo internazionale, l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq - si riesce forse a capisce come la vita di Carta abbia davvero attraversato tre secoli: l’Ottocento, il Novecento, il Duemila.
Un’èra, quella dei fanti della «Sassari», che lui per primo, da buon contadino attento alla sostanza dei fatti, non ha mai voluto celebrare con affermazioni pompose e fuori luogo. Certo, Carta è sempre stato orgoglioso di aver fatto parte della leggendaria Brigata, in tutti i tempi quella con più medaglie d’oro al valore dell’intero esercito italiano. Ma non ha mai voluto dimenticare né mettere la sordina sulle violenze, sulle le atrocità, sulla fame. Confidando spesso di esserne stato spettatore. E non riuscendo più a scordarle negli incubi che l’assaliranno di notte, anche molti decenni più tardi.
Per comprendere il suo stato d’animo basta ricordare un episodio che l’ultimo «sassarino» ha raccontato nella lunghissima vecchiaia. «Da soldato ti sembrava sempre di non mangiare abbastanza - diceva - Per colpa della fame ho assistito a qualcosa che non avrei mai voluto vedere. La mia Compagnia aveva catturato ventinove militari nemici: erano lì inermi, disarmati, vinti. Ma noi non avevamo viveri neppure per noi. Il capitano risolse la questione ordinando la fucilazione dei prigionieri. Ricordo ancora la faccia di ciascuno di loro: quando capirono che stavano per venire uccisi, si misero a piangere disperatamente. In battaglia avevo sparato spesso. Ma non era la stessa cosa: quelli non erano più nemici, non potevano più farci nulla».
Sulla Grande guerra esiste tanti saggi storici e una sconfinata memorialistica. Pochi i libri che mettono da parte gli eroismi inventati per ragioni di propaganda e il falso coraggio di soldati che andavano all’assalto delle linee nemiche sapendo che dietro di loro c’erano i carabinieri pronti a far fuoco su chi tornava indietro. Tra i saggi dell’antiretorica, su versanti soltanto in apparenza opposti per via della nazionalità, «All’Ovest niente di nuovo», di Erich Maria Remarque, e «Un anno sull’altipiano», del fondatore del Psd’Az. Nomi che, da soli, danno l’idea di un’epoca che si è chiusa per sempre e che solo per un destino straordinario Carta ha continuato a rappresentare sino a ieri. Lo scrittore tedesco, che poi diverrà antinazista, era nato nel 1898 e scomparso nel 1970. Emilio Lussu, di Armungia, classe 1890, morirà nel 1975. È stato soprattutto grazie alle loro opere smitizzanti, oltre ai racconti di tanti reduci, che gli europei sono venuti a conoscenza dell’inutilità e della ferocia delle carneficine.
Della fucilazione dei prigionieri austriaci si parla anche in un saggio del giornalista sassarese Edoardo Pittalis, ora direttore del «Gazzettino di Venezia». Un testo pubblicato dalle Edizioni Biblioteca dell’Immagine nel settembre scorso con una prefazione di Enzo Biagi. Il titolo è «La guerra di Giovanni - L’Italia al fronte: 1915-1918». Nel libro ci si sofferma sulle storie di molti italiani (7 milioni nel corso dell’intero conflitto). Tutti chiamati alle armi «per difendere la Patria» sul Piave, sul Carso, sull’altipiano di Asiago. Fra loro, appunto, Giovanni Carta, al quale è dedicato il capitolo conclusivo.
Uno degli ultimi «ragazzi del ’99», come furono ribattezzati i soldati di quella classe d’età all’indomani della vittoria, era nato in un paese già all’epoca a economia agro-pastorale che non superava i mille abitanti. A Mores, su tanti soldati partiti dal piccolo centro in quei mesi, solo 4 sopravvissero. Niente d’inconsueto, almeno per i tempi. Dalla Sardegna arrivavano nel Nord Est a decine di migliaia: molti non tornarono più o rientrarano mutilati e feriti.
Figlio di contadini, Carta già da piccolo lavorava in campagna, attività che, a ostilità cessate, proseguirà sino alla pensione. Aveva quattro fratelli e sei sorelle. Arruolato e addestrato nell’estate del 1917, quando ancora non aveva compiuto diciotto anni, pochi mesi più tardi venne mandato al fronte come tanti coetanei. Obiettivo: risollevare le sorti di una guerra che all’indomani di Caporetto pareva irrimediabilmente perduta. Quell’inverno Carta lo passò quasi tutto sul Col del Rosso, dove poche decine di metri separavano le trincee italiane dalle austriache e dove i soldati dei due eserciti, nelle pause dei combattimenti, potevano perfino parlare tra di loro. Poi partecipò agli assalti nella battaglia dei Tre Monti, agli scontri sul Piave, agli attacchi finali in quel territorio che da allora sarebbe stato chiamato Vittorio Veneto.
Si è congedato col grado di caporalmaggiore. Non ha mai nascosto le paure vissute in trincea: «Ma sicuramente anche gli austriaci avevano paura di me», era solito dire. Dal 1968, per quasi quarant’anni, ogni mese, ha avuto una pensione di guerra, pari a 43 euro (lordi) di oggi. Insieme col titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto, Giovanni Antonio Carta ha ricevuto una croce al merito: custodita nella sua casa di Mores sino all’ultimo, è retta da un nastro con i colori della bandiera italiana.
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